Vittorio Emanuele Giuntella: la Resistenza, la memoria, la
nonviolenza
Considero Vittorio Emanuele Giuntella uno dei miei maestri, ed in
particolare uno dei miei maestri di nonviolenza.
La breve commemorazione che qui ripubblico è ripresa da un mio opuscolo del
1997, in cui avevo raccolto tre commemorazioni per altrettanti maestri:
Vittorio Emanuele Giuntella, Raimondo Pesaresi, Achille Poleggi.
Scrivevo nella nota introduttiva: "Ripubblico questi ricordi scritti alla
scomparsa delle persone ritratte, ricordi già stampati su fogli locali o
pronunciati in pubblici consessi.
In particolare un ricordo di Vittorio Emanuele Giuntella pronunciai,
parlando a braccio appena saputo della scomparsa, in una seduta del
Consiglio Comunale di Vetralla, e poi in una del Consiglio Provinciale di
Viterbo. Gli scritti qui ripubblicati sono apparsi tutti originariamente
nel settimanale democratico viterbese "Sotto Voce", rispettivamente
(...)
con il titolo Ricordo di Vittorio Emanuele Giuntella, nel fascicolo n. 40
del 17 dicembre 1996 (...). E' consuetudine ristampando scritti d'occasione
-e soprattutto quando si tratti di testi commemorativi, o giornalistici: e
qui ricorrono e si sovrappongono entrambi i casi- effettuare tagli e
correzioni, o anche inserire modifiche e aggiunte; ho resistito
all'impulso, ed i testi sono restati precisamente quelli, con le forzature,
la commozione, le ruvidezze di quando sgorgarono fuori. Forse altri canterà
con miglior plettro (Ariosto, citato da Cervantes)".
Aggiungo anche alcuni brevi estratti da alcuni scritti e interventi di
Vittorio Emanuele Giuntella, mi sembrano letture di grande valore.
Ai testi premetto una breve notizia biobibliografica.
Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo
Viterbo, 24 luglio 2000
Notizia biobibliografica su Vittorio Emanuele Giuntella
Profilo biografico: nato nel 1913, dopo l'8 settembre 1943, tenente degli
alpini, fu uno degli ufficiali italiani che rifiutarono di servire i
nazifascisti e fu internato in Lager della Polonia e della Germania.
Storico, docente di storia dell'età dell'Illuminismo all'Università di
Roma, costantemente impegnato per i diritti umani, è stato tra i più
autorevoli rappresentanti dell'Opera Nomadi. E' scomparso nel 1996.
Opere di Vittorio Emanuele Giuntella: autorevolissimi i suoi studi sul '700
e quelli sulle vicende della seconda guerra mondiale, della deportazione e
della Resistenza; fondamentale è il suo volume Il nazismo e i Lager,
Studium, Roma 1979.
Nella rete telematica è possibile leggere, nel sito della pregevole rivista
trentina "Il margine", alla pagina
http://www.col.it/margine/archivio/1996/e8.htm
la trascrizione di un suo
intervento tenuto a Trento nel 1995, su "Lo spirito e il leviatano. Le
fedi
di fronte al totalitarismo".
Vorremmo cogliere l'occasione di queste righe per proporre che qualche
istituzione culturale si decida finalmente ad avviare la raccolta e
pubblicazione in volume di tutte le opere di Vittorio Emanuele Giuntella.
1. Una commemorazione di Vittorio Emanuele Giuntella
E' scomparso pochi giorni fa il professor Vittorio Emanuele Giuntella.
Illustre nostro conterraneo, testimone della dignità umana: fu uno degli
ufficiali dell'esercito italiano che all'indomani dell'8 settembre si
opposero al nazismo e fu imprigionato in lager in Polonia e in Germania;
sopravvissuto, fu per il resto della vita un testimone di grandissima
autorità morale, sempre sollecito della verità storica e dei diritti umani,
sempre impegnato perché non si perdesse la memoria dell'orrore e delle
vittime; fu per molti anni docente di storia dell'età dell'Illuminismo
all'Università di Roma, autore di libri di grande valore (tra cui una
fondamentale monografia su Il nazismo e i lager), promotore e partecipe di
importantissime iniziative di cultura e di impegno civile, tra cui l'Opera
Nomadi che lo ebbe rappresentante autorevolissimo insieme a don Bruno
Nicolini.
E' impossibile evocarne in breve volger di frasi la grande bontà, il rigore
morale e intellettuale, la lezione civile. Vorrei solo proporre due cari
ricordi che ho di lui.
Lo ricordo una mattina del 1977 all'Università di Roma, ove insegnava
storia dell'età dell'Illuminismo. Era un periodo di forti tensioni e
passioni. In un'aula i cui muri erano gremiti di scritte truculente lui
entrò quasi in punta di piedi recando un foglio di quaderno su cui aveva
trascritto una frase di Gandhi che esortava alla lotta nonviolenta. La
lesse, affisse al muro quel foglio, e disse "Ecco, anch'io ho fatto il mio
piccolo tazebao".
Non l'ho più dimenticato, ogni volta che ripenso a quell'episodio ancora mi
tocca. Mi accade di pensare in questi giorni che forse fu di lì che iniziò
il mio avvicinamento sempre più consapevole alla nonviolenza, che
progressivamente mi chiarì nella piena persuasione che la rivoluzione cui
aspiravo e tuttora aspiro, la necessaria rivoluzione che realizzi
concretamente la dignità di ogni essere umano ed impedisca che la biosfera
sia distrutta, o sarà nonviolenta o non sarà affatto.
Dieci anni dopo, nel 1987, lo invitai a prendere la parola ad un incontro
in ricordo di Primo Levi, che nell'aprile di quell'anno era scomparso.
Ricordo ancora con viva commozione quella giornata nella sala regia di
Palazzo dei Priori, quando, tra gli altri, presero la parola persone come
padre Ernesto Balducci, come Lello Perugia che fu compagno di prigionia di
Primo Levi ad Auschwitz, e Vittorio Emanuele Giuntella. Dissero cose
indimenticabili, ci esortavano a non cedere all'oblio, a non cedere alla
violenza. Nelle loro parole Primo Levi era una presenza vivente.
Di altri incontri e di altri grati ricordi non è questo il momento di
parlare, solo voglio aggiungere che sempre il professor Giuntella è stato
un lucido, un fraterno, un generoso maestro. Ora so che non incontrerò più
quel maestro per le strade del mondo, ma solo nell'arca del cuore.
Così scompaiono, e ad un tempo restano, i maestri che in questa vita
abbiamo avuto: Primo Levi non è più, non è più padre Balducci, ora è
scomparso anche Vittorio Emanuele Giuntella; ci lasciano in un mondo più
vuoto e più triste, ma ci lasciano anche un'eredità, e una missione: il
carico di dolore e di virtù, l'amore alla verità e alla giustizia, il
testimone e la fiaccola che per lungo tratto di strada generosi portarono
per tutti, ora lasciano a noi, così fragili e piccini: che si possa esserne
degni.
Più luce, dicono gridasse Goethe dal letto di morte. Questi uomini hanno
illuminato la nostra vita.
2. Vittorio Emanuele Giuntella: le pagine finali de La lotta di un popolo
(...) il 2 maggio 1945 anche Kesselring (il fanatico nazista, che diversi
anni dopo dirà che gli italiani gli dovrebbero innalzare un monumento...),
che ha trasferito in Baviera il comando delle armate tedesche in Italia,
ordinerà la resa incondizionata alle sue truppe.
Le amministrazioni libere installate dai CLN in tutta l'Italia
settentrionale, debbono, secondo i patti, cedere i poteri agli alleati e
molto raramente questi accetteranno il fatto compiuto come a Firenze l'anno
prima. Viene per i partigiani il momento della sfilata finale. C'è molta
festa e molti applausi intorno a loro, ma nei partigiani la malinconia
prevale, perché nei patti c'è anche di cedere le armi: "Ricordo la pagina
della smobilitazione con la stessa angoscia con cui ricordo la mia ritirata
di Russia. Dovremmo buttar tutte le nostre armi, come un esercito di vinti:
buttiamo soltanto i ferri vecchi, i mauser, i fucili '91. Sotterriamo
montagne di armi, che lasceremo arrugginire. Nell'aria si sente già il
puzzo della restaurazione" (Nuto Revelli).
E' finita quella che Guido Quazza ha giustamente definito "una grande
stagione dell'umanità". I riconoscimenti degli alleati tendono a
riportarla
negli schemi aridi della relazione d'ufficio: "Il contributo partigiano
alla vittoria alleata in Italia fu assai notevole e sorpassò di gran lunga
le più ottimistiche previsioni. Con la forza delle armi essi aiutarono a
spezzare la potenza e il morale di un nemico di gran lunga superiore ad
essi per numero. Senza di queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata
in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante e così poco
dispendiosa". L'anima della Resistenza e le sue motivazioni sono altrove.
Vanno ricercate altrove, per esempio nelle parole che uno dei sette
fratelli Cervi, Aldo, risponde ai fascisti che offrono la vita in cambio
del passaggio alla R.S.I.: "Crederemmo di sporcarci". E' la risposta
identica che molti altri resistenti in Italia e nei lager nazisti hanno
dato alla stessa proposta. Resistenza è stata dunque una lotta per liberare
non le case, i villaggi, le città, una intera nazione, ma in primo luogo
per liberare se stessi. "Una generazione di uomini ha distrutto la vostra
giovinezza e la vostra patria" lascia scritto Concetto Marchesi ai suoi
studenti di Padova, "vi ha gettati tra cumuli di rovine. Voi dovete tra
quelle rovine portare la luce di una fede, l'impeto all'azione e ricomporre
la giovinezza e la patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla
ignavia, dalla servilità cerimoniosa, voi, insieme con la gioventù operaia
e contadina, dovete rifare la storia d'Italia e costituire il popolo
italiano". Ma lo stesso Marchesi, l'abbiamo già notato, accusava una
responsabilità globale nella generazione contemporanea al fascismo, che si
porta dentro ancora i veleni del fascismo.
La guerra di liberazione è, perciò, veramente una guerra di espiazione il
cui prezzo è alto. Un partigiano ha scritto: "Consegnammo agli alleati una
provincia piena di croci: sono duemila i nostri morti, fucilati, impiccati,
assassinati" (Revelli). Con questi del Cuneese vi sono i 44.720 partigiani
caduti in Italia; i 32.000 caduti all'estero; i 21.168 mutilati e invalidi;
i 9.980 civili massacrati nelle rappresaglie; gli oltre 40.000 caduti delle
forze regolari impegnate nella guerra di liberazione; i caduti identificati
e quelli delle fosse comuni dei lager nazisti. Località poco conosciute, o
del tutto ignote, sono passate nella geografia storica italiana: Boves,
Cumiana, Fondo Toce, Cascina Benedicta, S. Anna di Versilia, Marzabotto. Di
altre il martirio è meno noto, ma non meno significativo: a Ronchi 168
caduti, 148 deportati e solo 68 superstiti, 21 famiglie deportate al
completo con 26 membri caduti.
La Resistenza non è solo la liberazione del paese, né si può identificare
con un ritorno alle istituzioni parlamentari prefasciste. La Resistenza è
stata "la sanguinosa gestazione di una Italia diversa" (Bocca).
Nell'Italia
diversa nata dalla Resistenza qualcosa è cambiato per sempre: classi
sociali restate estranee e spettatrici (e spesso vittime) dei grandi eventi
storici del nostro Paese hanno conquistato un ruolo di protagonista. Alla
Resitenza non è mancata quella spinta dal basso, che il Risorgimento non
ebbe.
Un partigiano di 19 anni, poco prima di morire in combattimento il primo
maggio 1945, quando già gran parte dell'Italia era liberata, scriveva a sua
madre: "Presto verremo giù, e vedrai che uomini giusti saremo". Il
mondo
migliore e più giusto, che questi uomini sognavano e per il quale sono
morti, è ancora da conquistare. Ma dai monti della Resistenza sono scesi
degli uomini giusti. Appartengono a una generazione che è nata dentro il
fascismo, che ne porta la responsabilità storica, ma che ha lungamente e
duramente espiato. La Resistenza è stata l'esperienza fondamentale e
decisiva della loro vita. "Per questa generazione non v'è congedo",
scriveva un tipografo partigiano delle formazioni GL, Arturo Felici
(Panfilo) in un proclama da lui stampato il 29 aprile 1945. Gli uomini e le
donne di questa generazione tornano alla stagione crudele ed esaltante, che
fu la primavera della loro vita, con un ricordo, che non è compiacimento,
né esaltazione, ma impegno e riflessione costanti; per qualcuno l'ultimo
saluto: "Trenta anni fa, di questi giorni...".
[Questo estratto è da Vittorio Emanuele Giuntella, La lotta di un popolo,
saggio contenuto alle pagine 195-268 del volume di AA. VV., La Resistenza
italiana. Dall'opposizione al fascismo alla lotta popolare, Mondadori,
Milano 1975].
3. Vittorio Emanuele Giuntella: le ultime parole de Il nazismo e i Lager
Le camere a gas di Auschwitz sono il coronamento di un processo iniziato
con l'avvento del nazismo al potere, nel gennaio del 1933; sono lo sbocco
logico e coerente di una ideologia che considerava il Lager come mezzo per
sopprimere gli avversari e stabilire un potere e lo sterminio come atto di
purificazione razziale. Auschwitz è l'emblema di una concezione perversa
del mondo e del destino degli uomini e nel suo nome si compendiano tutti
gli altri nomi dei Lager, che, dal 1933 al 1945, segnarono le tappe della
progressiva espansione del nazismo in Europa. "Auschwitz - ha scritto André
Neher - est un échec brut, dont l'âprété absolue est soulignée par ce qu'il
eut d'universel".
Il carattere universale di Auschwitz, egli dice, sta proprio in questa
partecipazione fisica di tanti non ebrei alla morte degli ebrei, e perciò
dallo "scacco" che Auschwitz rappresentò per la ragione, nacque, dice
ancora Neher, improntando l'espressione a Theunissen, la Speranza, una
speranza "pleinement humaine, engrangée pour le jour de notre
detresse", ma
anche la speranza al di là dell'umano di Geremia, che nel crollo caotico
del mondo vede l'inizio di una nuova Genesi. Il "silenzio di
Auschwitz", il
silenzio segnato dalla chiusura ermetica delle camere a gas, il silenzio
dopo i salmi e le preghiere, le invocazioni o le grida dei morituri, il
silenzio d'ogni parola umana, si apre così alla parola di Dio: "Come ho
vegliato su di essi per sradicare e per demolire, per abbattere e per
distruggere e per affliggere con mali, così veglierò su di essi per
edificare e per piantare".
Penso nel chiudere queste pagine amare, ma aperte alla speranza, a un
ignoto soldato russo, che asciugava con il suo fazzoletto le lagrime di una
deportata ebrea liberata a Stutthof e le diceva parole semplici e grandi:
"Non piangere sorellina. Non permetteremo più che ti facciano del
male".
[Il testo che precede è estratto da Vittorio Emanuele Giuntella, Il nazismo
e i lager, Edizioni Studium, Roma, prima edizione 1979, ristampa 1980, alle
pagine 247-248 (qui abbiamo omesso le note bibliografiche)].
4. Vittorio Emanuele Giuntella: La memoria dell'offesa
Sono molto imbarazzato, oltre che commosso, nel prendere la parola in
occasione di questo convegno, che ha delineato i diversi aspetti (storici,
letterari, etici) dell'attività di Primo Levi. Sono per mestiere uno
storico, ma del valore storico dell'opera di lui ha già parlato
autorevolmente Guido Quazza. D'altra parte chi ha letto il mio volume Il
nazismo e i lager, sa quale grande parte degli scritti di Primo Levi sono
da me citati come fonte storica.
Non posso, perciò, che parteciparvi la mia emozione per essere con voi,
ancora una volta in questa sala, dove tanto spesso l'ho ascoltato e, oggi,
per parlare proprio del nostro comune amico Primo Levi.
Dico subito, riprendendo quel che ha affermato David Meghnagi, citando la
frase di un combattente non ebreo del gruppo di partigiani ebrei, di cui ha
scritto Primo Levi in Se non ora, quando?, che sono con voi una volta di
più come cristiano. Perché, come disse Pio XI nel 1938, non si può essere
cristiani senza essere spiritualmente dei semiti. Ma, detto questo, è
chiaro che non posso e non intendo fare una lettura "cristiana"
dell'opera
di Primo Levi, perché sarebbe da parte mia una mistificazione.
Posso dirvi soltanto alcune mie riflessioni, di me, povero uomo, coinvolto
in qualche modo, anche se molto diverso, dall'oppressione nazista. E,
anzitutto, vorrei dire quello che debbo all'amicizia con Primo Levi anche
per la comprensione totale dell'oppressione nazista. Ci siamo salutati per
l'ultima volta in una sala di questo palazzo; parlavamo della Conferenza di
Wannsee, quarantacinque anni dopo, nel gennaio dello scorso anno. Mi aveva
chiesto di parlare prima di me perché era ansioso di tornare subito a casa.
Avevo appena cominciato la mia relazione e lui passando mi mise una mano
sulla spalla. Chiesi all'uditorio che mi lasciassero salutare Primo, perché
non potevo non salutare un amico come lui. Mi girai, lo abbracciai e gli
dissi: "Ricordati che ti vogliamo bene!" e fummo applauditi. Quasi un
presentimento!
Ci eravamo conosciuti qui a Torino in una memorabile serata, nel 1960, a
parlare, in un teatro, ad una folla di giovani (e non più giovani) della
deportazione. Mi colpì in quella prima volta (e da allora tutte le volte
che ci trovammo insieme a parlare) la chiarezza della sua esposizione, la
semplicità del suo stile, l'assenza di risentimento personale, ma anche
l'estrema nettezza, senza compromessi, o mascheramenti, della sua
posizione. Il male di Auschwitz, aveva scritto in Se questo è un uomo, ha
contaminato gli uomini e si è diffuso come una pestilenza e il contagio è
inarrestabile se non lo si fronteggia con energia. Forse il titolo del
volume che seguì a Se questo è un uomo, La tregua, voleva proprio riferirsi
ad un esito, che poteva essere provvisorio.
A Torino nel 1983, in uno di quei convegni internazionali, che sono
divenuti una preziosa occasione d'incontro, egli parlò della "memoria
dell'offesa", argomento che riprese e allargò più tardi, "strumento
meraviglioso ma fallace" perché "i ricordi che giacciono in noi, non
sono
incisi nella pietra", ma al tempo stesso ribadiva la perennità e la
necessità del ricordo e citava le parole di Jean Améry: "Chi è stato
torturato rimane torturato", e anche, "l'abominio dell'annullamento
non si
estingue mai". Primo Levi commentava: "L'oppressore resta tale, e
così la
vittima; il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire),
la seconda è da compiangere e da aiutare", "ma entrambi davanti alla
realtà
bruta del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di
rifugio e di difesa". Al tempo stesso si indignava per le dichiarazioni di
Darquier de Pellepoix all'"Express" e, soprattutto, lamentava la
maggiore
facilità di diffusione che sembra avere la menzogna.
Nella prefazione a La vita offesa, di Anna Bravo e Daniele Jalla, tornava a
parlare del male oscuro di Auschwitz (non più circoscrivibile in una
denominazione geografica) perché, egli diceva, "la deportazione politica
di
massa, associata alla volontà della strage ed al ripristino dell'economia
schiavistica, è centrale nella storia del nostro secolo". Egli vedeva
nell'esperienza del lager la riduzione dell'uomo alla "pura
istintualità" e
l'adattamento ad un livello di vita subumano, ma anche il ravvivarsi di
"una forza superstite" e una "volontà non domata di proseguire
la lotta",
di sopravvivere per raccontare agli altri la minaccia terribile e inaudita
fatta all'uomo: "se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici,
se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l'uomo è stato capace,
di che cosa è tuttora capace".
Da questa ansia nasce il suo impulso a raccontare: "Considerate se questo
è
un uomo (...) Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per
un sì o per un no. (...) Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste
parole./ Scolpitele nel vostro cuore". Un impegno a ricordare, detto con
accento biblico: "Ricorda che cosa ti ha fatto Amalek". Ma anche il
ricordo
di chi è "restato uomo" anche in Auschwitz, dove il meccanismo
razionale,
non folle, ma lucido, tendeva alla totale spersonalizzazione. L'ex
sottufficiale austriaco Steinlauf invita Primo Levi a non lasciarsi
abbrutire, perché questo è quello che "loro" vogliono, e che
"noi" abbiamo
la libertà di negare. Questa è la suprema libertà di chi tutto ha perduto.
Ricordo ancora la bellissima pagina de I sommersi e i salvati, improntata
al racconto biblico che narra di Gedeone, che sceglie i guerrieri guardando
come bevono l'acqua del fiume, riversi sulla spiaggia e lambendola, o in
ginocchio, o in piedi, recandola alla bocca nel palmo della mano. Questa
ultima libertà di restare uomo e di negare il consenso, dice l'altro grande
deportato Viktor E. Frankl, è un patrimonio interiore, che si può ancora
contendere a "loro".
Ricordate la figura del rabbino Wachsmann reso diafano dalla fatica e dalla
fame, ma dal cui volto traspare una incomparabile forza spirituale e,
perciò, è ancora vivo? E al tempo stesso il rifiuto di una sorta di
"provvidenzialità" intesa, direi, materialisticamente, espresso in
quella
sconcertante pagina dello scampato, per quella volta, alla selezione, che
prega ringraziando, e del giovane greco, che l'indomani andrà in fumo e che
guarda fisso il soffitto della baracca. "Se fossi Dio", esclama Primo
Levi,
"sputerei a terra la preghiera di Kuhn".
Una espressione dura, che può scandalizzare solo colui che non è aduso alla
durezza del linguaggio della Bibbia, il linguaggio di Giobbe, che contrasta
con Dio e si arrende solo alla fine, quando echeggiano le parole divine:
"Chi sei tu, o uomo...", o il linguaggio degli ebrei dell'Esodo a
Massa e
Meriba: "Dio è con noi, sì o no". Il linguaggio e la speranza, dice
Primo
Levi, dei "salvamenti biblici". Non dimentichiamo che Primo Levi ha
voluto
mettere al primo posto nella raccolta antologica La ricerca delle radici
(1981), proprio un brano di Giobbe, che può sorprendere, ripeto, solo chi è
abituato a un linguaggio edulcorato (e perciò corrotto) del suo rapporto
con Dio.
Anche per questo ieri abbiamo sentito con piacere Norberto Bobbio, maestro
di tutti noi, anche di chi non è stato suo allievo, dire che c'è stata una
frattura tra un tempo anteriore ad Auschwitz ed un tempo del dopo; quella
frattura, che ha interessato concordemente (per la prima volta nella storia
del mondo occidentale) teologi israeliti, cattolici e protestanti.
Chiedo scusa se mi sono lasciato andare ad una meditazione a voce alta
sugli scritti di Primo Levi. Ma anche Guido Quazza ricordava che molte
pagine di Primo Levi sono "semplici e incomprensibili"; cioè, se ho
ben
compreso, misteriose, come quelle della Bibbia.
Urge dentro di noi tanta memoria e tanto rimpianto dell'amico lontano, ma
non perduto, come ricordava quel grande rabbino della tradizione ebraica,
il quale agli amici, che ne piangevano la partenza per una terra, che
dicevano lontana, rispose: "Lontano da chi? Lontano da che cosa?".
Perché
ha scritto Primo Levi in una poesia dedicata "Agli amici" nel 1985,
"fra
noi per almeno un momento/ [è] stato teso un segmento/ una corda ben
definita", che neppure la separazione della morte può spezzare. Così
intendo, ancora oggi, il mio legame con Primo Levi.
[L'intervento qui riportato fu tenuto al convegno su "L'opera di Primo
Levi
e la sua incidenza sulla cultura italiana e internazionale, a un anno dalla
scomparsa", promosso dall'Aned (Associazione nazionale ex deportati
politici nei campi di sterminio nazisti), dalla Comunità ebraica di Torino,
dalla Giulio Einaudi Editore, con il patrocinio del Consiglio Regionale del
Piemonte, svoltosi a Torino, a Palazzo Lascaris, il 28-29 marzo 1988. Gli
atti sono stati pubblicati nel volume (a cura del Consiglio regionale del
Piemonte e dell'Aned), Primo Levi: il presente del passato. Giornate
internazionali di studio, Franco Angeli, Milano 1991; l'intervento di
Vittorio Emanuele Giuntella, La memoria dell'offesa, è riportato alle
pagine 79-82, nella nostra trascrizione abbiamo omesso le note a piè di
pagina].
5. Vittorio Emanuele Giuntella: dalle Considerazioni finali del convegno di
Firenze del 1991
In questo convegno abbiamo assistito a una fase nuova della storiografia
sui Lager. La vicenda degli internati militari italiani è stata rivista nel
quadro più vasto delle diverse comunità dei prigionieri nelle mani dei
nazisti e del loro sfruttamento come elemento essenziale della politica
economica di guerra. Da questo punto di vista è significativo che non vi
siano state relazioni sui prigionieri americani e inglesi.
Abbiamo poi constatato la larga partecipazione di storici che non hanno
fatto una personale esperienza dell'internamento e della prigionia di
guerra, ma che comprendono l'interesse che hanno nello studio della storia
contemporanea il nazismo, la resistenza antinazista, il risorgere della
schiavitù nel centro dell'Europa e, infine, l'episodio per tanti versi
anomalo, dell'internamento dei militari italiani. (...)
Il Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un
mondo di resistenti, che prese su di sé la dignità e l'onore di un Paese,
che aveva assistito al crollo di ogni autorità militare e civile, e lottò
in condizioni che non è esagerato definire eroiche. Fu la presa di
coscienza di un gruppo di italiani, che nella maggior parte aveva avuto
come sola esperienza politica quella del fascismo, ma che aveva valutato
direttamente e sulla propria pelle i disastri della guerra fascista, che
l'imbelle retorica dei suoi gerarchi non poteva più nascondere. Nel Lager
avvenne un fatto anomalo. Proprio lì, in un mondo dove era preclusa ogni
volontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli italiani per la prima
volta di esprimere individualmente una adesione, o un rifiuto, e si
pronunciarono in massa per il rifiuto. Quel che ancora meraviglia è che lo
stesso rifiuto fosse dichiarato dai soldati, con maggiore immediatezza, e
dagli ufficiali, in campi separati e sparsi in Polonia e in Germania. Nella
storia degli italiani è uno dei rarissimi episodi di una decisione
collettiva presa con piena consapevolezza del rischio di morte, che
comportava. Che al loro ritorno volutamente non ci si accorgesse di quel
che avevano fatto è una delle manchevolezze della ricostruzione del Paese.
Ci è voluto il recente caso di Leopoli, del quale ha parlato con autorità e
competenza il generale Scandurra, per far scoprire questo aspetto,
sconosciuto ai più, anche per colpa di chi avrebbe dovuto parlarne, della
Resistenza degli italiani nei Lager: una resistenza disarmata, ma non ineme
e inefficace, significativa soprattutto come affermazione di valori morali,
che sono sempre da difendere, anche quando tutto il resto è perduto.
[L'intervento di cui qui abbiamo riportato due brani -dall'inizio e dalla
fine- fu tenuto come conclusione del convegno internazionale di studi
storici su "Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania
nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento", promosso dalla
Federazione di Firenze dell'Associazione nazionale ex-internati (Anei), con
la collaborazione dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana e con
il patrocinio del Dipartimento di storia dell'Università degli studi di
Firenze, svoltosi il 23-24 maggio 1991 a Firenze. Gli atti sono stati
pubblicati nel volume di AA.VV., a cura di Nicola Labanca, Fra sterminio e
sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania
nazista (1939-1945), Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1992. L'intervento
conclusivo di Vittorio Emanuele Giuntella, Considerazioni finali, è alle
pagine 345-350