MASSACRO IN KURDISTAN

 

Il quotidiano della diaspora kurda Ozgur Politika (in Internet www.ozgurpolitika.com: cliccare "eski sayilar", cioè numeri arretrati, e selezionare la data voluta) ha pubblicato i nomi delle vittime e, il 26 agosto, le foto della strage di Kendakor del 15 agosto.

Questo villaggio di pastori nel Kurdistan irakeno, prossimo alla frontiera turca, è stato bombardato da aerei turchi dopo una ricognizione, alle 16 del pomeriggio. Dopo una serie di "no comment", ufficiosamente il massacro di 45 civili, uomini donne e bambini, è stato ammesso da Ankara affermando che "per errore" si è scambiato il villaggio per un accampamento di guerriglieri del Pkk.

Le foto pubblicate da Ozgur Politika, e riprese in parte nell'edizione parziale inglese on-line del quotidiano kurdo (www.kurdishobserver.com), sono di una chiarezza agghiacciante: si è trattato di un bombardamento chimico con uso di napalm.

Formalmente il territorio kurdo-irakeno è sotto protezione Onu, e di fatto è controllato militarmente dall'aviazione Usa e inglese. L'ambasciatore Usa ad Ankara ha affermato però (kurdishobserver 24/8) che i fatti "non riguardano gli Usa: bisogna rivolgersi al governo turco", il quale comunque "ha diritto, secondo gli Usa, di intervenire ne Kurdistan irakeno contro i terroristi del Pkk". Un concetto analogo è stato espresso dal Dipartimento di Stato.

Il villaggio rientra nell'area di controllo del Pdk di Massud Barzani, tradizionale alleato della Turchia, che, pur protestando, ha avallato finora la tesi inverosimile dell'errore.

Si è registrata (ozgurpolitika 26/8) la protesta dei ministeri degli Esteri francese e spagnolo, di due deputati kurdi nel parlamento di Berlino, di France-Liberté e Mrap francese, e naturalmente di tutte le organizzazioni kurde in Turchia e nella diaspora in Europa, dalle Madri per la pace alla confederazione Kon-kurd e al Congresso nazionale kurdo.

In Italia tutto tace. La stampa ha relegato, dopo Ferragosto, la strage fra le "brevi", e la pubblicazione delle foto delle vittime è stata annunciata il 27 agosto dai quotidiani Messaggero ("Orrore on-line") e Liberazione. Il governo non ha preso posizione.

Osman Baydemir, vicepresidente dell'Associazione turca per i diritti umani e portavoce della "Piattaforma per la democrazia" di Diyarbakir, ha annunciato l'intenzione di recarsi in delegazione sul posto per verificare i fatti. Difficilmente gli sarà possibile: il valico di frontiera fra Turchia e Kurdistan irakeno è aperto ad ogni tipo di traffico, compreso quello di esseri umani (profughi), ma ermeticamente chiuso da quattro anni alle missioni umanitarie e alla stampa.

E' urgente che ciò che Baydemir non potrà fare, lo faccia una delegazione dall'Italia, che comunque si pensava di inviare nel Kurdistan irakeno (come già dalla Germania gli operatori di Pro-Asyl) anche per indagare le ragioni del perdurante esodo da una regione formalmente sotto controllo kurdo. Se ne è parlato nell'incontro di Parma di domenica 27 agosto sull'"asilo negato" per i kurdi: l'ipotesi potrebbe essere la prima metà di ottobre, è necessario comunicare disponibilità di massima.

Ora che la strage è nota e provata, è ancora più urgente è moltiplicare le prese di posizione. I numeri di fax utili sono: 06.4941526 (Ambasciata turca a Roma), 06.3236210 (Ministero degli Esteri), e per conoscenza Azad (06.44701017) e Uiki (06.42013799).

I profughi e gli esuli kurdi terranno un presidio di protesta dinanzi all'ambasciata turca a Roma (via Palestro) giovedì 31 agosto dalle ore 11, insieme a tutti gli italiani che vorranno aderire.

Chiediamo agli operatori dell'informazione di darne notizia, e inoltre di scaricare da Internet le foto e pubblicarle.

CHIEDIAMO DI ROMPERE IL SILENZIO!

Associazione Azad - Roma

 

 

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Allegato 1

 

Invio, per comprendere il contesto della strage di Kendakur e la situazione in movimento nel Kurdistan irakeno, un mio articolo che dovrebbe uscire il 29 o il 30 agosto sul Manifesto. (DF)

 

"Stavamo portando le greggi ai pascoli estivi", racconta una donna all’agenzia Reuters: "gli aerei ci hanno sorvolati a bassa quota, poi sono tornati indietro e tutto e' esploso intorno a noi. Quando ho ripreso i sensi non ho visto che sangue". Il 15 agosto l’aviazione turca ha celebrato a suo modo l’anniversario dell’avvio della lotta armata kurda in Turchia nell’84 e della sua cessazione unilaterale nel ’99. Nelle terribili foto pubblicate dal quotidiano della diaspora Ozgur Politika, le ustioni sui corpi di adulti e bambini del villaggio kurdo-irakeno di Kendakor denunciano l’uso del napalm.

Quel giorno Massud Barzani, uno dei due leader che dividono il controllo del Kurdistan meridionale, celebrava nella sua capitale Erbil un altro anniversario: quello del suo partito, il Pdk. Kendakor rientra nella sua area di controllo. Il Pdk, tradizionale alleato di Ankara, ne ha sposato la versione ufficiosa: la strage sarebbe stata "un tragico errore". In sostanza, i pastori sarebbero stati scambiati per guerriglieri del Pkk.

Una scusa poco credibile: i reparti del Pkk ritirati dalla Turchia non sono certo attestati in prossimita' del confine turco ma piu' ad est, nell’area controllata dall’altro partito kurdo-irakeno, il Puk di Jalal Talabani. Ma questa versione e' utile per seminare discordia fra kurdi addebitando, agli occhi della popolazione che visse l’orrore della strage di Halabja, la responsabilita' indiretta del massacro alla presenza del Pkk.

Difatti Yener Soylu, ex ufficiale turco passato all’impegno pacifista dopo la prigionia presso il Pkk, cosi' individua il triplice intento delle bombe: risposta di guerra all’offerta di pace del Pkk, divisione fra i kurdi, affermazione della totale liberta' d’azione turca. Con le spalle coperte: il Dipartimento di Stato Usa ha lapidariamente commentato che "la Turchia e' libera di garantire la propria sicurezza in territorio kurdo-irakeno". Pochi giorni dopo la stampa turca ha dato ampio risalto al rapporto della Rand Corporation dal titolo "The Future of Turkish-Western Relations": per gli Usa la Turchia e' "potenza geostrategica" vitale per la difesa delle risorse dell’Occidente, da coinvolgere nell’ombrello regionale antimissile e nel contenimento strategico della Russia e da sostenere ai fini dell’ingresso nell’Unione europea.

Se la Turchia e' vitale per gli Usa, la questione kurda e' vitale per la Turchia, che vede un rischio mortale in ogni sorta di statualita' o autonomia kurda nell’Iraq del nord. Il 10 marzo il presidente Demirel, parlando all’Accademia militare, scopriva le carte: la Turchia e' più contraria dello stesso Iraq a una divisione del suo territorio nel dopo-Saddam che s’intravede a Baghdad. E dato che non si puo' tornare agli antichi accordi con Saddam per la repressione dei kurdi sui due lati della frontiera di Habur, il controllo turco va esteso ben oltre le province di confine, nelle quali le operazioni militari turche, fino a marzo e a luglio di quest’anno, non sono mai cessate.

Nuvole nere s’addensano dunque sulla martoriata regione, dalla quale il controllo Onu e l’ombrello militare turco-anglo-americano non arrestano l’esodo dei profughi. Il 7 agosto una delegazione della tedesca Pro-Asyl così descriveva la situazione: oppressione non solo da parte di Saddam (che controlla le aree petrolifere di Kirkuk e Mossul, espellendone ogni settimana quaranta famiglie kurde) ma degli stessi partiti kurdi, rischio di tortura e morte, operazioni militari turche e irakene, conflitti interkurdi alimentati dalle potenze dell’area.

Ma se la Turchia vuole presidiare l’intero Nord Iraq, per perseguire l’eterno sogno di annientamento dei guerriglieri del Pkk ma anche per contenere l’Iran nella fase convulsa che seguirebbe l’ipotetico collasso del regime di Baghdad, deve portare le proprie armi ben oltre Erbil, fino a Suleymanye. Magari passando per i giacimenti di Mossul, tentazione antica e ricorrente. Dunque deve cambiare in parte cavallo e avvicinarsi al Puk di Talabani, strappandolo all’influenza iraniana. Del resto ultimamente il Pdk di Barzani e' inviso al governo turco per le pressioni denunciate dalla minoranza turcomanna e per l’ufficialita' della sua rappresentanza ad Ankara, di cui piu' d’un ministro turco ha chiesto la chiusura.

Inoltre la Turchia, che pure si prepara a ripristinare relazioni diplomatiche con Baghdad, teme un tentativo del Pdk di imporre, come già nel ’96 e nel ‘98, la sua egemonia appoggiandosi sulle armi irakene. In luglio il nipote di Barzani, capo del governo di Erbil, ha infatti smentito l’allarme lanciato da Talabani sullo schieramento di quindici divisioni irakene presso la linea di demarcazione.

Per questo il regime turco ha avviato, a partire da una visita incrociata ad Ankara e Suleymanye, un’offensiva diplomatica culminata nella visita di Talabani in Turchia a fine luglio. Anche se smentiti poi in parte dal leader del Puk, i comunicati che hanno seguito i suoi incontri con Ecevit e i generali turchi sono chiari. Il Puk si sarebbe impegnato a neutralizzare i guerriglieri del Pkk attestati in posizione difensiva sul monte Kadir, in cambio di una normalizzazione dei rapporti con la Turchia. E di una ripartizione meno favorevole al Pdk degli introiti del ricco traffico di petrolio e merci che, in violazione dell’embargo, attraversa la frontiera di Habur.

La chiusura delle sedi di Suleymanye del quotidiano Welat, del Centro di cultura della Mesopotamia e di un ospedale della Mezzaluna Rossa kurda, e gli scontri sporadici fra i due partiti kurdo-irakeni e il Pkk che potrebbero innescare un conflitto fratricida come quello del ’92, sono valsi al leader del Puk "l’apprezzamento" del presidente Ecevit.

Dopo una fase di teso confronto, da un mese le armi kurde tacciono. Per questo forse l’aviazione turca ha rotto il silenzio con l’urlo del napalm dal cielo di Kendakor. Quei poveri pastori sono vittime sacrificali nella grande scommessa sul futuro dell’unica parte del Kurdistan in cui, come nota il Christian Science Monitor, nelle scuole si studia su libri kurdi e milizie kurde vigilano sui confini. Anche sui confini interni fra partiti e clan, certo. E con la copertura dell’aviazione angloamericana che ancora il 12 agosto ha ucciso due civili a Samawa, in uno dei quotidiani raid in territorio kurdo e irakeno dalla base turca di Incirlik.

E’ ancora lontana quella "regolazione pacifica dei conflitti intestini nel Kurdistan irakeno, che eviti che kurdi si uniscano ai propri nemici contro altri kurdi", chiesta in giugno da un vibrante appello della Comunita' kurda in Italia, nella quale e' ampia la presenza della diaspora kurdo-irakena. Il sogno di una vera autonomia kurda in un Iraq democratico e' forse ancor piu' remoto della speranza di una democratizzazione della Turchia.

La Turchia e' troppo importante per rischiare di essere destabilizzata dalla democrazia, l’Iraq deve restare diviso de facto ma non de jure, e i kurdi non entrano in gioco se non come litigiosi e disperati vassalli. E’ questo il sanguinoso messaggio delle bombe di Kendakor. E’ per fuggire questo destino che i kurdi sfidano a migliaia il mare Egeo, e venti di loro il 27 agosto hanno perso la sfida.