Pier Cesare Bori, pace e diritti umani

Il testo di Pier Cesare Bori che di seguito proponiamo ad una rinnovata
meditazione, è del 1988, scritto in circostanze drammatiche, la morte di un
collega assassinato da terroristi, per invitare ad una riflessione che
valesse non solo come elaborazione del lutto ma anche come proposta di
accostamento alla nonviolenza (se ci è concesso di condensare in tale
sintetica formula un vasto e complesso intreccio di mozioni profonde e
ortative, di scelte morali impellenti, di appello razionale nitido e
chiarificante).
E questo testo scritto come base per una riflessione tra docenti e studenti
della Facoltà universitaria bolognese in cui la persona assassinata
insegnava, è stato successivamente pubblicato su una rivista di Palermo, la
rivista "Segno" animata da padre Nino Fasullo, che è una delle voci grandi
dell'impegno antimafia e dell'impegno di pace, intesi giustamente come un
unico coerente dovere.

Pier Cesare Bori è una figura di intellettuale, di educatore, di difensore
dei diritti umani, di costruttore di pace, che non ha bisogno di
presentazioni; anche chi non si occupa dei campi di indagine da lui
maggiormente esplorati, avrà almeno incontrato certi suoi lavori come il
libro in collaborazione con Gianni Sofri su Gandhi e Tolstoj edito dal
Mulino, la monografia agile ma pungente su Tolstoj per le Edizioni Cultura
della Pace, e il saggio su L'altro Tolstoj edito dal Mulino, cui si è
aggiunto recentemente un pregevole lavoro sul "Discorso sulla dignità umana"
di Pico della Mirandola, presso Feltrinelli. Per sua iniziativa si sono
svolti i grandi convegni bolognesi su La pena di morte nel mondo (atti
pubblicati da Marietti, 1982) e su L'intolleranza (atti pubblicati dal
Mulino, 1985).
Bori insegna attualmente filosofia morale a Bologna, e chi ha un modem pò
visitare con autentico profitto il suo eccellente sito.

Sempre su "Segno", nel fascicolo n. 81-82 dell'aprile-maggio 1987, alle pp.
7-13, Bori aveva pubblicato Dieci tesi su tolleranza, diritti umani, pace
(originariamente una traccia usata per vari incontri di presentazione del
volume su L'intolleranza, sopra ricordato), da cui ci piace riportare per
estratto almeno le tesi vere e proprie -ma naturalmente invitiamo i lettori
a voler leggere anche le argomentazioni e gli sviluppi che delle tesi in
quel testo l'autore dava-:
"1. L'adozione del principio del rispetto della persona, della protezione e
promozione dei suoi diritti come criterio decisivo e primario nella politica
internazionale è un obiettivo che va perseguito tenacemente, perché
inscindibile da quello della pace e dello sviluppo, e anzi preliminare a questi.
2. L'intolleranza -come incapacità di accettare la diversità culturale (in
senso antropologico) è oggi una grave realtà: le tensioni e i conflitti che
attraversano il mondo attuale sono solo in parte spiegabili con squilibri
economico-politici: per molta parte essi dipendono dall'oggettiva difficoltà
a sopportare la differenza culturale. Ciò sarà ancor più vero nel futuro.
3. Tolleranza non significa indifferenza, intellettuale o morale, ma
capacità di accettare la diversità, riconoscendo la fondamentale comune
identità umana.
4. La tolleranza è un atteggiamento dinamico. Le sue motivazioni da
puramente opportunistiche possono e debbono diventare etiche e interne al
processo stesso del conoscere.
5. All'etnocentrismo, alle ideologie erette a visioni totali del mondo, agli
integralismi religiosi occorre opporre una comprensione dall'interno che
metta quanto più possibile in evidenza gli elementi universali presenti nei
vari contesti. Questo processo di autointerpretazione si regge su due
premesse: particolarità e universalità non son tra loro in contrasto;
nessuna cultura è "innocente".
6. Ma alle violazioni più elementari del diritto, alla libertà e
all'integrità fisica, occorre opporre la vigilanza più strenua, intervenendo
con la forza della verità e del diritto. L'efficacia è legata alla
concretezza della denuncia.
7. La forza della verità e del diritto è tanto maggiore quanto più essa è
indifesa e confida solo in se stessa. Essa trova la sua maggior verifica nel
confronto con l'avversario violento e manifesta la sua superiorità nella
capacità di tollerare l'intollerante, pur contrastando a fondo l'intolleranza.
8. Diritti umani, tolleranza e pace possono essere parole usate per
convenienza politica: può essere anche un segno positivo. Ma ogni ulteriore
approfondimento significa una scelta culturale, e il distacco da altre
scelte. Il primo "no" è comunque alla scissione tra sfera morale e sfera
politica.
9. E' possibile, è giusto opporsi alla guerra per il terrore della
catastrofe: ma si tratta di una motivazione immediata e "utilitaristica",
non necessariamente deterrente. Occorre invece bandire la guerra con una
cultura etico-politica in cui l'imparziale "non uccidere" e il rispetto alla
vita siano i dati fondanti.
10. E' necessario un discorso etico-politico. Il quale non sarà moralistico
se saprà rispettare certe condizioni: muovere dal "basso" e non essere
imposizione volontaristica; riferirsi liberamente a grandi esperienze;
esigere anzitutto da se stessi, ma sapere accettare il divario tra richieste
ideali e realtà".

Al testo seguente premettiamo una breve notizia biobibliografica.

Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo

Viterbo, 9 agosto 2000

Notizia biobibliografica su Pier Cesare Bori
Profilo biografico: nato a Casale Monferrato nel 1937, docente universitario
di filosofia morale e storia delle dottrine teologiche, lavora nel campo dei
diritti umani e collabora con Amnesty International.
Opere di Pier Cesare Bori: segnaliamo particolarmente Gandhi e Tolstoj. Un
carteggio e dintorni (con Gianni Sofri), Il Mulino, Bologna 1985; Tolstoj
oltre la letteratura, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole
1991; Per un consenso etico tra culture, Marietti 1991; L'altro Tolstoj, Il
Mulino, Bologna 1995. Ha anche curato due importanti convegni di cui sono
stati pubblicati gli atti: La pena di morte nel mondo, Marietti, Casale
Monferrato 1983; e L'intolleranza: eguali e diversi nella storia, Il Mulino,
Bologna 1985.

Pier Cesare Bori, Sette tesi su terrorismo, etica e politica

La stima per il lavoro di "Segno", il desiderio di rispondere all'affettuosa
ma pressante richiesta di contribuirvi, un certo gusto storico mi inducono a
pubblicare questo breve testo, che va tuttavia spiegato. Si tratta della
base di una discussione sull'assassinio del senatore Roberto Ruffilli, mio
collega nella Facoltà di scienze politiche, indirizzo storico-politico. Su
iniziativa degli studenti e del preside dell'indirizzo, prof. Mauro Pesce,
fu convocata cinque giorni dopo la morte, 21 aprile 1988, una assemblea
dell'indirizzo storico-politico della Facoltà. La base della discussione fu
il testo seguente. Il testo è molto concentrato, e ogni riga esigerebbe un
commento. Le prime due tesi vogliono respingere un diffuso atteggiamento di
cinismo, nei confronti sia delle istituzioni che dell'eversione. La terza è
centrale, e  concerne una certa idea di "modernità". Le ultime tesi
rappresentano un tentativo di discorso positivo: il "no" intransigente alla
violenza, la coerenza, la tolleranza e la fiducia nella forza della parola.
Credo che il testo sia di per sé comprensibile: condivisibile è un altro
conto, giacché la condivisione suppone di partecipare a uno stesso orizzonte
di pensieri. La discussione fu assai dura, soprattutto con alcuni colleghi e
investì alcuni punti: il documento sarebbe l'espressione di un approccio
religioso; etica e politica vanno distinti, e portare la "verità" in
politica significa rischiare l'intolleranza e le lotte di religione; in
sostanza, il testo nobilita il crimine a cultura. Credo che dal testo si
possa ricavare quale sia stata la mia risposta.
Nell'affidare questo documento a "Segno", mi interrogo sulla possibilità e
sull'opportunità di trasporre questa tematica nel contesto più specifico
delle sue lotte. Cedo di sì: anche per questo la affido al lettore.
1. Per discutere, comprendere. Per comprendere, evitare di separare ciò che
in realtà è unito, o continuo. Quindi: evitare di pensare separatamente,
come due mondi o due umanità distinte: "il potere", "il palazzo", la
politica come "mistero", da un lato, e "noi", "la gente", "brave persone",
dall'altro. Da questo lato semplicità, chiarezza, purezza, dall'altro
oscurità, intrigo, corruzione. Affermarsi diversi è spesso solo un modo per
autogiustificarsi in comportamenti analoghi a quelli condannati. "Separarsi
per rimanere puliti è la peggiore sporcizia" (Tolstoj). In realtà, nel bene
e nel male, lo stesso tessuto umano, la stessa cultura.
2. Analogamente: evitare di pensare l'eversione come prodotto di una umanità
diversa, incomprensibile, fantasmatica, demoniaca. Si tratta comunque di un
dato storico interpretabile nel contesto della stessa cultura cui noi
apparteniamo. Questo non vuol dire confondere la vittima con il carnefice
(Schopenhauer), vuol dire cercare di distinguere ciò che veramente divide.
3. "Stessa cultura". Non vuol dire far cadere gli ultimi due secoli sotto
una condanna generale. La modernità in quanto processo razionale va
accettata: come secolarizzazione, come tolleranza e affermazione dei diritti
dell'uomo, come ricerca di una democrazia sostanziale e non solamente
formale. Ma di quella stessa cultura fanno parte il confinamento religioso
dell'etica a una sfera intima o superiore (ecclesiale) e, simmetricamente,
la proclamazione e la pratica dell'alterità della politica dall'etica, con
un atteggiamento pessimistico che ammette la connaturalità al politico della
non verità, della coazione e della violenza, in varie forme. A questo
atteggiamento va da ultimo ricondotta anche la scelta estremistica. Non
interessa tuttavia tanto il predicare contro, quanto il compimento della
modernità, integrata o reintegrata con elementi comunque con essa coerenti,
di provenienza ebraico-cristiana, o classica, o orientale (A. Schweitzer),
in forma secolarizzata (all'opposto dell'eticità reazionaria, spesso solo
copertura sacrale di interessi di classe o nazionalistici).
4. Il compito che si apre. Anzitutto, e subito l'osservazione della
violenza, la riflessione sulla violenza, e l'opposizione ad essa, dovunque
si trovi. Alle violazioni più elementari del diritto alla libertà e
all'integrità fisica, occorre opporre la vigilanza più strenua, attestandosi
su alcune richieste minime e intransigenti e intervenendo concretamente, per
quanto possibile (la metodologia di Amnesty International).
5. A chi intende militare nella politica, ricordare Socrate: persuadersi che
"chi voglia diventare veramente virtuoso e sapiente, deve darsi cura prima
di se stesso che delle cose proprie, prima della città che degli affari
della città" (Apologia). Che leggerei non come invito al privato ma come
constatazione di una priorità e di una continuità: il personale non può
essere "saltato", pena di confondere il pubblico con il personale.
6. Insegnare la manifestazione indifesa (e anzitutto comprensibile) delle
proprie idee, la forza autonoma della parola (Gandhi), l'agire in coscienza
senza preoccuparsi del successo (Bhagavadgita), l'attenzione al consenso
senza tuttavia commisurare a questo le proprie affermazioni.
7. Tollerare il dissenso, almeno per ragioni utilitaristiche (ma si possono
anche pretendere motivazioni profonde) o, meglio, ampliare gli spazi di
libertà e di critica, proteggerli gelosamente. "Ciascuno dica quel che gli
pare". Dei fantasmi ci si libera parlandone. L'odio si guarisce imparando a
rimproverare il prossimo apertamente (Levitico). Ma: responsabilità della
parola, a cui anzitutto si applica il "non uccidere". E ancora,
positivamente: farsi portatori, sia pure inadeguati, di parole potenti,
capaci di operare il cambiamento.
[Testo estratto dalla rivista palermitana "Segno", n. 96-97, luglio-agosto
1988, pp. 102-103].