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Quando
è storia, è storia. "A CHORUS LINE", da
quella leggendaria sera del 25 luglio 1975 in cui andò
in scena al Public Theatre, dove 300 persone sedute sui
300 posti "off broadway" si passarono subito
parola, è diventato il re dei "musicals". Non
solo perché ha battuto tutti i record di gradimento e
programmazione (trasferitosi subito "in"
Broadway per merito dellimpresario shakespeariano
Joseph Papp, è rimasto in scena alla Shubert Theatre 15
anni fino al 28 aprile 90, 6137 repliche),
diventando nell85 anche un film di Sir Richard
Attenborough con Michael Douglas, ma perché ha
rivoluzionato la tecnica, e, si può dire, la morale di
questo genere di spettacolo che nasce direttamente dalla
costola del teatro americano. Il musical si è così
creato sera per sera, adattandosi ai suoi protagonisti
che sono mutati nel corso del tempo: giacché si tratta
di teatro nel teatro, ovvero come un regista
"manhattese" passa un pomeriggio di audizioni
per scegliere il balletto di un nuovo spettacolo. Ragazzi
e ragazze pronti a sgambettare sotto i riflettori
traslocando da una città allaltra, col cuore
protetto dalle insegne al neon (in americano li chiamano
"gipsies", zingari) si "confessano"
in palcoscenico sulla "chorus line", la linea
bianca che delimita lo spazio del balletto di fila da
quello delle star. "A CHORUS LINE" è
soprattutto un omaggio al teatro, alletica del
"si va in scena", dei sacrifici occulti che gli
attori sostengono e dei traumi che vivono, perché ogni
volta che si apre il sipario ciascuno porta alla ribalta
un pezzo della propria vita. Nel musical probabilmente
sapete come va a finire, qualcuno verrà scelto, qualcun
altro no (tu, tu, tu, tu e gli altri a casa, la prossima
volta, grazie), ma tutti alla fine, come per magia,
appariranno in lustrini, paillettes a dirci cantando
"one", il motivo più orecchiabile dello show,
che si tratta comunque di una "singular
sensation". Una singolare sensazione che prende
anche il pubblico. Il musical infatti ci commuove
ribaltando le classiche convinzioni del genere, che ha
fatto i primi passi (vedi i film hollywoodiani degli anni
ruggenti) proprio curiosando dietro le quinte, quando
anonime "girls" uscivano tremanti in
palcoscenico e tornavano in camerino "stelle",
come ha sempre insegnato "Quarantaduesima
Strada". Ma Michael Bennett, il regista che per
primo mise in scena "A CHORUS LINE" non solo ha
intuito un potenziale di attori, ma ha adeguato la grande
trovata del testo di Kirkwood e Dante, ritmato dalle
bellissime musiche di Marvin Hamlish, ai tempi interiori
ed esteriori del teatro moderno. Poche scene, anzi
nessuna, solo uno specchio sullo sfondo, ed un gioco
"elettrico" che cambia continuamente voltaggio
tra finzione e realtà. Se insomma "Quarantaduesima
Strada" raccontava i pettegolezzi dei camerini,
"A CHORUS LINE" ha un modo di esprimersi netto,
preciso, diverso, in cui ogni aspirante ballerino
racconta, già esibendosi, come e perché si trova lì.
Ed ecco quindi brandelli di vita vissuta, ora amari, ora
buffi, ora divertenti, come una seduta psicoanalitica
cantata e ballata. E dopo il verdetto del regista, il
musical si impenna, sogna, e diventa per un attimo
fuggente sfarzoso: il doppio sogno di un musical alla
sera della prima. Lo spettacolo che ha vinto 9 Tony
Awards ed il premio Pulitzer, ha rivoluzionato il
musical, perché davvero, per la prima volta, adopera
sullo stesso piano il testo, la musica, la coreografia ed
il personale carisma degli attori, che diventano subito
amici e nostri complici, portandoci per mano in una
visita guidata tra illusioni e delusioni del teatro
moltiplicati allinfinito dallo specchio. La
simpatia sta nellaffiatamento che nasce sul
palcoscenico, dove i nuovi talenti si fanno le ossa e
magari utilizzano un poco di autobiografia. Perché il
fascino di questo show appartiene alleterno della
domanda sul bisogno della finzione, quando la curva del
teatro incontra, complice un refrain, quello della
poesia.
Articolo di
Maurizio Porro
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