dal "manifesto" del 21 gennaio 2000

E' scoppiato il caso Valona

In carcere i capi della missione Arcobaleno. L'accusa è di peculato

- GUIDO RUOTOLO - ROMA

S offocata dal fango per via per dei pacchi di pasta regalati, forse venduti, forse scippati. Soffocata dal fango per via di funzionari forse corrotti, forse impauriti, forse impazziti o forse cinici e lucidi al punto da avere compreso che avrebbero dovuto trattare con i signori di Valona, per garantire la sopravvivenza del "campo delle regioni". Ma allora c'era la guerra, signori. Ed è la guerra "umanitaria" dimenticata che oggi riaffiora tragicamente. Non per i suoi orrori ma per le sue degenerazioni. "Missione Arcobaleno", il fiore all'occhiello del governo D'Alema (primo e bis), sta per essere soffocata dal fango che il ventilatore dei "palazzi romani" sta spargendo per cinici calcoli politici.

Ma del fango su "missione Arcobaleno" c'è, e non lo si può negare, dopo che ieri mattina, su ordine della procura di Bari, sono stati arrestati, per i "fatti" di Valona, il capo della "missione Arcobaleno" in Albania, Massimo Simonelli; Luciano Tenaglia, capo del "campo delle regioni" di Valona; Silvia Lucatelli, segretaria alla protezione civile; Massimo Mobono, volontario della Protezione civile e vice di Tenaglia a Valona. Indagato - il gip di Bari ha respinto la richiesta d'arresto - anche un altro funzionario della protezione civile, Fabio Amici, mentre è ricercato un boss - non il boss - di Valona, Rami Isufi. Le ipotesi di reato vanno dal peculato aggravato e continuato ad occultamento di atto pubblico, falso materiale, favoreggiamento continuato e aggravato.

Il gip di Bari Daniela Rinaldi, su richiesta del pm Michele Emiliano, ieri mattina ha fatto eseguire l' ordinanza di custodia cautelare, venticinque pagine. Lo "scandalo" della "missione Arcobaleno" esplose nell'agosto scorso, a "babbo morto", quando la guerra era finita, i kosovari rientrati in Kosovo, l'Albania ritornata alla sua tragica normalità. Non aveva fatto "scandalo" la guerra, anzi quella guerra per palazzo Chigi, per il governo D'Alema (e per il Polo) era stata "santa e giusta". Ma un settimanale tedesco tirò fuori lo "scandalo" dei containers (914, per la precisione) di aiuti umanitari abbandonati sul molo di Bari. Era agosto, e bisognava pure scrivere qualcosa. Non aveva fatto "scandalo", nelle prime settimane di guerra, gli imboscamenti degli aiuti da parte di funzionari e poliziotti albanesi, le minacce contro il "commissario" italiano delle dogane albanesi, l'impossibilità di fare arrivare aiuti per l'intasamento militare della Nato del porto di Durazzo e dell'aeroporto di Tirana.

Ma dopo il settimanale tedesco ci ha pensato un settimanale italiano, Panorama, a tenere viva l'attenzione su quella missione "umanitaria" di migliaia di volontari della Protezione civile. Un filmato fu allegato al settimanale, per dimostrare i saccheggi del campo delle regioni di Valona in quei giorni, forse il 10 luglio, quando gli italiani stavano abbandonando Valona e consegnando il campo alle "autorità" albanesi.

Non aveva fatto scandalo la decisione di creare quel campo a Valona, per trasferirci i kosovari. Non piaceva al professore Barberi, al sottosegretario della protezione civile, quella decisione romana. "Lo ha chiesto il ministro dell'interno Iervolino", confidò il sottosegretario. Non capiva, Barberi, gli "scandali" romani, i calcoli politici di un governo che per tenere a bada il Polo e la Lega che non volevano i "clandestini" albanesi traghettati in Puglia dai Caronte dell'Adriatico. Insomma, Valona doveva rappresentare un possibile argine a una invasione dell'Italia. Eppure "obbedì", Barberi.

Gli "scandali" tedeschi e berlusconiani non portarono a risultati concreti anche perché l'inchiesta giudiziaria barese, aperta ufficialmente il 24 agosto scorso, sembrava destinata a essere archiviata. Ma il pm Emiliano aveva raccolto le deposizioni di vari testimoni. Intanto, del cuoco kosovaro Vladimir Duro, il profugo viedeoamatore che aveva girato il video venduto a Panorama, ma anche di vari volontari che avevano operato nel "campo delle regioni". I testimoni avevano raccontato dei rapporti tra i responsabili italiani del campo e il clan di Rami Isufi. E dei "prelievi" dei valonesi di aiuti umanitari dai depositi del campo (pasta, viveri e anche altri generi di aiuti). Ma questi "prelievi" non furono "donazioni", a leggere il capo d'imputazione contestato agli indagati (peculato aggravato).

Dopo aver raccolto le denunce, il pm Emiliano doveva verificarle. E, evidentemente, i reati ipotizzati sono stati riscontrati. Il sostituto procuratore barese, dunque, chiede a Roma, al governo, alla Protezione civile, la documentazione sulla "missione Arcobaleno", su quella tranche che riguardava la macchina dell'assistenza ai profughi messa in piedi dalla protezione civile e da migliaia di volontari in Albania. Il sottosegretario Barberi affida così al capo della sua segreteria, Roberto Gerola, il compito di recuperare, catalogare e spedire a Bari tutta la documentazione richiesta.

In questa fase precisa della vicenda - Gerola è assolutamente all'oscuro di tutto - gli indagati avrebbero "falsificato" le prove. Ovvero, facendo sparire la documentazione della gestione del campo di Valona dove, evidentemente, si sarebbero trovate le prove della gestione anomala del campo - come per esempio, secondo l'accusa, la cessione di beni a ditte legate al boss di Valona - sostituendola con un'altra documentazione. Secondo la procura di Bari, vi sono anche delle intercettazioni telefoniche che confermerebbero le accuse contestate agli indagati.

"Le indagini - ha precisato il pm Emiliano - sono state possibili anche grazie alla collaborazione della protezione civile e della presidenza del consiglio dei ministri. Il risultato è che già da tempo tutte le persone oggi arrestate erano state trasferite dalle loro abituali mansioni all'ufficio affari generali della presidenza del consiglio". Sempre Emiliano annuncia che palazzo Chigi ha già iniziato l'iter della contestazione degli addebiti disciplinari nei confronti degli indagati.

Mentre il Polo ha chiesto a gran voce la sua decapitazione, ieri il sottosegretario alla protezione civile Franco Barberi non ha voluto replicare. Ma stamani, alle dieci, il professore Barberi sarà al senato, per rispondere a precedenti interrogazioni e, molto probabilmente, parlerà su Arcobaleno. Intanto, ieri, una nota ufficiale della protezione civile, tra le altre cose, ha ricordato: "La gestione dell'emergenza da parte della protezione civile è sempre stata caratterizzata da una totale trasparenza e da un livello di pubblicità elevatissimo: in particolare, la missione Arcobaleno in Albania, che ha visto la partecipazione responsabile di migliaia di operatori appartenenti a corpi e a strutture statali e al volontariato, è stata costantemente seguita da tutti gli organi di informazione nazionali ed esteri". La protezione civile chiede solo che sia offerta al paese "la verità".


 

Articoli da Liberazione, 25 gennaio 2000

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ARCOBALENI ITALIANI E STRAGI DI STATO -
DALLA KATER I RADES ALL'UMBRIA
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1. Naufragio di Pasqua, fu strage di Stato?

2. I militari italiani coinvolti vanno sospesi dal servizio. Ora è
indispensabile la commissione d'inchiesta.

3. Dalla guerra al terremoto - L'inchiesta Arcobaleno si allarga
all'Umbria

4. Denuncia da Bari - «Gli italiani in Albania non ci aiutano»

5. Code di paglia e sensi di colpa - La "malacarità"

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1.
Inquietanti rivelazioni di un super-testimone 
Naufragio di Pasqua, fu strage di Stato?

Non sono arrivate smentite, né prese di posizione, né commenti.
Silenzio.
Ammiragli, comandanti, ministri non ritengono di dover spiegare
alcunché. Non li toccano le rivelazioni di un super-testimone
riguardanti la tragedia del venerdì santo del 1997 quando la corvetta
Sibilla, un gigante di 87 metri, speronò e affondò la piccola carretta
del mare, affollata fino all'inverosimile di immigrati albanesi
(soprattutto donne e bambini): morirono 108 persone.
Non fu un incidente: l'ordine da terra era di usare il pugno duro, di
fermare ad ogni costo la bagnarola albanese, di andarle addosso
anche fino a toccarla, con una vera e propria azione di guerra.
Questo ha raccontato nella sua deposizione il capitano di corvetta
Angelo Luca Fusco; una deposizione resa nota dal Quotidiano
nazionale. Fusco, quel tragico 28 marzo 1997, era in servizio al
centro operativo di Maridipart, il dipartimento marittimo di Taranto e
per le sue mani sono passate le comunicazioni e gli scambi di
informazioni tra gli ammiragli a terra e i comandanti delle navi
italiane mandate a fermare l'albanese Kater I Rades: la Sibilla,
appunto, e la fregata Zeffiro. A lui tocca il compito di trasmettere
quella incredibile comunicazione ricevuta dal comando di Roma
(Cincav): «Abbiamo detto a nave Zeffiro di eseguire un'azione più
decisa fino anche a quasi toccare il bersaglio». Il destino della Kater
I Rades è segnato. Intorno alle 17 arriva il primo messaggio: la
carretta albanese è stata individuata e ne viene comunicata la
posizione. Più tardi, la Zeffiro riferisce: «Stiamo iniziando operazione
di harassment sul bersaglio albanese». Alla Sibilla viene ordinato di
intervenire «in supporto operazione harassment di nave Zeffiro». Ma
che cos'è un harassment? Il termine sta per «disturbo secondo le
Roe», cioè «Rules of engagement», ovvero regole di combattimento
(trattandosi di un manuale militare). Si tratta di una manovra
evidentemente aggressiva, in disaccordo con le leggi internazionali
per la navigazione. Pochi minuti dopo, ecco la comunicazione fatale:
l'ordine alla Zeffiro di eseguire un'azione più decisa, anche fino a
toccare il «bersaglio». In realtà, il «bersaglio» sarà «toccato» dalla
corvetta Sibilla. Ma è chiaro che i giochi di guerra sono all'origine di
una strage che si poteva e doveva evitare. Il racconto di Angelo Luca
Fusco conferma, a processo ancora in corso a Brindisi e a tre anni
di distanza, «ciò che dicemmo allora: l'affondamento della Kater I
Rades - è il commento di Dino Frisullo, portavoce della Rete
antirazzista, e Roberto Aprile, dell'Osservatorio pugliese Italia-
Albania - fu il risultato di un atto premeditato di pirateria in acque
internazionali, derivante dall'ordine di Roma di fermarli "ad ogni
costo". Fu dunque una strage di Stato. Chiediamo ora che la
commissione Stragi apra quell'inchiesta che allora fu risparmiata al
governo Prodi».

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2.

I militari italiani coinvolti vanno sospesi dal servizio
Ora è indispensabile la commissione d'inchiesta

La testimonianza del capitano di corvetta Angelo Luca Fusco, resa
pubblica dalla stampa, sulle responsabilità della Marina militare
nell'affondamento della Kater I Rades, se confermata nella sua
integrità, consente finalmente di sgretolare il muro di omertà
immediatamente levatosi sulla strage del "Venerdì santo". Si
tratterebbe di una vera e propria strage di Stato consumata a causa
di un ordine irresponsabile dato dai comandi militari alle navi Sibilla
e Zeffiro, che finì per provocare lo speronamento della carretta
albanese e la morte di 108 persone.
Fin dal principio il Prc chiese l'istituzione di una commissione
parlamentare d'inchiesta per verificare le regole d'ingaggio date alla
nostra Marina per fronteggiare l'arrivo di cittadini albanesi in fuga
dalla guerra civile oltre che per individuare le eventuali responsabilità
politiche nella strage. Certo è che il governo Prodi adottò in quella
crisi la classica politica dei due pesi e due misure, consentendo ed
organizzando l'arrivo in Italia dei pretoriani di Berisha e
fronteggiando invece in mare aperto la marea di disperati in fuga.
Il Prc chiede la sospensione cautelativa dal servizio dei militari
chiamati in causa dalla testimonianza del capitano di corvetta Fusco
e la immediata messa all'ordine del giorno dei lavori parlamentari
della nostra proposta di legge per la commissione d'inchiesta.
Chiediamo inoltre che sia tutelata l'integrità fisica del capitano Fusco
anche alla luce della strana morte, avvenuta in un incidente
automobilistico la scorsa settimana, dell'intero collegio giuridico che
rappresentava i familiari delle vittime della strage del canale
d'Otranto. Facciamo infine appello a chiunque nella Marina Militare
sia a conoscenza della reale dinamica dei fatti a rompere ogni
consegna del silenzio. Il prestigio della Marina si tutela infatti dicendo
tutta la verità e rispettando in tal modo il giuramento prestato di
fedeltà alla Costituzione e non invece rifugiandosi, per un malinteso
senso dell'onore, nell'omertà.

Alfio Nicotra

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3.

Al lavoro anche la Corte dei conti. Marche, indagato un assessore
regionale

Dalla guerra al terremoto
L'inchiesta Arcobaleno si allarga all'Umbria

Dalla missione Arcobaleno alla ricostruzione del dopo terremoto in
Umbria e Marche. E poi chissà che altro? Lo scandalo
dell'operazione Kosovo, «fiore all'occhiello» del governo D'Alema,
sta trascinando nel fango anche altri pezzi del lavoro della Protezione
civile. L'inchiesta (ormai è ufficiale) si sta allargando alle regioni
devastate dal sisma del settembre 1997. Domani, il procuratore di
Perugia si incontrerà a Bari con i magistrati pugliesi per decidere il
coordinamento delle indagini sulla «squadra Tenaglia» (Luciano
Tenaglia, un altro degli arrestati, era il responsabile del Campo delle
Regioni a Valona).
Il punto di partenza è la presenza di Massimo Simonelli (uno dei 4
arrestati giovedì scorso): è stato responsabile del nucleo
insediamenti abitativi di emergenza della protezione civile, cioè della
struttura che ha curato, dal punto di vista tecnico, l'allestimento di tutti
i campi container. Si sta già muovendo anche la Corte dei conti di
Perugia. Il procuratore precisa che si tratta «al momento di
un'indagine conoscitiva nell'ambito della quale non sono finora
emerse irregolarità nella gestione dell'emergenza post sisma».
E' comunque da tempo che la magistratura contabile indaga sui
soccorsi alle popolazioni terremotate e sulla prima fase della
ricostruzione. Gli accertamenti hanno riguardato il costo dei
container rispetto alle casette di legno, casi di prefabbricati
abbandonati o piazzole per le case di latta prima preparate e poi non
utilizzate, nonché casi di persone che avrebbero usufruito dei
contributi per la sistemazione alternativa pur vivendo negli alloggi di
emergenza. Accertamenti, inoltre, sono stati avviati sia dalla Corte
dei conti della Puglia che da quella del Lazio. La prima si occupa
della sconcertante vicenda dei 900 container lasciati a marcire sotto
il sole nel porto di Bari. La seconda, invece, si interessa degli
eventuali danni erariali collegati all'inchiesta sulla contabilità della
Protezione civile e sui saccheggi nel campo di Valona. L'altra novità
di ieri è l'iscrizione nel registro degli indagati dell'assessore
marchigiano alla protezione civile, Bruno Di Odoardo. E' accusato di
false dichiarazioni al pubblico ministero: avrebbe prima negato, poi
parzialmente ammesso di aver subito pressioni da Massimo
Simonelli perché tutti i responsabili delle regioni alloggiassero
all'hotel "Bologna", quello di proprietà del boss albanese Rami Isufi,
ricercato dalla procura di Bari. La circostanza è stata raccontata dal
capo dipartimento della Protezione civile, Andrea Todisco, che
adesso è stato denunciato dallo stesso Bruno Di Odoardo. Insomma,
un puzzle, che si allarga fino a Comiso: secondo un testimone la
gestione del campo profughi sarebbe costata 100 mila lire al giorno
a persona; il sindaco parla invece di 30mila.

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4.

Denuncia da Bari  
«Gli italiani in Albania non ci aiutano»

Come se non bastasse lo scandalo della missione Arcobaleno, ecco
che arriva un'altra notizia: la procura barese ha in corso accertamenti
sulla cooperazione italo-albanese dal marzo '96 ad oggi. Si tratta per
il momento di indagini conoscitive che, visto il periodo che
abbracciano, dovrebbero riguardare, oltre alla missione Arcobaleno,
la missione Alba del '97 e i finanziamenti italiani in Albania.
Ma perché questo nuovo fronte di indagini? Lo spiega il procuratore
barese, Riccardo Dibitonto: «L'Albania è destabilizzata e l'ufficio del
pubblico ministero ha il dovere di preoccuparsi della fine che fanno i
finanziamenti italiani che, a quanto ci risulta, finirebbero nelle mani
delle organizzazioni mafiose albanesi. Organizzazioni che con i
nostri soldi si alimentano e si sviluppano in tutta Europa». Ma tutte
queste indagini sono rese ancora più complesse dal fatto che le
forze di polizia italiane dislocate in Albania non collaborano,
denuncia Dibitonto: «Le indagini in corso, per esempio la missione
Arcobaleno, sono state avviate grazie agli articoli di stampa, ma mi
chiedo: com'è possibile che un'indagine cominci con gli articoli di
stampa, sapendo che in Albania ci sono da tempo decine e decine
di poliziotti?».

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5.

Code di paglia e sensi di colpa

"L'Arcobaleno, ormai, ha più inchieste, che colori". Così Salvatore
Scarpino nell'editoriale "Il fiore appassito" sul Giornale, il quotidiano
che più degli altri - ed è ovvio visti gli interessi antigovernativi di
Berlusconi - informa sullo scempio, gli sprechi e i furti della
malacarità.
La stampa, complessivamente, ha la coda di paglia. Non è che non
ci siano articoli sugli sviluppi delle indagini della magistratura, o
interviste a quel gruppo di volontari, veri, onesti cittadini, che hanno
fatto scoppiare il caso. Pochi però i commenti o i pezzi di iniziativa
giornalistica: d'altronde non sono state le varie Repubbliche,
Corriere, Stampa, l'Unità ad esultare - insieme alla Rai e a Costanzo
- per la generosità del popolo italiano, che con una colletta di massa
voleva purificarsi dall'aver partecipato ad una aggressione violenta
quanto inutile? Lo ricorda Giuliano Pisapia, che è stato volontario in
Albania, intervistato dalla Repubblica: «Il governo di sinistra ha
puntato troppo sull'immagine della grande operazione. Senza rete.
Forse per un recondito senso di colpa, visto che i bombardamenti
partivano dall'Italia». Nella stessa intervista, il compagno Pisapia
critica la gestione della missione, direttamente in mano al governo:
«Perché il rischio truffa era altissimo - dice - e non sono stati fatti i
dovuti controlli».
Anche per Salvatore Scarpini (sul Giornale) il sistema dei controlli
non ha funzionato: «Confusione nei rapporti fra strutture pubbliche ed
enti locali, disordine nel coordinamento delle organizzazioni del
volontariato che in certi casi (per qualcuno la solidarietà può essere
un business) hanno coperto operazioni non limpide. Per quel che
riguarda l'Albania - prosegue - c'è stata una irresponsabile
sottovalutazione dell'illegalità diffusa in quell'ambiente».
Ci si chiede oggi, che la missione si è trasformata in "omissione"
Arcobaleno, chi ha formato i gruppi, chi ha scelto dirigenti e
funzionari, chi li ha controllati. Forse lo stesso D'Alema, che oggi si
sente personalmente tradito, dopo aver ripetutamente dichiarato che
la missione era il nostro fiore all'occhiello, avrebbe dovuto
controllare, prima, la formazione degli staff, per scoprire che si
trattava di «un gruppo affiatato, stabilmente dedito all'illecito
conseguimento di profitti e vantaggi con il metodo dell'abuso delle
loro funzioni, costituito, verosimilmente, prima della Missione
Arcobaleno e i cui orizzonti operativi non coincidono con il termine di
quest'ultima» come ha scritto il gip di Bari, Daniela Rinaldi a
proposito delle nove persone indagate. C'è una punta di
inconsapevole ironia in questa frase: gli orizzonti, l'arcobaleno e i
soldi finiti nei circuiti del mercato nero albanese o nelle tasche di
questo team di giovani rampanti. Il capo, l'architetto Massimo
Simonelli «bello senz'anima» - se risulterà davvero responsabile di
aver sottratto denaro pubblico e "truffato i disperati" - come titola Il
Giorno - è stato in prima fila in tutti i grandi cataclismi e nelle più
tragiche circostanze: dall'Armenia alla Grecia, dall'Umbria a Sarno.
Speriamo bene. -
La spettatrice

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dal "manifesto" del 12 agosto 2000

La guerra Arcobaleno
Barberi, sotto accusa, ribatte: "Falsità. Non mi hanno ascoltato"
MI. B.

Falsità. "Grossolane falsità". Il direttore dell'Agenzia della protezione civile, Franco Barberi, contesta seccamente le conclusioni a cui è giunta la commissione tecnico-amministrativa istituita sette mesi fa presso la presidenza del consiglio dall'allora premier Massimo D'Alema per fare luce sullo "scandalo" della missione Arcobaleno, quella che avrebbe dovuto essere la faccia pulita della guerra in Kosovo. Un caso che portò la magistratura di Bari a arrestare il capo della spedizione italiana, Mario Simonelli, e Luciano Tenaglia, scelto dallo stesso Simonelli per dirigere il campo di Valona.
E' una relazione, quella della commissione d'inchiesta, che parla di "confusioni contabili", "carenze organizzative", di responsabili selezionati con criteri sbagliati e in generale di una gestione che "può aver fornito l'esca per comportamenti illeciti". Una relazione che punta l'indice anche contro Barberi: "L'azione ispettiva di controllo non è stata esercitata in alcun modo, né nella fase iniziale dell'intervento, né nel corso di esso, né alla fine".
Conclusioni "arbitrarie", una "fuga di notizie unilaterale", ribatte Franco Barberi, affermando che la commissione non ha nemmeno sentito l'ex sottosegretario. Il duro giudizio di Barberi sulla relazione non è infatti di ieri, perché era appunto contenuto nelle sue controdeduzioni. Il responsabile dell'Agenzia per la protezione civile lo rende noto, ricostruendo la vicenda: il 15 giugno scorso il segretario generale di palazzo Chigi invia la relazione a Barberi invitandolo a esporre le sue controdeduzioni, "fornite il 20 giugno con una nota analitica ricca di documenti in cui si contestavano vizi di forma e di sostanza, comprese alcune grossolane falsità", oltre al fatto che la commissione, appunto, non avesse ascoltato lo stesso Barberi "circa il ruolo da lui svolto come componente del governo". Passa più di un mese, prosegue la nota, e il segretario generale della presidenza del consiglio spiega a Barberi che "la commissione non poteva più essere convocata e che le relazioni e le controdeduzioni erano state trasmesse alle varie magistrature inquirenti". La replica di palazzo Chigi appare quantomeno imbarazzata. La precisazione infatti non fa che confermare la ricostruzione dell'ex sottosegretario: è vero, la relazione della commissione d'indagine non contiene le controdeduzioni di Barberi. Che "comunque" sono state inviate alla procura di Bari, nonché alla Corte dei conti e al Viminale. La presidenza del consiglio aggiunge: la relazione è stata consegnata dalla commissione d'indagine il 14 giugno; il 15 è stata trasmessa a Bari, al Viminale e a Barberi, che "è stato invitato a fornire le osservazioni". Osservazioni arrivate il 20 giugno e "successivamente" trasmesse al Viminale, a Bari e alla Corte dei conti. Insomma, tanto per precisare, coincidono anche le date citate.
Ma ora Barberi contesta: "Qualcuno ha reso pubblica la relazione, ma non le controdeduzioni".