dal "manifesto" del 6 ottobre 2001
Effetti laterali
GALAPAGOS
Per dirla con gergo militare: "87 giorni all'alba". L'alba, in questo caso, non
è la fine della naja, ma l'arrivo dal primo gennaio dell'euro nelle tasche di 300 milioni
di europei. Doveva essere una festa, non lo sarà: l'economia europea è alle corde. Sta
ancora un po' meglio di Usa e Giappone, ma ogni giorno siamo tempestati di pessimi notizie
che fanno prevedere per il 2002 un anno orribile del punto di vista economico-sociale. In
tutto questo l'attentato alle Twin Towers c'entra, ma non è la causa scatenante della
recessione.
Da mesi era evidente che il sistema economico globale batteva la fiacca e che la crescita
straordinaria dell'economia Usa era drogata: dall'alta quotazione del dollaro (che
trainava l'export degli altri paesi industrializzati); dal boom delle quotazioni
azionarie, che dava a molti l'illusione di una improvvisa e duratura ricchezza; dalla
perversa espansione del credito al consumo, che spingeva i consumatori Usa a indebitarsi
per seguitare a consumare; dallo sfruttamento di milioni di immigrati clandestini
disponibili a lavorare come bestie a 5 dollari l'ora senza garanzia alcuna; da un eccesso
di investimenti (realizzati con l'autofinanziamento, ma anche con l'indebitamento) che
hanno fatto salire a dismisura la capacità produttiva, ora largamente inutilizzata.
Infine, ma non va enfatizzato, un ruolo importante lo hanno avuto le nuove tecnologie. Ma
pochi si sono accorti che quella vissuta negli anni '90 era la fase terminale di un ciclo
tecnologico e non l'inizio dell'età dell'oro.
La crisi, dunque, era inevitabile. Tutti ne erano convinti a cominciare dagli speculatori
che, dopo aver contribuito a gonfiare le quotazioni di borsa coinvolgendo nel successivo
disastro milioni di risparmiatori, hanno tagliato la corda. Speculatori che non sono
persone "ciniche e bare", ma che hanno più di altri la capacità di prevedere
quanto sarebbe accaduto. Non lo hanno previsto, invece, i governi e gli organismi
internazionali: per incapacità, ma soprattutto per ideologia. Ammettere che questo
sistema possa andare in crisi significa dover riconoscere che è assolutamente imperfetto
e necessita di correttivi. Ma i correttivi (non solo il keynesismo) sono la negazione di
un liberismo imperante che faceva breccia nelle intelligenze e nei cuori di milioni di
persone. Dopo gli attentati, però, tutto quanto era stato negato in precedenza torna ad
essere affermato: il mega piano di rilancio presentato da Bush ne è la conferma. Nessuno
batte ciglio: è la situazione di assoluta emergenza che richiede questa capriola.
Eppure, già all'inizio dell'anno la situazione era grave. Dal 3 gennaio la Fed ha ridotto
per sette volte consecutive i tassi. Poi, dopo l'11 settembre i tassi sono stati ridotti
altre due volte. E' stato tutto inutile: certo, grazie al minor costo del denaro
l'atterraggio è stato reso più morbido. Però la recovery non è decollata: dopo l'11
settembre tutto è esploso (mi scuso per il verbo) e le imprese, senza più remore, hanno
calcato la mano sui licenziamenti, ammettendo finalmente che i loro conti erano in rosso;
i consumatori hanno cominciato a spendere un po' di meno per prepararsi a un futuro che
hanno cominciato a scorgere più incerto. E Bush, con il consenso di Greenspan, ha
cancellato tutte le promesse elettorali (come Berlusconi) annunciando di voler percorrere
la via (più umana) della politica della domanda.
L'Europa invece è ancora "al palo": il totem dell'euro da anni ha fatto scudo a
una politica economica stagnante alla quale sacrificare le conquiste del welfare. Anzichè
esaltare la specificità di un area socio-economica unica, l'obiettivo che si è cercato
di raggiungere è stato quello di una omologazione al ribasso. Cioè agli aspetti peggiori
dell'economia Usa: flessibilità, mobilità, emarginazione.
L'ultima indagine del Census bureau statunitense ci ha fatto sapere che a Washington il 22
per cento degli abitanti è povero: a poche centinaia di metri dal Pentagono si muovono in
cerca di rifugio migliaia di homeless. E molti di questi senza-casa sono persone che hanno
un lavoro. Del tipo che piacerebbe tanto a Berlusconi, Tremonti D'Amato e alla new entry
Maroni. L'11 settembre non ha messo in crisi l'economia globale: ha solo evidenziato la
sua brutale fragilità. E il primo gennaio 2002 l'euro non risolverà i problemi
dell'Europa, ma ne metterà a nudo la pochezza politica e la subordinazione economica.
-------------------------------------------------
STATI UNITI
La "duratura" superpotenza dei debiti
MANLIO DINUCCI
Dal "manifesto" del 2 novembre 2001
Quale parte del mondo fa venire in mente la parola "debito"? Il "terzo
mondo", risponderanno i più. Sbagliato: quando si parla di debito, bisogna pensare
anzitutto agli Stati uniti. La loro economia - la maggiore del mondo - è anche la più
indebitata: il debito complessivo, in crescita, ha superato i 18.800 miliardi di dollari,
oltre il doppio del Prodotto lordo. Il debito del settore privato non-finanziario ha
superato i 10.000 miliardi; quello pubblico, i 5.800, più del doppio dell'intero debito
estero dei paesi in via di sviluppo e di quelli dell'Europa orientale ed ex Urss.
Alimenta il debito il crescente saldo negativo della bilancia commerciale: nel 2000, gli
Stati uniti hanno esportato merci e servizi commerciali per 1.056 miliardi di dollari, ma
ne hanno importati per 1.457, con un passivo di 401 miliardi. Gli Usa consumano più di
quanto producano e a ciò si aggiunge al peso negativo che la produzione estera dei loro
gruppi transnazionali esercita sulla bilancia commerciale, quando viene importata negli
Usa. In tal modo, però, i 37 gruppi transnazionali Usa, facenti parte dei cento maggiori
del mondo, si sono accaparrati nel 2000 oltre il 50% dei profitti complessivi dei cento.
E' in rosso anche la bilancia dei pagamenti (che, oltre alle transazioni commerciali,
comprende i movimenti di capitali): nel 2000 ha registrato un saldo negativo di circa 450
miliardi di dollari.
Ma come fa "la locomotiva dell'economia mondiale" a reggere questo enorme
deficit? Attraverso il flusso di investimenti provenienti dal resto del mondo, sotto forma
di acquisto negli Usa di titoli di stato, di obbligazioni emesse da enti pubblici e
società private, di azioni e altri tipi di investimento. Secondo la U.S. Trade Deficit
Commission il valore delle attività straniere negli Usa supera di 2.000 miliardi di
dollari quello delle attività Usa all'estero. E' questo flusso di capitali stranieri
investiti nel paese che, facendo crescere la domanda di dollari sul mercato valutario,
mantiene alta la quotazione del dollaro, controbilanciandone la tendenza al ribasso dovuta
al fatto che gli Usa, per pagare le importazioni, immettono sul mercato internazionale
più dollari di quelli necessari agli altri paesi per pagare le importazioni di merci e
servizi statunitensi.
Che cosa attira i capitali stranieri negli Usa? Non solo i profitti. Soprattutto chi
effettua grossi investimenti a lungo termine lo fa nella convinzione che gli Stati uniti
sono la "potenza globale", decisa a sostenere i propri interessi anche con la
forza militare. La superpotenza statunitense - il cui cuore pulsante è il complesso
militare-industriale - ha quindi necessità organica della guerra, non solo per
ridimensionare potenze regionali in ascesa e controllare aree strategiche come quella
petrolifera Caspio-Golfo. Ne ha necessità per riaffermare supremazia e quindi
affidabilità agli occhi dei grossi investitori che, portando i loro capitali negli Usa,
ne finanziano il deficit.
Ciò è ancora più necessario nei periodi di crisi, come quella che ha investito - non
dopo, ma prima dell'11 settembre - l'economia Usa. Tra i fattori che l'hanno determinata
vi è l'eccesso di capacità produttiva, in rapporto a un mercato interno e internazionale
ridottosi per effetto della crisi finanziaria globale che ha colpito anche le classi
medie. La "locomotiva dell'economia mondiale" ha rallentato fino quasi a
fermarsi: nel primo semestre 2001, il suo tasso di crescita è sceso allo 0,3%; la
produzione industriale è calata di quasi il 5% rispetto al 2000; i licenziamenti per
crisi, soprattutto in settori tecnologicamente avanzati, hanno superato i 770mila.
"Già prima dell'11 settembre - scrive The Washington Post (9 ottobre 2001) - era
chiaro che gli Stati uniti stavano subendo un forte rallentamento economico e che
l'espansione avrebbe potuto giungere alla fine".
La crisi ha inciso sui flussi di investimenti esteri diretti: quelli in uscita dagli Usa
sono calati, rispetto al totale dei paesi sviluppati, dal 15% nel 1999 al 13% nel 2000,
mentre quelli dell'Unione europea, pur scendendo dal 76% al 74%, sono rimasti cinque volte
superiori. Sono calati anche i flussi in entrata negli Usa: dal 35,5% al 28%, mentre
quelli nella Ue sono saliti dal 56% al 61,5% (Unctad, World Investment Report 2001). Ciò
rivelava un calo di fiducia degli investitori internazionali nell'economia statunitense, e
quindi una diminuita capacità degli Usa di finanziare il proprio deficit con i capitali
esteri. Sintomo molto pericoloso, indice di una diminuita competitività economica degli
Usa soprattutto nei confronti della Ue, il cui pnl ha ormai raggiunto quello statunitense.
La guerra ha permesso all'amministrazione Bush di varare un piano a lungo termine per
ridare fiato all'economia: il 24 ottobre, il congresso ha approvato un primo pacchetto di
aiuti per l'ammontare di 110 miliardi di dollari, 70 dei quali vanno ai maggiori gruppi
economici sotto forma di riduzione di tasse. A fare la parte del leone sono la Ibm, la
General Motors, la General Electric e poche altre società. Il resto va a settori sociali
benestanti, per aumentarne i consumi, e solo in piccola parte a programmi che i singoli
stati dovrebbero varare per i disoccupati in forte crescita, anche perché molte aziende
hanno approfittato dell'11 settembre per effettuare riduzioni di personale già
programmate.
Questa massiccia iniezione di denaro pubblico, effettuata dallo stato nelle casse dei
maggiori gruppi economici privati, infrange il sacro dogma del liberismo, che Washington
pretende sia osservato da tutti gli altri paesi, cioè che lo stato non deve intervenire
nella vita economica del paese per avvantaggiare i gruppi economici nazionali.
Contemporaneamente, con la guerra, lo stato Usa sostiene gli interessi di questi gruppi in
una regione - l'Asia - di enorme importanza economica e strategica. E, per accrescere la
propria forza militare, inietta dosi ancora più massicce di denaro pubblico nelle
industrie belliche private. La Lockheed Martin riceverà dal Pentagono oltre 200 miliardi
di dollari (434.600 miliardi di lire) per costruire 3.000 caccia Joint Strike, cui si
dovrebbero aggiungere altri 200 miliardi come prevendite a paesi alleati e contratti di
manutenzione. Ci sono quindi buone speranze che la "locomotiva dell'economia
mondiale" possa ricominciare a correre con le sue ruote cingolate.
--------------------------------------------------
Dal "manifesto" del 3 novembre 2001
Precipita il lavoro negli Usa