From: "Chierico Navigante"
manifesto18 Novembre 1999
KOSOVO/TIMOR EST
Le bugie della Nato la crisi dell'Onu
JOSEPH HALEVI

Nell'ultimo mese si è registrata, da parte dei dirigenti politici della
Nato ed europei, un'ansiosa corsa a giustificare la guerra lanciata
nell'Adriatico contro la Jugoslavia. Le giustificazioni più patetiche ma
significative sono quelle rilasciate alcuni giorni fa dal nuovo segretario
dell'Alleanza Atlantica, il britannico Robertson, in visita in Ungheria. I
duemila morti, egli ci dice, individuati dal Tribunale presieduto da Carla
del Ponte, non saranno i diecimila che la Nato sperava di trovare, ma da
duemila a quattromila "il passo è breve", e quattromila è cifra di tutto
rispetto. In pratica è come se fossero diecimila. Non è poco come
"interpretazione" di un testo del Tribunale dell'Aja assai cauto e che
ammette come la maggior parte delle "sepolture" siano individuali, più
riconducibili cioè alla ferocia dei combattimenti (qualcuno li ha
dimenticati?) che del presunto sterminio.

Il fatto è che agli organizzatori della guerra, in Bosnia prima e nel Kosovo
poi, il terreno comincia a bruciare sotto i piedi. Negli Stati uniti ci si
chiede dove sono i killing fields, cioè i campi pieni di cadaveri che la
Nato aveva promesso di scoprire una volta entrata in Kosovo. Il 17 ottobre
la Fondazione Stratfor, un centro di studi strategici di Austin, nel Texas,
aveva emesso un dettagliato rapporto che analizzava tutta la vicenda,
iniziando dalla fabbricazione della cifra di 10mila morti e terminando con
la domanda "che è successo?"(chi volesse trovarlo:
http://www.stratfor.com/crisis/kosovo/genocide.htm). Due elementi di rilievo
emergono dallo studio della Stratfor, tutt'altro che smentito dall'ultima
relazione della Del Ponte. Il primo consiste nel fatto che il Commissario
dell'Onu per il Kosovo, Bernard Kouchner, ha contribuito all'ampliamento del
numero dei cadaveri, suggerendo la cifra di 11mila, che nemmeno la Nato si è
sentita di riprendere. Ciò è indicativo, perchè mostra che la sudditanza
dell'Onu verso gli Usa implica, attraverso un comportamento di parte, la
violazione sistematica degli accordi che hanno permesso alle forze Nato di
trasformarsi in forze Onu ed entrare nel Kosovo. Ricordiamo ai lettori che
nessuna forza Nato/Onu entrò nel Kosovo prima dell'approvazione dell'accordo
da parte del Parlamento di Belgrado. Il secondo elemento è di tipo politico.
Il rapporto Stratfor infatti nota che "nel caso gli Stati uniti e la Nato si
fossero sbagliati, quei governi dell'Alleanza che, come l'italiano e il
tedesco, dovettero fronteggiare pesanti critiche, potrebbero venirsi a
trovare in difficoltà". Il rapporto conclude osservando che "saranno molte
le conseguenze qualora risultasse che le dichiarazioni della Nato riguardo
alle atrocità serbe erano largamente false".

La necessità della dirigenza Nato di correre ai ripari discende anche dalla
consapevolezza che intorno all'Uck si sta ormai creando un vuoto colmabile
solo col rientro di Belgrado nel territorio della provincia jugoslava, da
effettuarsi a fianco dell'Onu. Sempre il 17 ottobre Peter Finn del
Washington Post così intitolava una sua corrispondenza da Pristina: "Si
affievolisce l'appoggio per i ribelli del Kosovo: gli etnico-albanesi
costernati dalla violenza e dall' arroganza dell'Uck". Quattro giorni prima,
il 13 ottobre, sempre sul Washington Post, era apparso un articolo in cui si
denunciava che "le forze dell'intolleranza minacciano di logorare il
Kosovo".

Il maggiore quotidiano di Washington è stato, anche se in forma meno
fanatica del New York Times, uno dei principali sostenitori della politica
di Clinton contro la Jugoslavia. Tuttavia, col prolungarsi della guerra,
aveva cominciato a offrire spazi importanti alle critiche. Inoltre il
Washington Post è stato assolutamente esplicito sulla vera ragione per cui
le truppe Nato riuscirono alla fine ad entrare nella provincia jugoslava,
vale a dire l'abbandono di Milosevic da parte dei russi. Il giornale è un
importante catalizzatore a livello nazionale dei focus groups su cui i
democratici basano la loro influenza politico-intelletuale. Leggendo gli
articoli summenzionati, sembra essere ritornati alle fasi più nere della
guerra, quelle antecedenti il salvataggio russo, quando il Post si sentiva
molto a disagio, cominciando a temere che gli Stati uniti si fossero
cacciati in un ginepraio. Oggi il periodo postbellico viene visto come un
pantano da cui gli Usa farebbero bene a uscire, ma senza sapere esattamente
come.

L'evoluzione della situazione richiede che anche in Europa, e in Italia in
particolare, la questione venga riaperta, rimettendo in discussione sia la
partecipazione italiana alla forza Onu, sia la validità di tutta
l'operazione. Collegando la presenza dell'Onu con la precisa analisi del
Washington Post circa il regime che regna nel Kosovo, non si può non
concludere che l'Onu e la Kfor-Nato sono istituzionalmente corresponsabili
della pulizia etnica che ha colpito oltre 200mila persone tra serbi, rom ed
ebrei. Inoltre, data la natura, perfettamente conosciuta, dell'Uck, l'Onu è
istituzionalmente corresponsabile delle uccisioni e dei rapimenti che
caratterizzano la vita quotidiana nella provincia jugoslava. L'Onu ha
legittimato quelli che il Washington Post chiama giustamente i ribelli,
lasciandoli inizialmente scorrazzare liberamente, e riconoscendoli come un
corpo di polizia.

Alle forze che in Italia hanno lottato contro la guerra non deve sfuggire il
fatto che ci sono state molteplici violazioni dell'accordo con Belgrado, in
virtù del quale le truppe Nato sono diventate forza Onu. La più grave di
queste riguarda proprio la radicale pulizia etnica e la violenza perpetrata
dall'Uck nei confronti dell'insieme della popolazione kosovara. Dove sono le
misure volte a far rientrare la popolazione espulsa dal Kosovo? Dove sono le
misure dirette a sciogliere l'Uck, la cui presenza non era prevista
nell'accordo e che ora è stata addirittura trasformata in corpo di polizia?
Chi tace acconsente, e l'Onu tace. Le forze della pace italiane non possono
e non devono permettere che il paese si faccia complice di una tale farsa
sanguinosa. L'intervento in Kosovo deve essere ridiscusso dalle fondamenta,
cioè dall'imbroglio di Rambouillet, in cui Dini appare reo confesso.

Nel Kosovo come a Timor est il fallimento dell'Onu - intervenuto in tragico
ritardo a svolgere opera di prevenzione e salvaguardia del referendum a
Dili, perché uscita azzerata dall'iniziativa armata della Nato in Kosovo - è
dovuto alla sudditanza di quest'organismo nei confronti degli Usa, i quali,
mentre erano interessati a destabilizzare Belgrado fino a bombardarla per 78
giorni, volevano proteggere al massimo Jakarta. E' da maggio che si sapeva
con certezza che a Timor est, in caso di vittoria dell'indipendenza al
referendum, sarebbe scoppiato un moto di violenza organizzato dai militari.

La devastazione è tale che, come ha sottolineato Chomsky, "la missione
dell'Onu a Timor est è riuscita a contare solo 150mila persone, su una
popolazione stimata di 850mila". Lo studioso americano aggiunge che 260mila
si trovano ancora in campi controllati dalle milizie, 100mila sono stati
deportati in altre isole dell'arcipelago, e molti sono ancora nei boschi. Se
la crisi della missione dell'Onu è comprovata dalle precise critiche in
questi giorni ripetute da Gusmao, la posizione di Chomsky documenta come la
debolezza dell'Onu sia imputabile alla volontà degli Usa di aiutare fino
all'ultimo momento il regime di Jakarta. Ne consegue che, in Europa e in
Italia, rimettere totalmente in discussione l'intervento Nato/Onu nel Kosovo
darebbe una spinta fondamentale alla riabilitazione delle Nazioni Unite come
organismo mondiale. E' evidente che nel Kosovo la pace, e quindi lo
scioglimento delle forze irregolari dell'Uck, riconosciute in violazione
dell'accordo con Belgrado, non può realizzarsi senza le Nazioni Unite, ma
nemmeno senza una nuova presenza ufficiale della Jugoslavia, di cui il
Kosovo è parte integrante, come continuano a dire i documenti ufficiali
dell'Occidente. La crisi a Belgrado, e l'uscita di scena di Milosevic,
saranno segnate anche dall'"attribuzione" finale del Kosovo, per ora sotto
incerto e criminale protettorato etnico-militare atlantico. L'Occidente e
l'Europa possono blandire e corrompere l'opposizione serba o affamare con
l'embargo un intero popolo, che ha sopportato sia Milosevic che i
bombardamenti della Nato per 78 giorni. Se non si torna indietro sul
Kosovo - rivendicato anche dall'opposizione serba - nulla è destinato a
cambiare nei Balcani.