La guerra continua

 

Che ne è delle armi di distruzione di massa il cui possesso da parte dell’Iraq era stato il pretesto per scatenare il massacro? Semplicemente, non esistono. C’è di peggio: si era detto che la cosa era talmente sicura che, malgrado il parere contrario delle Nazioni Unite e l’ostilità dell’opinione pubblica internazionale, non si poteva lasciare agli ispettori dell’ONU il tempo di fare i necessari accertamenti perché bisognava agire subito, prima che Saddam aggredisse l’Occidente con quelle terribili armi. Una colossale mistificazione. Per di più condotta con mezzi miserevoli. Come dimenticare la vecchia tesi di dottorato riciclata dai prestigiosi servizi segreti britannici e spacciata come il risultato di recentissime indagini? Paul Wolfowitz, il numero due del dipartimento della difesa USA, ha dichiarato che la minaccia delle presunte armi di distruzione di massa era stata agitata «per ragioni burocratiche». Ciò non ostante, George W., il presidente eletto dal fratello, continua a dirsi sicuro che «le troveremo». Sarà. Prima, però, bisognerà mettercele. Non basta: all’ONU e al popolo statunitense, e per conseguenza a tutto il mondo, venne solennemente comunicato che l’Iraq aveva tentato di acquistare uranio dal Niger per munirsi dell’arma atomica. La panzana del secolo. Sdegnati, alcuni esperti della CIA e del Dipartimento di Stato non più in servizio hanno inviato al presidente Bush, con il nome collettivo di Veteran Intelligence Professionals for Sanity, un memorandum in cui affermano che sebbene in passato «molte informazioni fossero state falsificate per ragioni politiche, non era mai accaduto che ciò fosse stato fosse fatto in maniera così sistematica, per ingannare i nostri rappresentanti eletti al fine di indurli ad autorizzare una guerra». Nel frattempo assistiamo a un’oscena gara per scaricare sugli altri «alleati» la responsabilità del mendacio e Tony-il-bugiardo, sulla cui coscienza il milione di bambini morti in conseguenza dell’embargo pesano come una piuma, ammette serafico: «Forse non troveremo mai le armi di distruzione di massa, ma in ogni caso abbiamo liberato l’Iraq da un dittatore sanguinario». E sanguinario Saddam lo è certamente stato. Ma, in materie tanto tragiche quanto la guerra, non è lecito trovare giustificazioni a posteriori e cambiare le carte in tavola a cose fatte. E quanto al sangue versato, le oltre cinquemila, e forse assai di più, vittime civili, senza contare i feriti e gli storpiati, causate da bombardamenti anglo-americani dovrebbero pur entrare nel conto. E per certo altre vittime farà la carestia causata dalla completa distruzione delle principali infrastrutture, che, ci dicono, verranno prima o poi ricostruite con grande profitto delle imprese occidentali, impegnate in un’orrenda competizione per accaparrarsi le forniture. Chi pagherà il conto? Naturalmente gli iracheni, col loro petrolio.

Perché, la guerra voluta dagli Stati Uniti hanno con tanta pervicacia che hanno (inutilmente) tentato, in sede ONU. di acquisire il consenso dei piccoli paesi con tutte le armi della corruzione e del ricatto? La domanda si impone con maggior vigore di prima. Pochi commentatori hanno colto il nesso tra la maniera in cui la globalizzazione è gestita, nell’esclusivo interesse delle multinazionali e del capitale finanziario nordamericano, come spiega lo Stiglitz (La globalizzazione i suoi oppositori), un testimone non sospetto, e la politica estera da tempo inaugurata dagli Stati Uniti. Era infatti prevedibile e inevitabile che la disperata miseria in cui sono stati gettati molti popoli del terzo mondo e la crescente disuguaglianza tra le nazioni (oltre che all’interno di tutte le nazioni, nessuna esclusa) generassero resistenze e instabilità e persino terrorismo. Per imporre questo tipo di globalizzazione e porre riparo all’instabilità, la violenza è apparsa come l’unica via percorribile. Il sogno impossibile di controllare l’intero pianeta occupando direttamente o indirettamente le principali regioni strategiche non è nato ieri. Sebbene contrario a quest’ultima guerra, il primo teorizzatore ne è stato Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente degli Stati Uniti dal 1977 al 1981 e autore del volume The Great Chessboard. A questa dottrina era evidentemente ispirato anche il Defense Policy Guidance, elaborato nel 1990, sotto la presidenza di Bush senior, da un gruppo coordinato dall’attuale vicepresidente Cheney, nei cui estratti resi pubblici dal New York Times dell’8 marzo del 1992 [http://www.investigate911.com/bushprint.htm], ma reperibili in traduzione italiana all’interno di una pagina che riassume sotto il consueto nome di «dottrina Bush» il documento sulla National Security Strategy, più sotto citato, si sosteneva la necessità di «dissuadere i concorrenti potenziali anche dal solo sperare di giocare un ruolo regionale o mondiale più importante» e che «la missione politica e militare dell'America nel dopo-guerra fredda consisterà nel garantire che nessuna superpotenza rivale possa emergere in Europa Occidentale, Asia o nei territori dell'ex-Unione Sovietica». La recentissima ridefinizione della National Security Strategy [e, in lingua italiana, http://www.assopace.org/bush1.htm oppure  http://www.arci.it/bin/up1945.doc], su cui si può vedere il breve commento del Dipartimento della difesa intitolato The Changing Face of Strategy. non è che un’aggiornata applicazione della strategia geopolitica indicata, ben prima della tragedia delle Twin Towers, da quel documento, ma per la prima volta sostiene esplicitamente la presunta necessità dell'attacco preventivo, che sommata alla nuova dottrina, presentata nel gennaio del 2002 nella «Nuclear Posture Review», la quale prevede la possibilità di first strike nucleare anche contro paesi che non dispongono di armi atomiche, solleva gravi preoccupazioni sulle modalità d'impiego del potenziale militare statunitense. Sebbene la possibilità di agire senza il sostegno degli alleati fosse esplicitamente teorizzata, parallelamente alla definizione della «nuova» strategia militare e geopolitica gli Stati Uniti hanno proceduto a una radicale riforma della NATO che ne stravolto gli scopi originari per adeguarli a quella strategia. Il primo documento mediante il quale, il 23 e 24 aprile del 1999, è stata data concretezza a tale decisione è costituito dal cosiddetto "nuovo concetto strategico"  [per una traduzione nella nostra lingua, http://web.tiscali.it/outis-wolit/nuovoconcettonato.htm], sciaguratamente sottoscritto da Massimo D’Alema, prima di aver ottenuto l’approvazione del Parlamento italiano, insieme con la Washington Declaration, e attualizzato per mezzo della 2002 Istanbul Declaration on NATO Transformation che dovrebbe consentire di applicare pienamente la «dottrina Bush», alla quale è affidato il compito di aprire l’alba radiosa del New American Century annunciato, prima dell’elezione di Bush, dai suoi attuali collaboratori Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld e dal dimissionario Perle, mediante l’omonimo documento, uno dei cui paragrafi afferma che gli USA dovranno evitare che un’altra potenza industriale svolga un ruolo importante sulla scena internazionale. L’insieme di questi documenti, troppo poco consultati dai nostri politologi, lasciano comprendere come gli Stati Uniti intendano sventare la minaccia dell’instabilità mediante una politica che non sanno e non vogliono immaginare diversa dal dominio, poiché ogni altra via esigerebbe mutamenti profondi incompatibili con gli interessi di coloro che esercitano realmente il potere in quella nazione.

In breve, dunque, anche il conflitto iracheno è stato una coerente applicazione della strategia delineata dai documenti citati: una classica guerra di conquista condotta, per di più, con una brutalità che non è cessata neppure dopo l’occupazione e ha sollevato le proteste di Amnesty International. Come meravigliarsi dunque che gli occupanti incontrino una dura resistenza, evidentemente appoggiata da vasti strati della popolazione, poco propensa a tollerare una nuova oppressione che non è riuscita a ristabilire un minimo di ordine e di legalità e neppure a garantire le condizioni minime di sopravvivenza? Ovvio che nel movimento di resistenza cerchino di insinuarsi, se ancora ve ne sono, i fedelissimi di Saddam, e forse anche organizzazioni terroristiche, per le quali la situazione irachena rappresenta una ghiotta occasione. Ma è un’altra mistificazione dire che costrituiscono la principale, se non l’unica, componente della guerriglia ormai imperante. Non si può tuttavia negare il rischio che lo sterminatore Saddam riesca riciclarsi come eroico e strenuo difensore dell’indipendenza nazionale. Quella posta in atto dagli Stati Uniti non è infatti soltanto una politica imperialistica: è, innanzi tutto, una politica sbagliata, atta ad esporre il mondo a gravissimi rischi. Di fronte a una situazione che avrebbe richiesto estrema prudenza, l'amministrazione statunitense ha  risfoderato the big stick, esibito un illimitato disprezzo per gli alleati, trattato l'ONU come un dipendente insubordinato e dichiarato che non le rimaneva che sbrigarsi a ratificare le decisioni già prese a Washington. Vero è che i governi europei ostili a quelle decisioni non si sono piegati, ma già si delinea la perniciosa volontà di «ricucire lo strappo». Spetta dunque ai popoli, che con tanta determinazione hanno manifestato la loro ostilità a questo ingiustificato conflitto, il compito di isolare politicamente e ostacolare concretamente ogni iniziativa attraverso cui la catastrofica strategia imperiale degli USA sarà messa in atto. Uscire dalla Nato e rifiutare ospitalità alle basi americane è un’alternativa estrema, da prendere tuttavia in seria considerazione; ma sarebbe sterile se non fosse accompagnata dalla capacità di stringere con i popoli del terzo mondo relazioni atte ridurre progressivamente le stridenti disuguaglianze odierne, in maniera da rimuovere le cause profonde dell'instabilità prodotta dalla globalizzazione neoliberista (un neoliberismo, per altro, a senso unico) e offrire un modello di stabilità non fondato sul dominio. Ciò implica una revisione profonda dell’orientamento del sistema economico e della struttura dei consumi che gli assicurano un rovinoso sviluppo, oggi per altro entrato in una crisi di cui nulla lascia intravedere il superamento. È un cammino aspro e insidioso. Ma è un cammino che i popoli hanno da tempo indicato e, in qualche modo, già cominciato a percorrere, verso una globalizzazione dal volto umano e uno sviluppo sostenibile. L’oscena fretta di «ricucire lo strappo» che si è prodotto con gli Stati Uniti e all’interno della stessa Europa mediante qualche compromesso di basso livello non lo aiuta. Va anzi in senso opposto. Che cosa si aspetta a pretendere che le truppe della NATO presenti in Iraq siano sostituite dai caschi blu dell’ONU?