da "Liberazione" del 7 maggio 2000


Intervista ad Alex Zanotelli, missionario comboniano in una bidonville di Nairobi, in Kenia

Un genocidio “made in Usa”

«Se avremo a che fare con un’impostazione economica come il “Nafta for Africa”, andremo verso una tragedia colossale. Si tratta davvero di decidere la morte di un milione di persone. E il mio sdegno non conosce limiti. Vivendo sulla mia pelle la sofferenza dei poveri a Korogocho, non posso non indignarmi, arrabbiarmi ed esprimere tutta la rabbia che ho dentro». Così padre Alex Zanotelli, missionario comboniano in una delle più povere bidonville di Nairobi, tuona contro lo scellerato progetto economico degli Stati Uniti che intende estendere a tutta l’Africa il modello neoliberista imposto nell’America settentrionale e firmato da Usa, Canada e Messico (appunto il Nafta, accordo nordamericano sul libero commercio). L’ex direttore di Nigrizia è in questi giorni a Roma dove ha partecipato alla presentazione della campagna “Break the silence”, rompi il silenzio, quel silenzio che soprattutto in Italia offusca la tragedia del più povero continente della terra. Liberazione lo ha intervistato proprio per contribuire, nel suo piccolo, a dare forza alla parola d’ordine della campagna.

Alex, che cosa vuole dire questo Nafta per l’Africa? Lo scopo fondamentale è quello di creare una nuova frontiera per il mercato dove buttare merci. E’ questo il fine essenziale. Ed ecco dunque la legislazione sul “Nafta for Africa”. Io mi meraviglio molto del disinteresse europeo su quanto sta avvenendo. E cito, a questo proposito, il New York Times, che in fondo possiamo definire la voce del padrone. L’anno scorso pubblicò un’editoriale estremamente pesante, dove si diceva che questa legislazione era fatta per favorire le grandi multinazionali e distruggere quel poco di stato che ancora c’è nel continente africano. Dio mio, se perfino il New York Times dice una cosa del genere e invece l’Europa è incapace addirittura di parlarne, davvero non ci capisco più nulla. Quali sono secondo te i punti più inquietanti di questa iniziativa americana? Il “Nafta for Africa” è una legislazione che prevede qualcosa di analogo al Nafta già in vigore in America del nord. Come è noto è una specie di tentativo, nato nell’ambito della globalizzazione, che ha il fine di abbattere le barriere doganali. Allora ci fu all’interno degli Stati Uniti un’opposizione terribile. Vinsero per poco ma vinsero. E ora se ne vedono tutti i frutti amari, amarissimi. Tanto che oggi anche negli Stati Uniti non ne possono più, come sta accadendo per esempio tra i sindacati americani. Adesso gli Usa vogliono esportare questa esperienza, amara soprattutto per il Messico, in Africa. Questo significa appunto aprire questo continente alle grandi multinazionali che potranno così comprare quello che vogliono, compreso il ricchissimo sottosuolo, importare ed esportare a loro piacimento tutti i capitali. E’ un po’ la traduzione del Mai (Accordo multilaterale sugli investimenti) per l’Africa. E in un momento in cui questo continente già vive una situazione incredibile. Un’imposizione del genere vuole dire un vero e proprio genocidio. Quali ripercussioni ci potranno essere dal punto di vista sociale? Già il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno adottato una politica di taglio alle spese sociali. Vediamo già che cosa significano negli Stati Uniti e in Europa questi tagli che vengono pagati soprattutto dai poveri. Figurarsi in un’Africa che vive una situazione economica drammatica. Con una politica già promossa dalla Banca mondiale e dal Fmi, rafforzata da un accordo tra il presidente americano e i capi di stato africani, arriveremo a dei tagli incredibili alle spese pubbliche, come sanità, educazione, comunicazione. Questo per moltissima gente vuole dire la morte. Ecco che allora irrompe con ancora più forza il diritto dei poveri. Non si può andare avanti lasciando semplicemente che l’economia faccia i propri giochi a spese dell’uomo. L’economia deve servire l’uomo, non schiavizzarlo o peggio ancora ucciderlo. Come si colloca la questione del debito estero in questo scenario preoccupante? Il G7 di Colonia ha detto che rimettevano, se potevano perché ancora non è certo, 2,5 bilioni di dollari, l’1% dell’intero debito internazionale. Per i paesi più poveri la percentuale salirebbe al 12%. La condizione è che comunque questi paesi impoveriti diventino membri del Wto (Accordo internazionale sul commercio), accettino gli aggiustamenti strutturali e diventino così parte effettiva del sistema della globalizzazione. Un’altra maniera per tirarli dentro la via che io chiamo dell’impoverimento. Non è certo una medicina. Va detto che è già un passo in avanti che qualcuno cominci a capire l’assurdità del debito e io benedico tutte le campagne perché aiutano almeno a coscientizzare. Ma rendiamoci conto che non saranno i grandi proclami imperiali di Clinton che risolveranno il problema. Il sistema rimane intatto e non c’è nessuna volontà di cambiamento e di giustizia. Si vuole solo continuare a fare della carità. Il banco di prova della penetrazione americana nel continente è il Congo. Quale è la tua analisi? Dietro al conflitto del Congo c’è il concetto, legato appunto alla globalizzazione, che in sintesi è “meno stato c’è, e più le grandi compagnie possono fare i loro interessi”. Anche se la guerra va avanti, ognuna delle compagnie dei diamanti, dell’oro hanno i loro eserciti e la loro sicurezza. Va ricordato che la prima guerra di Kabila, quella contro Mobutu, è stata pianificata militarmente dai grandi potentati economici, con la benedizione degli Stati Uniti, che ha utilizzato il Sudafrica e tutte le grandi ditte di diamanti per garantirsi l’accesso alle ricchezze locali. Quando invece Kabila si è rivoltato e ha tentato una via più nazionalista immediatamente c’è stata un’altra reazione ed è partita la guerra attuale. Dietro a questo naturalmente ci sono enormi interessi. Ho citato quelli delle grandi compagnie. C’è poi l’interesse globale degli Usa per il Centrafrica, sancito dal viaggio di Clinton, quando rilanciò la “renaissance” africana (il rinascimento africano), proponendoci come modelli Cagame, Museveni, che sappiamo benissimo che persone sono. Cambiando in parte scenario, come valuti l’attuale scontro nello Zimbabwe tra il presidente Mugabe e i bianchi? Per me lo Zimbabwe potrebbe essere emblematico di situazioni che si ripetono altrove come in Sudafrica. Mugabe è un dittatore, e ultimamente la gente non ne vuole sapere di lui. Per questo ha cavalcato la storia della terra. Ma il problema della terra è reale. Non è possibile che pochi bianchi abbiamo la maggior parte delle terre buone e i neri - che sono trenta o quaranta milioni - facciano i servi. Un problema grosso anche in Sudafrica..... Sì. In Sudafrica l’87% delle terre è ancora in mano ai bianchi e il 95% delle risorse è proprietà di cinque milioni di bianchi. Bisogna dunque che si arrivi ad un minimo di giustizia sociale e questo problema Mandela, che pure ha evitato una guerra civile nella transizione alla democrazia, non lo ha affrontato. Il Sudafrica corre inoltre un rischio ancora più grave: quello di essere usato dai potentati economici per spiazzare il resto del continente. Siamo ancora lontani da una soluzione seria del problema Sudafrica. Con questa nota amara Zanotelli ci lascia. Deve incontrare il segretario dei Ds Walter Veltroni. Chissà se riuscirà a convincerlo che la politica liberista va combattuta con grande determinazione, proprio come fa lui.

Vittorio Bonanni