EYES WIDE SHUT

Deformazione, conformazione, repressione. L'illusione dell'informazione globale.

      Mai come oggi ci è accaduto di vivere immersi in un invisibile e impalpabile gas di informazione, le cui molecole surriscaldate ruotano vorticosamente attorno a noi, bombardandoci di continuo di notizie, scoop, colpi di scena, rivelazioni, anticipazioni, flash d'agenzia e dossiers per dessert. Il cittadino ha l'impressione di essere informato puntualmente, momento per momento, di tutto ciò che accade nel mondo, con abbondanza di gustosi particolari e ricchezza di approfondimenti. Giornali, radio e tv gareggiano nell'offrire servizi d'attualità sempre più numerosi e vari, sapientemente miscelati con numeri di varietà, annunciatrici supersexy, pubblicità alluvionale. Se da qualche parte nel mondo è in atto una guerra, possiamo seguirla "minuto per minuto", come le partite di calcio; se sta per svolgersi una tornata elettorale, possiamo conoscere ogni cosa sui vari candidati, persino la marca dei loro boxer preferiti. Persino Celentano, tra una canzone e un silenzio, mostra immagini di bambini affamati e di esecuzioni sommarie. Ma è davvero così? Fino a che punto questa impressione corrisponde alla realtà?

      Non si tratta soltanto di dire o non dire, di trasparenza o reticenza: i media di fine secolo non tacciono brutalmente, come avviene nelle dittature. L'informazione è un grande business, non può permettersi di trascurare nessun potenziale consumatore, nemmeno se professa idee non allineate (come diceva Marx, i borghesi ti venderebbero persino la corda per impiccarli). Piuttosto, tendono ad annegare le informazioni più importanti in un "overflow" che toglie il respiro e inibisce la possibilità di analisi, di valutazione critica, di selezione consapevole. «Democraticamente», non si nega (quasi) mai il "diritto di parola" a chi esprime opinioni diverse; ma le si sterilizza in pratica, sommergendole. Il flusso ininterrotto d'informazione genera saturazione, e lo spettatore (o il lettore), travolto, smarrisce l'orientamento, perde la capacità e la voglia di confrontare e verificare e finisce per affidarsi alle rassicuranti spiegazioni attentamente confezionate dai vari imbonitori. L'effetto finale è una deformazione prospettica in cui, da una farsesca rappresentazione di democrazia, emerge, come per magia, l'opinione consolidata, mentre ogni dissonanza svanisce.

      Proviamo a fare qualche esempio. La scorsa primavera, all'improvviso, il Kosovo irrompe nelle nostre case. Un vero diluvio di servizi, che non risparmiano particolari truculenti, accompagnati e conditi da talk-show, rubriche, pinocchi e porte-a-porte, che si sforzano di presentare "obiettivamente" (con l'intervento di ospiti dello schieramento avverso e reportages sul campo) le cause e gli sviluppi della guerra. Spicca tra le altre una trasmissione di raitre, presa pari pari dalla tv inglese, con l'unica aggiunta di alcuni ospiti in studio che commentano quanto viene via via mostrato. Lo sforzo dei media è indubbiamente impressionante: il cittadino si sente coinvolto profondamente nelle vicende di un popolo intero, brutalizzato e scacciato dalle proprie case; l'emozione cresce giorno dopo giorno nel vedere e ascoltare i profughi che raccontano in lacrime le loro vicissitudini. La tragedia viene ricostruita con dovizia di particolari, indagando le motivazioni ideologiche che avrebbero spinto la leadership serba nella folle avventura della "pulizia etnica".

      Peccato che nelle ricostruzioni vengano costantemente omessi alcuni particolari significativi. Poco o nulla si dice dei crimini commessi dai militanti dell'UCK (KLA), che appaiono quasi sempre come combattenti per la libertà. Altrettanto avviene per la brutalità dell'intervento Nato, che, presentato come umanitario, in realtà stravolge la geografia e l'economia di un intero Paese, seminando morte, distruzione, povertà, contaminazione dell'ambiente. E poco o nulla si discute, come era già avvenuto in occasione della secessione della Croazia e della guerra di Bosnia, delle cause remote degli avvenimenti: ad esempio, delle durissime misure imposte alla Jugoslavia dal FMI e dai Paesi occidentali, che ebbero l'effetto di ridurre drasticamente il livello di vita della popolazione, favorendo, insieme con le promesse rivolte ai membri della Federazione che avessero adottato misure di "libero mercato", il processo di smembramento, con le inevitabili, conflittuali conseguenze che tutti conosciamo.

      Nella testa della gente si imprime indelebilmente l'immagine dei terribili serbi che massacrano kosovari. Eppure, non mancavano le testimonianze in senso contrario, e non solo dalle colonne di giornali come "Il Manifesto" e "Liberazione", ma anche all'interno di trasmissioni delle reti nazionali, come "Moby Dick", che vede Santoro, tra le polemiche, sui ponti di Belgrado porgere il microfono ai serbi cattivi o l'ex ambasciatore jugoslavo Miodrag Lekic, montenegrino, balbettare poco convinte parole di sostegno al proprio governo. Si tratta però di testimonianze frammentarie, non organiche, che nel loro insieme poco riescono a dire. Per il compatto schieramento interventista risulta facile  bollare tali opinioni come parziali, rafforzando così la tesi prevalente. Analogo destino ha la protesta pacifista, cui si dà voce nei ritagli dei Tg o subito prima dei "consigli per gli acquisti", raccomandando magari a chi interviene di esprimere rapidamente il proprio pensiero. Si sa, i tempi televisivi non ammettono lungaggini; ma qui casca l'asino: la brevità e la semplificazione coatte nuocciono soprattutto a chi deve spiegare la diversità delle proprie scelte, non certo a chi nuota in favore di corrente. Non si tratta, badate, di rozza censura, ma di qualcosa di più sottile: un'accurata distribuzione di tempi, dosi, accenti, toni, gesti, che richiama alla mente le tecniche del marketing assai più che quelle dell'informazione.

      Analogamente, le notizie che provengono in questi giorni dal Kosovo "liberato e pacificato", e parlano di una vera e propria pulizia etnica operata dagli albanesi a danno delle altre etnie, non vengono taciute: sul Corriere e su Repubblica non si nega una decina di righe alle imprese sempre più eclatanti dell'UCK. Solo che nel frattempo l'interesse generale si è spostato verso altre vicende: il dossier dell'oscuro Mitrokhin, le consuete contumelie tra maggioranza e opposizione, il calcio, la Ferrari... Al Kosovo chi pensa più?
E a Timor? Sono riusciti a far passare l'idea che le nostre truppe siano "prontamente" intervenute a salvare quei poveretti, e puoi gridare fin che vuoi che sono stati massacrati grazie alle nostre armi: l'impressione generale è quella, e non cambierà. Se lo urli ai tuoi amici o nelle piazze, qualcuno ti ascolterà, ti darà anche ragione, poi, tornato a casa, accenderà il televisore e addio.

      E siamo al punto conclusivo: i "luoghi" consueti della politica sono stati svuotati; la "mediazione dei media" da supporto utilissimo della comunicazione politica è diventata nei fatti la sua negazione. In tv e sui giornali si parla molto di politica, ma secondo modalità che escludono il cittadino comune dalla partecipazione attiva. I media stessi sono diventati lo spazio elettivo della comunicazione politica, ma si tratta ancora una volta di uno spazio deformante, dove, in uno strano effetto di "Fata Morgana", i politici e le loro opinioni ci appaiono ravvicinati e importanti, mentre di fatto le loro fumose discussioni sono sempre più lontane dai reali problemi di chi li ascolta. Nella sostanza i loro interventi sono sempre più simili a spot elettorali, ad onta delle proposte di legge che vorrebbero, ipocritamente, regolarne l'uso; quando non si trasformano in comparsate nei programmi di maggior ascolto, vedi D'Alema da Morandi, Formigoni a Scherzi a Parte, Mastella a Festa di Classe e Berlusconi dappertutto. Possiamo ben sapere che colore hanno le mutande di Fini e di Cossiga, ma è sempre più difficile conoscere, e soprattutto discutere, i loro programmi politici. A meno che non prendiamo per buoni i loro spot elettorali e su quelli basiamo le nostre scelte.

      L'unica soluzione possibile per rompere questo cerchio è riprenderci i nostri spazi di discussione, di organizzazione e di iniziativa politica. Solo riportando la comunicazione politica nei suoi luoghi naturali, i posti di lavoro, le piazze, i quartieri, sarà forse possibile sottrarci all'espropriazione della possibilità di conoscere e decidere, reagire alla repressione in atto di ogni pensiero discordante e di ogni istanza di cambiamento. Perché ciò sia possibile, è però necessario ripartire dalla realtà dei nostri bisogni e renderci conto del ruolo mistificatorio dei mezzi di deformazione e omologazione di massa. Solo allora sapremo cosa rispondere a chi ci spiega con sussiego che il taglio delle pensioni o la condanna dei lavoratori alla precarietà perpetua sono condizioni indispensabili per lo sviluppo.

Rubber Soul, 17 ottobre '99