Günther Anders, la condizione atomica

Ancora una volta ripubblichiamo questo testo a nostro avviso capitale di
Günther Anders.
Presentandolo in un opuscolo nel marzo del 1991 usavamo queste parole:
"Scriviamo dopo la guerra del Golfo, ovvero dopo aver fatto esperienza sia
del massacro là perpetrato anche dalle armi del nostro paese, sia del
consenso qui al massacro, che quanto più procedeva tanto più trovava non
solo prezzolati panegiristi, ma diffusa benevola accoglienza, giuliva o
indifferente o stordita, tra la nostra gente.
E proprio questa esperienza di carneficina e catastrofe materiale
apparentemente lontana, e di catastrofe spirituale -di degradazione etica e
politica- qui fra noi, ci ha indotto a rimettere in circolazione, nella
riflessione e nel dibattito di chi a questo macello e a questa menzogna non
si è arreso, il testo di Günther Anders che qui si ripubblica. Ci pare che
queste pagine di trenta anni fa contengano, nella loro distanza e nella
loro attualità, degli stimoli assai forti, e necessari, per il nostro
movimento: a una più ardua e severa responsabilità ci convochino.
Sempre di più, la realtà ha raggiunto Anders: le sue osservazioni sul
ricatto, sullo scarto tra concreta possibilità e produzione di orrore e sua
effettuale impensabilità, sulla menzogna che radicalmente ci avviluppa, e
le sue proposte di una critica del lavoro in termini assai penetranti, di
una resistenza che sia radicale perché alle radici della nostra condizione,
e del mondo, si riferisca, ci sembrano questioni -argomenti ed
interrogativi- di vitale importanza, letteralmente: di vitale importanza.
Finalità di questo opuscolo, come di altri che il "centro di ricerca per la
pace" di Viterbo ha altre volte prodotto e diffuso, è l'uso come base di
discussione in incontri di studio (quindi di approfondimento: di esercizio
e di illimpidimento) tra militanti del movimento che all'"annichilismo" si
oppone.
Il testo è ripreso dall'appendice all'edizione italiana del libro di
Günther Anders Der Mann auf der Brüke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki,
apparsa col titolo Essere o non essere, presso Einaudi, a Torino, nel 1961,
nella traduzione di Renato Solmi. Come lì si specifica, queste Tesi
sull'età atomica sono 'un testo improvvisato dall'autore dopo un dibattito
sui problemi morali dell'età atomica organizzato da un gruppo di studenti
dell'Università di Berlino-Ovest, e uscito nell'ottobre 1960 nella
rivistina "Das Argument - Berliner Hefte für Politik und Kultur" [Nota del
Traduttore]'". Premetto una breve notizia biobibliografica su Günther
Anders.

Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo

Viterbo, 21 luglio 2000

Notizia biobibliografica su Günther Anders
Profilo biografico: Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern, "anders"
significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui
scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) è nato a
Breslavia nel 1902, fu allievo di Husserl e si laureò in filosofia nel
1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo, trasferitosi negli
Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel
1950, si stabilì a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato
contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, è
uno dei maggiori filosofi contemporanei.
Opere di Günther Anders: Essere o non essere, Einaudi, poi Linea d'ombra;
La coscienza al bando - Il pilota di Hiroshima, Einaudi, poi Linea d'ombra;
L'uomo è antiquato, vol. I edito dal Saggiatore, vol. II edito da Bollati
Boringhieri; Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra; Opinioni di
un eretico, Theoria; Noi figli di Eichmann, Giuntina; Stato di necessità e
legittima difesa, ECP. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo; Uomo
senza mondo, Spazio Libri; Patologia della libertà, Palomar. In rivista
testi di Anders sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunità",
"Linea d'ombra", "Micromega".
Opere su Günther Anders: non ci risulta vi siano volumi monografici in
italiano su Anders; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri,
Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Pier Paolo Portinaro. Ovviamete si vedano
anche gli scritti di Hannah Arendt (cui fu per alcuni anni unito in
matrimonio), e per una discussione a partire da tesi diverse e per più
aspetti fin contrapposte i capolavori di Ernst Bloch e di Hans Jonas.

Günther Anders: Tesi sull'età atomica

Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è
cominciata un nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque
momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel
giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni
momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.
Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest'epoca è
l'ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità
dell'autodistruzione del genere umano, non può aver fine - che con la fine
stessa.

Età finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come
"dilazione"; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato
il problema morale fondamentale: alla domanda "Come dobbiamo vivere?" si è
sostituita quella: "Vivremo ancora?" Alla domanda del "come" c'è - per noi
che viviamo in questa proroga - una sola risposta: "Dobbiamo fare in modo
che l'età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei
tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo".
Poiché crediamo alla possibilità di una "fine dei tempi", possiamo dirci
apocalittici; ma poiché lottiamo contro l'apocalissi da noi stessi creata,
siamo (è un tipo che non c'è mai stato finora) "nemici dell'apocalissi".

Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella
situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale
situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche "armi atomiche", è un
inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente
dall'esistenza di "armi atomiche", è vero il contrario: che le cosiddette
azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.

Non arma ma nemico. Ciò contro cui lottiamo, non è questo o
quell'avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi
atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemico di
tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici
dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e
manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si
tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione
compiaciuta e spreco di tempo.

Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers
fino a Strauss suona: "La minaccia totalitaria può essere neutralizzata
solo con la minaccia della distruzione totale". E' un argomento che non
regge. 1) la bomba atomica è stata impiegata, e in una situazione in cui
non c'era affatto il pericolo, per chi la impiegò, di soccombere a un
potere totalitario. 2) L'argomento è un relitto dell'epoca del monopolio
atomico; oggi è un argomento suicida. 3) Lo slogan "totalitario" è desunto
da una situazione politica, che non solo è già essenzialmente mutata, ma
continuerà a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilità di
trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione
totale, è totalitaria per sua natura: poiché vive del ricatto e trasforma
la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse
della libertà, l'assoluta privazione della stessa, è il non plus ultra
dell'ipocrisia.

Ciò che può colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non
badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Così,
nell'età finale, non ci sono più distanze. Ognuno può colpire chiunque ed
essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro
agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia
mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di
ciò che ci riguarda, e cioè l'orizzonte della nostra responsabilità,
coincida con l'orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti;
e cioè che diventi anch'esso globale. Non ci sono più che "vicini".

Internazionale delle generazioni. Ciò che si tratta di ampliare, non è solo
l'orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche
quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le
esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse
rientrano nell'ambito del nostro presente. Tutto ciò che è "venturo" è già
qui, presso di noi, poiché dipende da noi. C'è, oggi, un'"internazionale
delle generazioni", a cui appartengono già anche i nostri nipoti. Sono i
nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco
si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora
costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati
appartengono a questa "internazionale": poiché con la nostra fine
perirebbero anch'essi,  per la seconda volta (se così si può dire) e
definitivamente. Anche adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda
morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.

Il nulla non concepito. Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al
pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati
alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è
già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al
compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo
nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di
qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e
permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo
stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione totale" (che
corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell'immaginazione, alla nostra
capacità di distruzione totale) trascende le forze della nostra
immaginazione naturale. "Trascendenza del negativo". Ma poiché, come
homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla
totale), la capacità limitata della nostra immaginazione (la nostra
"ottusità") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di
rappresentarci anche il nulla.

Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra
epoca: "Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci
un'immagine di ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo
"utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che
concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.

Lo "scarto prometeico". Non è questo un fatto fra gli altri; esso
definisce, invece, la situazione morale dell'uomo odierno: la frattura che
divide l'uomo (o l'umanità) non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra
il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la
nostra capacità immaginativa. Lo "scarto prometeico".

Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e
produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione.
Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità,
dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila.
Quanto più grande è l'effetto possibile dell'agire, e tanto più è difficile
concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo "scarto",
tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone
premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola
persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo
per provocare già una reazione), corrisponde il "sopraliminare": ciò che è
troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo
inibitorio).

La sensibilità deforma, la fantasia è realistica. Poiché il nostro
orizzonte vitale (l'orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti)
e l'orizzonte dei nostri effetti è ormai illimitato, siamo tenuti, anche se
questo tentativo contraddice alla "naturale ottusità" della nostra
immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua
naturale insufficienza, è solo l'immaginazione che può fungere da organo
della verità. In ogni caso, non è certo la percezione. Che è una "falsa
testimone": molto, ma molto più falsa di quanto avesse inteso ammonire la
filosofia greca. Poiché la sensibilità è - per principio - miope e limitata
e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli
"escapisti" di oggi non è la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri
normali (dipinti, cioè, secondo la prospettiva normale): benché realistici
in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perché sono in
contrasto con la realtà del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente
dilatati.

Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si
identifica con ciò che si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma
si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non
corrispondere alla realtà e al grado della minaccia, è quindi il grado
della nostra angoscia. - Nulla di più falso  della frase cara alle persone
di mezza cultura, per cui vivremmo già nell'"epoca dell'angoscia". Questa
tesi ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che
noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi
viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine
all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa
quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.
Postulato: "Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E
anche quello di far paura. Fa' paura al tuo vicino come a te stesso". Va da
sé che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1)
Un'angoscia senza timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero
schernirci come paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiché invece di
rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia
amante, che ha paura per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe
capitarci.

Fallimento produttivo. L'imperativo di allargare la portata della nostra
immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò
che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente
irrealizzabile. Non è nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di
fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo
lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la
ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché
ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non
possiamo immaginare.

Trasferimento della distanza. Riassumendo ciò che si è detto sulla "fine
delle distanze" e sullo "scarto" tra le varie facoltà (e solo così ci si
può fare un'idea completa della situazione), risulta che le distanze
spaziali e temporali sono state bensì "soppresse"; ma questa soppressione è
stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza": quella, che
diventa ogni giorno più grande, fra la produzione e la capacità di
immaginare ciò che si produce.

Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo
diventati maggiori di ciò che possiamo concepire (sentire, o di cui
possiamo assumerci la responsabilità), ma anche maggiori di ciò che
possiamo utilizzare sensatamente. E' noto che la nostra produzione e la
nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a
produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta
trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non
possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Così ci siamo
messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi
prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le
forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette
"pulite", sono senza precedenti nel loro genere: poiché con essi cerchiamo
di migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioé diminuendo i loro
effetti.
L'aumento dei prodotti non ha quindi più senso. Se il numero e gli effetti
delle armi già oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della
distruzione del genere umano, l'aumento e miglioramento della produzione,
che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora più assurdi; e
dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che
cosa hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della
concorrenza - ha perduto ogni senso. Più morto che morto non è possibile
diventare. Distruggere meglio di quanto già si possa, non sarà possibile
neppure in seguito.

Richiamarsi alla competenza è prova d'incompetenza morale. Sarebbe una
leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori
dell'apocalissi", quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a
posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano più di
noi all'altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare
l'inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano
consapevoli di doverlo fare. Assai più legittimo è il sospetto: che ne
siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo
incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a
non "immischiarci". L'uso di questi termini è addirittura la prova della
loro incompetenza morale: poiché in tal modo essi mostrano di credere che
la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del
"to be or not to be" dell'umanità; e di considerare l'apocalissi come un
"ramo specifico". E' vero che molti di loro si appellano alla "competenza"
solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la
parola "democrazia" ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e
il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica",
che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci
riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si
può dire che così facendo ci "immischiamo" di nulla, poiché come cittadini
e come uomini siamo "immischiati" da sempre, perché anche noi siamo la "res
pubblica". E un problema più "pubblico" dell'attuale decisione sulla nostra
sopravvivenza non c'è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a
"immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.

Liquidazione dell'"agire". La distruzione possibile dell'umanità appare
come un'"azione"; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E'
giusto? Sì e no. Perché no?
Perché l'"agire" in senso behavioristico non esiste pressoché più. E cioè:
poiché ciò che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale
dall'agente, è stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare;
2) dall'azionare.
1) Lavoro come surrogato dell'azione. Già quelli che erano impiegati negli
impianti di liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di
non aver fatto nulla perché si erano limitati a "lavorare". Per questo
"lavorare" intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella
fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l'eidos del lavoro
rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda più, e non può
né deve più riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno è che esso resta
moralmente neutrale: "non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo
lavoro può macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione
sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro
come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all'autore di un eccidio
di sentirsi colpevole, poiché non solo non occorre rispondere del lavoro
che si fa, ma esso - in teoria - non può rendere colpevoli. Stando così le
cose, dobbiamo rovesciare l'equazione attuale ("ogni agire è lavorare")
nell'altra: "ogni lavorare è un agire".
2) Azionare come surrogato del lavoro. Ciò che vale per il lavoro, vale a
maggior ragione per l'azionare, poiché l'azionare è il lavoro in cui è
abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello
sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realtà, si può fare in tal
modo pressoché tutto, si può avviare una serie di azionamenti successivi
schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In
questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non è più
un lavoro (per non parlare di un'azione). Propriamente parlando non si fa
nulla (anche se l'effetto di questo non-far-nulla è il nulla e
l'annientamento). L'uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora
necessario) non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo
dell'azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e
l'effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. "Schizotopia", in
analogia a "schizofrenia". E' chiaro che solo chi arriva a immaginare
l'effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla.
Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i
mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e
cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli
autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore
di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore è una vittima; in
questo senso Eatherly è una delle vittime della sua azione.

Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci
istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiché oggi le menzogne
non hanno più bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie").
La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento
davanti a cui non può più sorgere il sospetto che possa trattarsi di
menzogne; e ciò perché questi travestimenti non sono più asserzioni. Mentre
le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verità, ora si
camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno
l'impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realtà, hanno già
in sé il loro (bugiardo) predicato. Così, per esempio, l'espressione "armi
atomiche" è già un'asserzione menzognera, poiché sottintende, poiché dà per
scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realtà subentrano (e siamo  al punto
che abbiamo appena trattato) realtà falsificate. Così determinate azioni,
presentandosi come "lavori", sono rese diverse e irriconoscibili; così
irriconoscibili, e diverse da un'azione, che non rivelano più (neppure
all'agente) quello che sono (e cioè azioni); e gli permettono, purché
lavori "coscienziosamente", di essere un criminale con la miglior coscienza
del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finché l'agire si traveste
ancora da "lavorare", è pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa
che cosa fa lavorando, e cioè che agisce. La menzogna celebra il suo
trionfo solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che è già
accaduto. Poiché l'agire si è trasferito (naturalmente in seguito all'agire
degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei
prodotti. Essi sono, per così dire, "azioni incarnate". La bomba atomica
(per il semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà
negare che il ricatto è un'azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma
più menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non
c'entriamo. Assurdità della situazione: nell'atto stesso in cui siamo
capaci dell'azione più enorme - la distruzione del mondo - l'"agire", in
apparenza, è completamente scomparso. Poiché la semplice esistenza dei
nostri prodotti è già un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo
"fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come
"deterrent"), è una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette
che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.

Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l'espressione
"reificazione" non si coglie il fatto che i prodotti sono, per così dire,
"agire incarnato", poiché essa indica esclusivamente il fatto che l'uomo è
ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell'altro lato
(trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioè del
fatto che ciò che è sottratto all'uomo dalla reificazione, si aggiunge ai
prodotti: i quali, facendo qualcosa già per il semplice fatto di esistere,
diventano pseudopersone.

Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi
principî. Così, per esempio, il principio delle "armi atomiche" è affatto
nichilistico, poiché per esse "tutto è uguale". In esse il nichilismo ha
toccato il suo culmine, dando luogo all'"annichilismo" più totale.
Poiché il nostro agire si è trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame
di coscienza non può consistere oggi soltanto nell'ascoltare la voce nel
nostro petto, ma anche nel captare i principî e le massime mute dei nostri
lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel
trasferimento: e cioè nel compiere solo quei lavori dei cui effetti
potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e
nell'avere solo quei prodotti la cui presenza "incarna" un agire che
potremmo assumerci come agire personale.

Macabra liquidazione dell'ostilità. Se il luogo dell'azione e quello che la
subisce sono, come si è detto, dissociati, e non si soffre più nel luogo
dell'azione, l'agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire
subire senza causa riconoscibile. Si determina così un'assenza d'ostilità,
peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sarà la più priva d'odio che si sia mai vista.
Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima
non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più
macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore
positivo). Ciò che più sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, è
quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.
Certo l'odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sarà
quindi prodotto come articolo a sé. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al
caso, s'inventeranno) oggetti d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei"
di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiché per poter odiare
veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest'odio non
potrà entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e
proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che
odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.

Non solo per quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna
aggiungere che sono state scritte perché non risultino vere. Poiché esse
potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta
probabilità, e se agiremo in conseguenza. Nulla di più terribile che aver
ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilità della
catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore
degli uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa?
Continuiamo come se non lo fossimo!"