Il manifesto del 13 dicembre 2002
Una anno fa in Afghanistan le stragi di Mazar-i-Sharif
Crimini di guerra
Documentate le stragi nascoste nel deserto di Dasht-i-Layli compiute dal sanguinario
Dostum con la complicità di agenti americani e le vittime civili dei bombardamenti Usa
G. S.
Ad oltre un anno dall'intervento occidentale, in Afghanistan la protezione dei diritti
umani e il ristabilimento della sicurezza minima si scontra con seri ostacoli, secondo il
rapporto stilato dall'organizzazione umanitaria Human rights watch nell'anniversario degli
accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. «Molti degli accordi non sono stati applicati
nell'ultimo anno. La comunità internazionale ha perso molte buone occasioni per
condizionare i comandanti militari locali al potere e per promuovere la sicurezza e la
protezione dei diritti umani», ha commentato Brad Adams, direttore esecutivo della
divisione Asia di Human rights watch.
Massacro a Mazar
Non solo la presenza internazionale non ha condizionato i signori della guerra locali ma
li ha affiancati quando hanno compiuto crimini e stragi. La strage più agghiacciante e
che - come altri fatti in questa guerra è rimasta per mesi nascosta - è sicuramente
quella di Mazar-i-Sharif. Una strage sotterrata nelle fosse comuni dell'immenso deserto di
Dasht-i-Layli insieme alle migliaia di taleban e militanti di al Qaeda. A compiere l'opera
sono stati gli uomini del generale uzbeko Rashid Dostum, espressione locale dell'Alleanza
del nord e alleato della campagna antiterrorismo, affiancati dagli agenti speciali
americani. Così sono spariti migliaia - si parla di circa 2.000 o forse più - di taleban
e militanti di al Qaeda che si erano arresi a Kunduz (dicembre 2001) con la promessa di
avere salva la vita e invece erano finiti soffocati o massacrati nei container che li
dovevano portare nella famigerata prigione di Shebargan. Nel giugno scorso (come già
riferito su il manifesto) avevamo visitato quei luoghi e parlato con testimoni sia a
Shebargan che a Mazar-i-Sharif, dove avevamo scoperto alcune delle fosse comuni nel
deserto, a due passi da Shebargan. Nella fortezza di Qala-i-Janghi, a una ventina di
chilometri da Mazar, erano ancora evidenti i segni dei bombardamenti che avevano provocato
la morte di circa 500-600 (a seconda delle fonti) taleban e militanti di al Qaeda, i primi
ad essersi arresi a Kunduz. Uno dei responsabili della sicurezza di Mazar, il generale
Akhtar Mohammed, ci avevano detto che i detenuti si erano ribellati con le armi che non
erano state loro sequestrate (?!) perché erano arrivati di notte ed erano in tanti,
troppi, da controllare. Avevamo anche potuto parlare con alcuni prigionieri pakistani e
afghani ancora detenuti in un sotterraneo nel centro dei servizi di sicurezza a Mazar. A
Shebargan, della condizione dei detenuti ancora in carcere - sopravvissuti al trasporto
nei container e agli interrogatori degli americani e non dirottati a Guantanamo, o non
liberati a pagamento - ci avevano parlato gli infermieri di Emergency che avevano iniziato
a gestire la clinica all'interno del carcere.
Questo, e di più, è efficacemente mostrato nel documentario scioccante girato dal
regista britannico Jamie Doran. Un documento straordinario ed estremamente imbarazzante
perché fa emergere non solo le responsabilità del sanguinario Dostum ma anche quelle
degli americani. Insieme all'efferatezza delle atrocità commesse. Che sono state
documentate anche da un rapporto dei Physicians for human rights (americani) e da un
reportage di Newsweek. Una delle pagine più nere della campagna afghana, un tema
scottante tanto che una vera inchiesta non è stata avviata perché nessuno è in grado di
proteggere i testimoni e, infatti, due di coloro che hanno testimoniato nel documentario
sono stati uccisi e altri torturati.
Bombe sui civili
Se i crimini di Mazar sono stati tenuti nascosti e svelati soprattutto grazie all'impegno
di Jamie Doran, altre stragi sono state compiute sotto gli occhi di tutti senza suscitare
lo sdegno che avrebbero dovuto. Innanzitutto i bombardamenti che hanno colpito la
popolazione civile. Le ultime stime - riportate dalla Bbc - parlano di circa 6.000 vittime
tra la popolazione civile, purtroppo il prezioso e minuzioso resoconto delle vittime fatto
dal professor Marc W. Herold dell'università del New Hampshire si ferma al 6 dicembre
quando, a otto settimane e mezzo dall'inizio dell'intervento armato, erano già 3.767.
Tuttavia Herold non ha trascurato la denuncia di altri tremendi massacri commessi più di
recente e si è soffermato in particolare e con dovizia di dettagli su quello di Kakarak,
dove 63 persone sono state uccise e numerose altre ferite durante un banchetto di
matrimonio. E' successo nella notte del 1° luglio 2002, in un villaggio sulle montagne di
Uruzgan. Un episodio inquietante che ha provocato lo sdegno della popolazione e la
frustrazione delle Nazioni unite, che con una prima missione, immediatamente dopo
l'attacco, avevano smentito la versione dei marine di un attacco da terra che avrebbe
provocato il loro bombardamento. Anzi i marine subito dopo erano scesi a terra a
cancellare le prove, dopo aver legato le donne presenti. Ma il rapporto non è mai stato
pubblicato.
I fatti di Uruzgan hanno provocato anche l'imbarazzo del presidente Karzai, che, per ovvi
motivi, non poteva accusare gli americani per difendere gli abitanti del villaggio
peraltro suoi sostenitori.
Un paio di mesi fa, trovandoci nella zona, avevamo cercato di raggiungere il villaggio ma
nessun afghano si era azzardato ad accompagnarci sfidando le minacce di chi vuole
nascondere i fatti. Peraltro i B-52 sono tornati in azione anche all'inizio di dicembre,
questa volta vicino ad Herat, colpendo ancora civili, anche se pare ci sia stato solo un
morto e alcuni feriti. E, purtroppo, non sarà certo l'ultima volta. Sono proprio questi
fatti, i bombardamenti sui civili, che aumentano l'ostilità verso gli americani - perché
gli afghani fanno distinzione tra i peacekeeping schierati a Kabul e i rambo di Endurign
freedom -, una ostilità che viene utilizzata a favore di quel che resta dei taleban che
uno dei più integralisti tra i vecchi leader dei mujahidin, Gulbuddin Hekmatyar,
contrario all'intervento americano, cerca di cavalcare.