Materiali per una cultura della pace e della dignità umana:
Alessandro Zanotelli, teoria e pratica dell'utopia concreta
"Il Vangelo ha qualche cosa da dirci sia in campo economico, che politico,
che sociale. La liberazione che Gesù annuncia è una liberazione radicale,
totale. Il missionario è colui che rimane così profondamente "preso"
da
questo Vangelo, da questo Cristo, da tentare di vivere come Lui è vissuto
nel suo tempo. Gesù è stato l'uomo per gli altri e con gli altri, in
particolare l'uomo per i poveri, aperto agli ultimi, a chi non contava, ai
peccatori, alle prostitute, ai pubblicani, a chi non conosceva che Dio è
papà". Sono parole di Alessandro Zanotelli, pubblicate ne Il coraggio
dell'utopia, Publiprint, Trento 1988, libro che accoglie le serrate e dense
riflessione tenute alla radio da Zanotelli mattina dopo mattina dal
settembre al dicembre 1986.
Padre Zanotelli è un religioso cattolico, un missionario comboniano, ma
soprattutto un costruttore di pace, un autentico "uomo planetario"
per usare
la pregnante formula di padre Balducci. La sua voce parla anche per chi non
aderisce alla sua fede religiosa ma condivide l'impegno concreto per la
dignità umana.
Credo che sia dal 1987 che non vedo Alex Zanotelli, ma leggere ogni tanto su
varie riviste le sue lettere ed i suoi appelli, trovare ogni tanto sulla
stampa il suo volto divenuto barbuto e di una barba incanutita, sentire in
momenti cruciali la sua parola e la sua testimonianza, e in definitiva
sapere che c'è, mi procura -posso dirlo?- intensa una gioia, e
m'intenerisce: come è logico e bello che avvenga quando ci sovviene di una
persona grande, di un amico lontano cui spesso ci piace pensare a conforto
della pena dei giorni e del dolore del mondo.
"E' tempo di apocalittica, è tempo di Resistenza" scrive nelle righe
finali
di Una lettura biblica della globalizzazione (in Alex Zanotelli, Sulle
strade di Pasqua, Emi, Bologna 1999, seconda edizione, a p. 92). Alla
globalizzazione nel segno della violenza e dello sfruttamento, della
sopraffazione dell'uomo sull'uomo, Alex ci propone di contrapporre la
globalizzazione delle comunità di Resistenza, la forza della nonviolenza,
un'economia di uguaglianza e una politica di giustizia, quella proposta
organizzativa ed operativa che ha definito "la strategia lillipuziana".
Sì: è tempo di apocalittica, è tempo di Resistenza.
Agli estratti seguenti premettiamo una breve notizia biobibliografica.
Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo
Viterbo, 14 agosto 2000
Notizia biobibliografica su Alessandro Zanotelli
Profilo biografico: missionario comboniano, ha diretto per anni la rivista
"Nigrizia" conducendo inchieste sugli aiuti e sulla vendita delle
armi del
governo italiano ai paesi del Sud del mondo, scontrandosi con il potere
politico, economico e militare italiano: rimosso dall'incarico è tornato in
Africa, in una bidonville alla periferia di Nairobi, a condividere vita e
speranze dei poveri. Ha diretto anche la rivista "Mosaico di pace",
promossa
da Pax Christi.
Opere di Alessandro Zanotelli: La morte promessa. Armi, droga e fame nel
terzo mondo, Publiprint, Trento 1987; Il coraggio dell'utopia, Publiprint,
Trento 1988; I poveri non ci lasceranno dormire, Monti, Saronno 1996;
Leggere l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo, La meridiana,
Molfetta 1996; Sulle strade di Pasqua, Emi, Bologna 1998; Inno alla vita,
Emi, Bologna 1998; Ti no ses mia nat par noi, Cum, Verona 1998.
Indirizzi utili: "Nigrizia", vicolo Pozzo 1, 37129 Verona; Edizioni
la
meridiana, via M. D'Azeglio 46, 70056 Molfetta (BA); EMI, via di Corticella
181, 40128 Bologna.
1. Alessandro Zanotelli, Era notte
I raid su Tripoli e Bengasi da parte dei bombardieri USA, la notte tra il 14
e il 15 aprile, con il loro tragico bilancio di morti e feriti, sono la
logica conseguenza di un sistema mondiale costruito sulla violenza. Il raid
militare USA contro il regime libico non ha nulla da invidiare a quelli
israeliani, sudafricani o sovietici. E' la logica del terrore che prevale,
la stessa che si contesta al leader libico Gadhafi accusato di essere "il
padrino del terrorismo". Ma perché "demonizzare" solo il
"pazzo di Tripoli"?
Non è forse terrorismo quello del presidente sudafricano Botha che schiaccia
24 milioni di neri e destabilizza l'intero subcontinente australe? Non è
forse terrorismo quello israeliano? Perché allora non un raid su Pretoria
per far rinsavire Botha?
Questo non significa giustificare Gadhafi, un piccolo duce che non ammette
opposizioni interne, e che ha smisurate ambizioni che tenta di realizzare
con la logica delle armi (anche se bisogna riconoscere che rimane un uomo
non corrotto che ha saputo utilizzare i petrodollari a favore del suo popolo
che oggi dopo secoli di umiliazioni ha acquistato un nuovo senso di dignità).
Ma ridurre il tutto alle "pazzie" di un colonnello di turno è troppo
comodo.
I tragici eventi di quella notte ci provocano ad alcune amare
considerazioni. Innanzitutto abbiamo visto il volto rozzo dell'imperialismo
americano, un volto che sembrava prerogativa dell'imperialismo sovietico
(gli imperialismi sono uguali sotto tutti i cieli!). Secondo, il
comportamento garibaldino e quasi infantile della più grande potenza di
questo mondo (Rambo insegna!). Terzo, le armi non servono soltanto per
"l'equilibrio del terrore", come spesso si ripete, ma un giorno o
l'altro
finiscono per essere utilizzate. Quarto, "lo schiaffo di Tripoli" è
uno
schiaffo dato al terzo mondo, al mondo arabo in particolare. L'umiliazione
della Libia è quella di tutta l'Africa: è un monito molto esplicito a tutti
i paesi africani perché marcino diritto. E' un suggello alla linea di
Pretoria che troverà conferma alla giustezza della sua politica. Così
l'Africa si trova sempre più tra due fuochi: a nord le corazzate e gli aerei
USA, a sud il regime di Pretoria, senza dimenticare i russi. Per un'Africa
politicamente ed economicamente a pezzi, non sono certo queste le buone
notizie che aspettavamo.
Ma se si va più a fondo, la "beffa di Tripoli" è uno schiaffo anche
all'Europa sempre più ridotta a provincia dell'"impero". Questo vale
in
particolare per l'Italia, ultimo villaggio dell'impero yankee. L'Italia è
così costretta, suo malgrado, a giocare un ruolo che contraddice tanto la
sua posizione geografica che quella storica. E ci ritroviamo oggi con un
pugno di mosche, indispettiti per non essere stati considerati neppure degni
di essere informati del raid da parte americana, ci sentiamo per di più
colpevoli di aver armato la Libia, rendendola uno dei più potenti arsenali
d'Africa. Pur sapendo bene chi era Gadhafi, gli abbiamo portato armi dal '77
all'85 per oltre un miliardo di dollari. Ed ora i nostri generali ci
invitano ad armare la Sicilia, Pantelleria, Lampedusa... per difenderci dal
"grande nemico" che ci minaccia dal sud (questa è schizofrenia
politica!).
E' forse tempo di rivedere la nostra linea politica che ha fatto da
copertura alla politica americana in Medio Oriente ed in Africa, anche se
vanno riconosciuti gli sforzi compiuti dal nostro Ministro degli esteri per
aprire degli spazi di manovra.
Di fronte a questi fatti sconcertanti, non ci rimane altro che impegnarci
con tutte le nostre energie per dire no a questa follia collettiva. Quanto
avvenuto è una ragione di più per camminare senza mezzi termini sulla strada
indicata dal documento Beati i costruttori di pace.
[Testo dell'editoriale apparso originariamente sulla rivista
"Nigrizia" nel
maggio 1986, poi ristampato in La morte promessa, Publiprint, Trento 1987,
alle pp. 136-138].
2. Alessandro Zanotelli, La militarizzazione crescente
Sono sempre più convinto che uno dei mali più gravi che rode questo
continente -dalla crescente pauperizzazione con problemi di fame, sete,
abbandono delle campagne, debito, eccetera- sia il problema delle armi, la
militarizzazione spaventosamente crescente. Alcuni dati rendono chiara
questa mia affermazione.
Il continente africano nel giro di pochi anni ha subito una spirale
militaristica in crescendo. Alcuni esempi.
Nel '73 le spese militari in Africa erano di tre miliardi e ottocento
milioni di dollari, dieci anni dopo erano salite a sedici miliardi e
novecento milioni. Nel '73 le spese militari a testa all'anno erano di 22
dollari, dieci anni dopo con una popolazione più vasta erano salite a 34
dollari a testa. I militari nell'83 arrivavano già ad un milione e
cinquecentomila, un incremento di 2/3 dal '73.
A livello di importazioni: nel '73 l'Africa importava per un valore di
quattrocentosettanta milioni di dollari, nell'83 eravamo già a quattro
miliardi e ottocento milioni di dollari.
In un continente pieno di conflitti, con cinquanta Stati, creati da noi
dividendo intere popolazioni, questo arrivo a getto continuo di armi, sta
creando veramente il disastro. Oggi infatti basta guardarsi intorno: non vi
sono altro che guerre e conflitti. Ritengo sempre più criminale questo invio
di armi, anche di armi convenzionali. L'Egitto ha un debito verso gli Stati
Uniti di 35 miliardi di dollari, metà dei quali in armi. Lo stesso vale per
l'Unione Sovietica, presente in Africa soprattutto con armi e soldati.
L'Angola, per esempio, ha un debito verso l'URSS di due miliardi e 500
milioni di dollari in armi.
Questa militarizzazione del continente è un qualcosa di allucinante, per me,
oggi diventa veramente criminale esportare armi in Africa.
Un giovane missionario in Mozambico, dove sperimenta una guerra spaventosa
che dura da almeno 11 anni, scrive: "La guerra concreta come la
sperimentiamo qui è un vero mostro di crudeltà, di barbarie, di disumanità.
Che fare per arginare questa situazione, tanta malvagità, e ricreare un
mondo nuovo? Da parte mia, vorrei venire in Europa e partecipare a tutte le
marce per al pace, a tutte le manifestazioni contro le armi nucleari e non
solo...".
Che questo grido, questo invito, diventi anche nostro!
[Testo di una conversazione radiofonica, estratto da La morte promessa,
cit., pp. 153-154].
3. Alessandro Zanotelli, Dove si muore di fame
E' assurdo che ancora oggi ci sia fame a questo mondo!
La povertà e la fame che oggi intaccano milioni di persone sono opera
dell'uomo. La siccità non è la sola causa come spesso ci viene dato di
credere. La fame è il risultato dell'oppressione, dell'ingiustizia sociale,
della povertà sia a livello internazionale, che nazionale, che locale. A
milioni di persone è negato il più elementare diritto umano, il diritto
all'alimentazione, o meglio, il diritto a nutrirsi, ad alimentarsi da sé.
L'ambiente, elemento essenziale della protezione di questo diritto, è
distrutto dall'imposizione di tecnologie inappropriate e da un'agricoltura
orientata verso le esportazioni. Dieci anni fa, Kissinger, durante una
conferenza mondiale affermava che entro una decade nessun bambino sarebbe
più morto di fame. Dieci anni dopo non solo non è cambiato nulla, ma la
situazione è di molto peggiorata. In questa giornata dedicata
all'alimentazione vorrei incoraggiare tutti a sostenere quei movimenti, in
particolare quegli organismi non governativi e tutte quelle istanze che
lottano per il diritto dei popoli a nutrirsi da sé, a reggersi sulle proprie
gambe, all'autosufficienza alimentare. In particolare sosterrei questa
campagna, che è nata anche in Italia, ed è ormai internazionale e che ha
sede presso i "Fratelli dell'Uomo" in via Varesina 214, a Milano.
Come missionario accetto quella grande sfida che è stata lanciata proprio lo
scorso anno da Susan George, quando parlando a noi missionari, questa
esperta di alimentazione, ci diceva: "Voi missionari potete fare tanto
perché vivete tra le comunità povere del mondo e potete essere il punto di
riferimento per la giustizia sociale. C'è chi vi taccia di essere degli
esaltati, di vivere fuori dalla realtà di oggi, magari con la pretesa di
fare l'impossibile, cioè di salvare i condannati alla fame".
Penso che Cristo intendesse proprio questo quando ci diceva di essere il
sale, il lievito, il coraggio di andare contro corrente. E' questo il
coraggio oggi richiestoci. Dobbiamo essere utopisti, viviamola subito questa
utopia, che è la dignità dell'uomo.
[Testo di una conversazione radiofonica, estratto da La morte promessa,
cit., pp. 155-156].
4. Alessandro Zanotelli, Korogocho
Se noi non riusciamo ad udire questo grido, non c'è nulla che avviene dentro
di noi. Ecco l'importanza di scendere in un luogo come Korogocho, dove
sperimenti davvero la sofferenza dell'uomo. E' quello a cui questo nostro
sistema porta. E davvero è sofferenza.
Cos'è Korogocho? Korogocho è una delle baraccopoli di Nairobi, ha centomila
abitanti, è una delle tante, neanche la più grande. Si calcola, e sono dati
dell'ambasciata americana confermati dallo stesso sindaco di Nairobi, che il
60% di Nairobi vive in baraccopoli. Questo vuol dire che su tre milioni di
persone, un milione e settecentomila sono nelle baraccopoli. E non sono come
quelle del Brasile, dove almeno c'è un po' di verde, lì non c'è nulla. A
Nairobi avete un milione e settecentomila persone impacchettate,
sardinizzate nell'1% della terra disponibile di Nairobi. Anche questo è un
dato ufficializzato dall'ambasciata americana. E' incredibile la
concentrazione che c'è. Le bestie che vedete nei parchi nazionali del Kenya
sono trattate molto meglio dei poveri di Korogocho. Ciò che è ancora peggio
è che questo 1% appartiene al governo, che non lo vuole cedere. Anzi, sembra
ormai accertato che il governo abbia lottizzato questo 1% della terra a
gente che ha i soldi, per cacciar via i poveri e mandarli più in là. Questo
è l'eterno destino dei poveri: sono sempre più in là, perché sono poveri.
E più grave ancora: non solo la terra non appartiene ai poveri, ma neanche
le baracche. L'80% delle baracche di Korogocho, e lo stesso dato vale per
buona parte delle baraccopoli di Nairobi, sono date in affitto. La gente
paga l'affitto, con uno sfruttamento che è pauroso. Ci sono pochi ricchi
signori che ricavano un sacco di soldi da questo giro, rendendo persino
impossibile la solidarietà tra i poveri. In baraccopoli i poveri si dividono
tra chi detiene la baracca e chi è in affitto. A questa mancanza di
solidarietà si aggiungono tante situazioni di degrado morale, basti pensare
che la popolazione di Korogocho è composta per il 60-70% da donne con
bambini. Non esiste la famiglia.
E non è solo Nairobi. Si dice che a Johannesburg ci sono due milioni di
abitanti. E' vero, ma se si considera solo la Johannesburg bianca, bella,
pulita! Dall'aereo si riesce a vedere la vera Johannesburg: sono sette
milioni di abitanti! E si riesce a distinguere la bellissima Johannesburg
bianca. Ma il resto, i tre quarti, chi sono, cosa sono? Sono lunghi immensi
dormitori... dove per 100-150 anni i neri sono stati accatastati da soli,
senza donne, che vivevano fuori e incontravano i loro mariti un paio di
volte all'anno. E tutto per che cosa? Per l'oro, l'economia... uno sfacelo
familiare, umano, culturale di tale dimensione che anche solo dall'aereo
spaventa. E mi dico: è lì! E' l'economia che ci domina tutti, che ci strozza
tutti.
Korogocho è solo una piccolissima realtà, che però deve farci riflettere.
Una volta che voi scendete qui dentro e sperimentate... Per esempio, il
battesimo con i poveri: è un'esperienza che non si può dimenticare, che
davvero ha la capacità di redimere, così come sta redimendo me.
[Estratto da Esodo: ho udito un grido, in Alessandro Zanotelli, Leggere
l'impero. Il potere tra l'Apocalisse e l'Esodo, La Meridiana, Molfetta 1996
(seconda edizione), alle pp. 38-40. Il libro raccoglie due meditazioni di
Alex Zanotelli svolte in incontri tenuti a Bergamo con gli operatori della
cooperativa "Il seme" impegnata nel commercio equo e solidale].
5. Alessandro Zanotelli, Fili lillipuziani
Ritornando in Italia da Korogocho la cosa che ho notato è che subito si
respira nell'aria questo fenomeno sociale dell'"atomizzazione", dove
ognuno
fa per sé, si rinchiude nel proprio buco e vive la sua vita, generando
disgregazione nella propria comunità e nella società. Direi che questo forse
è il fenomeno che più spaventa e che più ci porta alla morte, non tanto la
morte fisica, ma quella interiore propria di una società che vive in
funzione di sé stessa, che ha fatto delle cose, dei soldi, il suo idolo, il
suo dio. Non riusciamo neanche più ad esprimerci, a sentire la bellezza
dell'essere insieme, del toccarci, di un cammino comune verso una meta. Ma
l'umanità può esistere solo se la si coniuga al plurale: io ho bisogno degli
altri, ho bisogno della verità degli altri, della loro esperienza culturale,
di altre culture ed esperienze religiose. La cosa che mi ha rincuorato,
girando per l'Italia, è che c'è volontà di rinascere, nelle parrocchie e
fuori, nei quartieri, di rimettersi insieme, di creare piccole comunità: c'è
un tentativo chiaro di risalire la corrente. A differenza del Sud del mondo,
tuttavia, le nostre "comunità di resistenza" invece di essere unite
vanno
ognuna per la propria strada, pensando di fare una cosa importante contro
l'impero del denaro, ma poi ci si scopre impotenti perché proprio tale
individualismo, conseguenza di questo tipo di economia, lavora anche nelle
"sacche di resistenza". L'impero dei grandi agglomerati economici,
invece,
riesce a collaborare e ad autoalimentarsi alla perfezione: è in questo
meccanismo che pulsa il cuore della globalizzazione. Alla "globalizzazione
economica" noi dobbiamo rispondere con una "globalizzazione dal
basso", in
chiave di "resistenza". Si tratta di mettere in atto una
"strategia
lillipuziana": i minuscoli lillipuziani, alti appena qualche centimetro,
catturano Gulliver, il gigante predone, legandolo nel sonno con centinaia di
fili. Di fronte alle soverchianti forze e istituzioni globali, la gente può,
in modo analogo, utilizzare le modeste fonti di potere che ha in mano e
combinarle con quelle in possesso di altri, partecipanti ad altri movimenti
e in altri luoghi.
La "strategia lillipuziana" intreccia molte azioni particolari,
pensate per
ostacolare il livellamento verso il basso -perché l'economia tende a
spostare gli investimenti dove minori sono i costi- e spingere, invece, il
livellamento verso l'alto, per permettere cioè ai poveri di elevarsi. Che
cosa possiamo fare? Bisogna innanzitutto collegare gli interessi dei poveri
con i nostri, le identità specifiche con comunità più ampie, le
problematiche con i soggetti sociali, chi è minacciato con chi è
marginalizzato; collegare diverse fonti di potere; collegare le lotte contro
l'istituzione come oggetto di contestazione, la resistenza con il mutamento
istituzionale; collegare questioni economiche e democratizzazione. Questa è
la vera strategia politica, che dovrebbe nascere in Italia prima di tutto in
chiave regionale. Da qui, dall'esperienza di coordinamento regionale, ci si
potrà muovere verso un coordinamento nazionale, ed avere forse una piccola
équipe, che potrebbe fare da connessione, senza comandare, ma esercitando al
massimo grado, specialmente con gli strumenti offerti dalla telematica e da
internet, un'amplissima rappresentatività democratica. La tecnologia che
abbiamo a disposizione sarebbe meravigliosa se usata per l'uomo e non come
esclusivo strumento del mercato. Dobbiamo, cioè, essere agenti di
"vitalizzazione" (la filosofia africana la chiama
"vitalogia", perché il
cuore del sentire africano è la vita). Si può vivere solo in comunità, stare
bene insieme, cantare insieme, celebrare insieme, vedere che si possono
ottenere delle piccole vittorie.
Gioire dentro una famiglia ci ridona la gioia di vivere, della relazione del
volto, i volti dentro una comunità, la gioia della comunità, la gioia
dell'incontro, della danza, della festa, della vita. Pablo Richard, un
teologo della liberazione del Costa Rica, dice che "il tempo delle
profezie
è passato; oggi è il tempo dell'apocalittica". L'Apocalisse biblica è la
letteratura di resistenza delle prime comunità cristiane, il libro in cui
profetizzavano la caduta di quell'impero che le perseguitava. Anche noi
dobbiamo abbandonare i sogni di un tempo, nei quali immaginavamo di prendere
il potere. "Oggi, dice Richard, anche se si prende il potere non si va
molto
lontano. Alle soglie del Duemila, quando si può governare solo entro i
limiti imposti dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale, è irrilevante chi
governi. La speranza si sposta dalla politica alla società civile, ai
movimenti popolari, affinché costruiscano un nuovo potere dal basso.
Qualcosa di alternativo, di bello, di gioioso, di felice, che, con grinta,
crei nuove culture, nuove preghiere, nuove maniere di vivere insieme, nuove
prospettive economiche, perché vinca la vita".
[Estratto da Alex Zanotelli, Inno alla vita. Il grido dei poveri contro il
vitello d'oro, Emi, Bologna 2000 (seconda ristampa), alle pp. 105-107].