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LE PRINCIPALI DOMANDE RIGUARDANTI LE PATOLOGIE BENIGNE E MALIGNE DELLA MAMMELLA

Dr. Gian Paolo Andreoletti, specialista in Oncologia, Giornalista scientifico, Bergamo

Dr. Emanuele Berbenni, specialista in Chirurgia generale, Bergamo

 

 

Le cisti mammarie, i fibroadenomi e la mastopatia fibrocistica predispongono ai tumori della mammella?

Le cisti mammarie, i fibroadenomi e la mastopatia fibrocistica rappresentano comuni malattie benigne della mammella, normalmente prive di tendenza a degenerare in senso maligno. La presenza in una paziente di tali alterazioni non deve perciò ingenerare ingiustificati allarmismi, ma semplicemente stimolare ad un più frequente controllo medico senologico, al fine di valutare periodicamente le mammelle, che in questi casi risultano di più difficile e complessa valutazione.

 

I fibroadenomi vanno sempre asportati?

I fibroadenomi, come detto, non hanno tendenza a degenerare in senso maligno. Per tale motivo non è necessario asportare sistematicamente tutti i fibroadenomi, in particolare in presenza di fibroadenomi multipli. La tendenza attuale è perciò quella di porre indicazione all’intervento solo in caso di dubbio diagnostico o di fibroadenomi a rapido accrescimento e/o di dimensioni tali (superiori a tre-quattro centimetri) da determinare problemi psicologici o estetici nelle pazienti.

 

In caso di mastite acuta durante l’allattamento, la lattazione va interrotta?

Non è necessario interrompere l’allattamento al seno del neonato in caso di mastite acuta. I batteri secreti con il latte non costituiscono infatti un pericolo per la salute del piccolo e, d’altra parte, la interruzione della lattazione provoca un peggioramento del ristagno di latte, con ulteriore stimolo infiammatorio della mammella. La paziente deve quindi essere incoraggiata a proseguire l’allattamento. Eventualmente, in alternativa, la nutrizione al seno del neonato può continuare con la mammella sana, avendo cura di svuotare manualmente la mammella malata.

 

Il dolore mammario è un sintomo allarmante?

Il dolore alla mammella (mastodinia o mastalgia) è il sintomo mammario di più frequente riscontro nelle donne dalla pubertà alla menopausa. Di regola il dolore alla mammella non è un sintomo preoccupante ed ha per lo più un significato benigno. Specialmente nelle pazienti giovani, il riscontro di un dolore mammario ciclico, unilaterale o bilaterale, che si accentua in prossimità del ciclo mestruale, ma che può persistere in vari gradi per tutto il mese, non deve assolutamente allarmare e non è meritevole di particolari accertamenti diagnostici.. Con più cautela deve invece essere considerato un dolore mammario localizzato, fisso e persistente in una donna in postmenopausa. In una pur piccola percentuale di casi, infatti, il dolore mammario può essere il primo sintomo di un piccolo carcinoma in fase iniziale (e quindi a prognosi comunque buona). Si impone perciò in questi casi l’esecuzione di una mammografia.

 

Quando devono allarmare le secrezioni dal capezzolo?

Le secrezioni mammarie bilaterali, pluriorifiziali (cioè che escono da più sbocchi dei dotti galattofori nei capezzoli), di colore lattescente o giallo-bruno-verdastro sono legate a patologie benigne e non devono preoccupare la paziente. Meritevoli di ulteriori accertamenti (esame citologico, ecografia, mammografia) sono invece le secrezioni ematiche o sieroematiche (le secrezioni cioè "sporche di sangue"), specialmente se monolaterali e monoorifiziali (che cioè escono dallo sbocco di un unico dotto galattoforo in un capezzolo). Pur essendo infatti spesso legate a malattie benigne (come i papillomi intraduttali ), sono a volte associate anche alla presenza di un carcinoma della mammella.

 

Il tumore della mammella è una malattia familiare?

Senza dubbio esiste una predisposizione familiare a sviluppare un carcinoma mammario. Si calcola che i familiari di primo grado delle pazienti affette da neoplasia della mammella abbiano un rischio doppio di sviluppare un tumore mammario rispetto a chi non ha familiari colpiti dalla malattia. Esistono addirittura forme di carcinoma mammario (fortunatamente rare: 5% dei casi) a carattere praticamente ereditario: si tratta in genere di tumori che insorgono in età giovanile e sono spesso bilaterali. Nelle famiglie interessate da questi tumori vengono trasmessi alla discendenza geni alterati (chiamati gene BRCA1 e BRCA2), che determinano un rischio estremamente elevato (80%) di sviluppare nel corso della vita un carcinoma mammario, spesso, come detto, in età giovanile.

Quanto sopra esposto non deve comunque allarmare le donne che presentino casi familiari di neoplasia del seno, ma semplicemente stimolarle a più precoci e frequenti controlli clinici e strumentali, al fine di poter individuare un eventuale tumore mammario in fase precoce e di consentire perciò un trattamento in genere risolutivo della patologia.

 

La pillola anticoncezionale o i trattamenti ormonali per la menopausa possono causare il tumore della mammella?

Il problema del rapporto tra trattamenti ormonali estroprogestinici (pillola anticoncezionale e terapia ormonale sostitutiva in menopausa) è ancora oggi ampiamente dibattuto e non completamente chiarito.

Per quanto riguarda la pillola anticoncezionale, si ritiene che questa possa determinare un aumento globale di circa il 20% del rischio di sviluppare una neoplasia mammaria. Tale incremento di rischio tende ad estinguersi nell’arco di dieci anni dalla sospensione del trattamento contraccettivo: dieci anni dopo il termine dell’assunzione della pillola il rischio di sviluppare un carcinoma mammario torna cioè ad essere lo stesso delle donne che non hanno mai assunto contraccettivi. L’aumentato rischio di carcinoma mammario risulta percentualmente più significativo nelle donne che hanno iniziato ad assumere la pillola più precocemente, in particolare sotto i venti anni., e che hanno utilizzato il contraccettivo per un lungo periodo (sopra i 10 anni).

Passando a considerare brevemente il discorso del rischio cancerogeno mammario connesso con il trattamento ormonale sostitutivo in menopausa, c’è accordo in letteratura sul fatto che un trattamento di durata pari o inferiore ai 5 anni non determina alcun aumento significativo di rischio di sviluppare una neoplasia della mammella. Trattamenti di durata superiore ai 5 anni sono invece associati ad un incremento di rischio dell’ordine del 20-40%. Il trattamento ormonale determina inoltre nel 20-25% dei casi delle modificazioni dell’aspetto mammografico dei seni, che possono rendere meno agevole l’identificazione di carcinomi mammari in fase precoce. E’ perciò utile, nella donna in menopausa in trattamento ormonale sostitutivo, eseguire una mammografia annualmente, in associazione ad una ecografia mammaria.

In ogni caso un pregresso carcinoma è considerato una controindicazione al trattamento con estrogeni (contraccettivi e terapia ormonale sostitutiva in menopausa). Allo stesso modo la familiarità per tumore del seno controindica una terapia con estrogeni: le donne con storia familiare di tumore mammario, trattate con estrogeni, hanno un rischio di carcinoma mammario più che raddoppiato rispetto alle pazienti con storia familiare negativa sottoposte a terapia ormonale.

 

A quale età va iniziato lo screening mammografico per la diagnosi precoce del cancro mammario?

Anche questo è un argomento abbastanza dibattuto, che ancora non trova risposte unanimi a livello internazionale.

Secondo le indicazioni della American Cancer Society, si raccomanda di sottoporre a controllo mammografico almeno ogni due anni tutte le donne asintomatiche al di sopra dei 40 anni di età, fino ai 70 anni di età.

Naturalmente occorre non confondere lo screening delle pazienti asintomatiche, finalizzato a scoprire tumori silenti in fase precoce, con gli accertamenti diagnostici che devono essere intrapresi in una paziente che presenti un nodulo mammario sospetto: il sospetto di un tumore mammario impone l’esecuzione di una mammografia (oltre che di una ecografia e di una eventuale biopsia) anche in una paziente al disotto dei 40 anni di età.

 

Qualora in famiglia esistano casi di tumore mammario, a quali controlli occorre sottoporsi?

Nelle donne con familiarità per carcinoma mammario (presenza di due familiari di primo grado con storia di neoplasia mammaria) i controlli mammografici vanno iniziati a 35 anni e devono avere cadenza annuale. Quando i casi familiari coinvolgano però persone in età giovanile, a causa dell’alto rischio di trovarci di fronte a neoplasie mammarie geneticamente determinate e quindi ereditarie, i controlli mammografici annuali devono essere iniziati a 25 anni di età e comunque cinque anni prima dell’età in cui il cancro della mammella è stato diagnosticato nel familiare.

 

Nella diagnosi della malattie mammarie è più utile la mammografia o la ecografia?

La mammografia e l’ecografia mammaria vanno considerate, nella donna sintomatica (cioè con una tumefazione mammaria) due indagini diagnostiche non alternative ma complementari. Di fronte ad un nodulo sospetto, qualunque sia l’età della paziente, solo la combinazione delle informazioni derivanti dai due esami consente al medico di formulare una diagnosi corretta.

Occorre però dire che, nella donna giovane, data la rarità del tumore mammario a questa età, di fronte ad un nodulo che non presenti, alla visita del medico, caratteri di sospetto per una neoplasia maligna, ci si può limitare all’esecuzione della sola ecografia.

L’ecografia non è in ogni caso idonea come esame di screening nella donna asintomatica: non è cioè corretto sostituire il controllo biennale mammografico dopo i 40 anni con un controllo ecografico.

 

E' importante la autopalpazione del seno per la diagnosi precoce del tumore mammario?

La autopalpazione mensile del seno è sicuramente una pratica da incoraggiare, in quanto consente il rilievo spesso precoce di lesioni mammarie in fase ancora iniziale.

La autopalpazione del seno non sostituisce in ogni caso, naturalmente, la periodica visita senologica da partedel medico curante ed il follow-up mammografico.

 

Le radiazioni della mammografia espongono le pazienti al rischio di tumori della mammella?

Con le attuali attrezzature e tecniche mammografiche, la dose di radiazioni assorbita da ciascuna mammella durante un esame mammografico è molto modesta. Gli studi effettuati sul possibile rischio cancerogeno connesso con la mammografia eseguita periodicamente sono del tutto tranquillizzanti: la dose cumulativa di radiazioni connessa con lo screening mammografico periodico non aumenta in modo significativo l’incidenza di tumore mammario nelle pazienti.

 

Quando la mammella va asportata completamente, in caso di neoplasia mammaria?

L’asportazione di tutta la ghiandola mammaria, con la porzione di cute sovrastante, comprendente l’areola ed il capezzolo (mastectomia totale) viene eseguita quando i carcinomi mammari superano le dimensioni di tre centimetri oppure quando tumori anche più piccoli interessano direttamente la cute o la parete toracica.

 

Cosa è la quadrantectomia e quando si effettua?

La quadrantectomia consiste nell’asportazione del quarto di mammella (quadrante) interessato dalla neoplasia. Viene riservata ai casi di neoplasia mammaria di piccole dimensioni (diametro fino a 3 centimetri).

Questa tecnica chirurgica, definita "conservativa", in quanto destinata a preservare il più possibile l’identità anatomica della paziente ed a limitare di conseguenza l’impatto psicologico legato all’asportazione del seno, fu messa a punto dal professor Umberto Veronesi all’Istituto dei Tumori di Milano negli anni Settanta.

Il risultato cosmetico, nella maggior parte dei casi, è eccellente; gli studi a lungo termine hanno inoltre dimostrato che le percentuali di guarigione, nei casi di tumori di piccole dimensioni, sono sovrapponibili nelle donne trattate con mastectomia totale e in quelle curate con quadrantectomia.

 

La chirurgia mammaria per neoplasia si associa sempre alla asportazione dei linfonodi ascellari?

La asportazione di tutti i linfonodi ascellari (linfoadenectomia ascellare totale) viene quasi sempre associata agli interventi chirurgici per carcinoma della mammella, sia che si asporti tutto il seno (mastectomia totale), sia che ci si limiti all’asportazione di un solo settore di mammella (quadrantectomia). Ciò perché i linfonodi ascellari rappresentano in genere la prima sede di eventuali metastasi del carcinoma mammario.

Solo recentemente sta prendendo piede una nuova tecnica, detta del linfonodo sentinella, che prevede l’asportazione solo del primo linfonodo della catena linfatica ascellare; qualora esso risulti, all'esame istologico, non interessato dalla patologia neoplastica, si può evitare la linfoadenectomia totale. Si tratta di una procedura recentemente validata scientificamente, che si può applicare per tumori piccoli e con linfonodi ascellari non apprezzabili clinicamente; naturalmente è necessaria la presenza, nella struttura di afferimento, di un reparto di Medicina Nucleare, di Anatomia Patologica, di Radioterapia, di Oncologia e di una equipe di Senologi Chirurghi dedicati.

 

E’ normale presentare gonfiore, difetti di sensibilità e formicolii all’arto superiore, dal lato della mammella operata?

L’intervento chirurgico di asportazione della mammella, totale (mastectomia) o parziale (quadrantectomia), è sempre associato, come detto, alla asportazione dei linfonodi ascellari (linfoadenectomia). Ciò comporta un danno inevitabile al circolo linfatico ed alle strutture nervose che passano attraverso l’ascella. E’ perciò normale che, dopo un intervento chirurgico per carcinoma mammario, la paziente lamenti, dallo stesso lato, gonfiore dell’arto, formicolii e difetti di sensibilità. La mobilizzazione precoce dell'arto, attuata già, seppur in modo blando, dal primo giorno dopo l'intervento, e quindi proseguita in maniera regolare e via via più intensa successivamente (figura A e figura B), è senza dubbio la terapia migliore per attenuare l'entità di questi disturbi.

La sequela post-chirurgica più importante è senza dubbio rappresentata dal gonfiore dell’arto superiore. L’asportazione dei linfonodi ascellari comporta la stagnazione del liquido linfatico a livello dei tessuti del braccio, dell’avambraccio e della mano: l’aumento di volume conseguente dell’arto viene chiamato linfedema. Il trattamento del linfedema prevede, oltre, come detto, alla ginnastica precoce, la terapia dietetica ipocalorica nelle donne obese e il linfodrenaggio.

Una tecnica piacevole ed efficace per la terapia del linfedema è rappresentata dal linfodrenaggio manuale, che deve essere attuato in modo sapiente e professionale da un terapista della riabilitazione esperto in questo tipo di trattamento. Il linfodrenaggio manuale, che richiede sedute della durata di circa un’ora (cicli di una seduta al giorno per cinque giorni alla settimana, per due settimane), consiste in manovre compressive e drenanti manuali, che consentono il riassorbimento di liquidi in eccedenza dai tessuti verso la rete dei capillari linfatici.

La paziente con linfedema deve evitare di sollevare pesi con l’arto interessato dal gonfiore. Deve inoltre evitare di eseguire iniezioni, prelievi ematici, misurazioni della pressione arteriosa dalla parte malata.

 

Qualora la paziente curata per carcinoma mammario decida di ricostruire la mammella con l’inserimento di una protesi al silicone, questo intervento quando va eseguito?

E’ ormai tendenza generalizzata quella di ricorrere, se possibile, alla ricostruzione immediata della mammella, cioè alla ricostruzione durante lo stesso intervento di mastectomia. Ciò consente due grossi vantaggi: riduce innanzitutto la sensazione inevitabile di mutilazione derivante dalla asportazione del seno, ed evita inoltre la necessità di doversi sottoporre ad un nuovo intervento chirurgico. Quando la ricostruzione immediata non sia possibile per problemi tecnici o logistici, si può comunque ricorrere ala ricostruzione ritardata, cioè eseguita successivamente alla mastectomia.

 

Esistono dei rischi legati alle protesi al silicone?

Le protesi utilizzate per ricostruire la mammella asportata chirurgicamente sono fatte di silicone, materiale ritenuto come il più "inerte" nei confronti dei tessuti organici.

Le protesi al silicone non hanno dimostrato capacità di indurre la formazione di tumori della mammella. Gli studi fino ad ora condotti non hanno inoltre evidenziato un nesso tra protesi al silicone e malattie cosiddette autoimmuni (sclerodermia, artrite reumatoide).

La complicanza locale più frequente legata alla presenza di protesi al silicone è rappresentata da una reazione fibrosa, che rende la mammella ricostruita più dura e, in rari casi, deformata.

Quando la protesi si rompe, è necessario sostituirla chirurgicamente, per impedire che il gel di silicone., non più contenuto da un involucro, si diffonda nei tessuti determinando la formazione di granulomi.

 

Dopo l’intervento alla mammella, quando ci si deve sottoporre alla chemioterapia?

La chemioterapia precauzionale, dopo un intervento chirurgico alla mammella per carcinoma, viene eseguita nelle pazienti che, all’esame istologico dopo l’operazione, presentino i linfonodi ascellari già intaccati dalla neoplasia, pur non manifestando metastasi in altri organi. Oggi sta tuttavia sempre prendendo più piede la tendenza a sottoporre alla chemioterapia anche le pazienti che, pur presentando negatività tumorale dei linfonodi ascellari, siano affette da carcinomi con caratteristiche di malignità più accentuate.

Tale chemioterapia post-intervento, come detto, ha un significato precauzionale: è cioè finalizzata ad eliminare eventuali cellule tumorali residue ed a prevenire quindi il rischio di metastasi.

 

Quando va iniziata e quanto dura la chemioterapia?

La chemioterapia va iniziata molto presto, entro 2-3 settimane dall’intervento chirurgico. A seconda del tipo di trattamento chemioterapico prescelto dall’oncologo, il trattamento chemioterapico prevede sei cicli di terapia con cadenza mensile (per un totale di sei mesi di cura) o quattro cicli di terapia con cadenza mensile (per un totale di quattro mesi di cura).

 

Quali sono gli effetti collaterali più comuni della chemioterapia?

Gli effetti collaterali più comuni del trattamento chemioterapico sono rappresentati dalla nausea e dal vomito (che peraltro i nuovi farmaci antivomito riescono a prevenire o a controllare nella gran parte dei casi), dalla diminuzione dei globuli bianchi e delle piastrine (in genere di modesta entità), dal blocco delle mestruazioni (amenorrea) e dalla perdita temporanea dei capelli. Alcuni tipi di chemioterapia possono anche determinare, seppur raramente, un danno cardiaco, per cui sono controindicati nelle pazienti cardiopatiche.

 

La perdita dei capelli è definitiva dopo la chemioterapia?

Come detto, la perdita dei capelli (alopecia) dovuta al trattamento chemioterapico è temporanea. La perdita dei capelli è infatti reversibile nella totalità dei casi dopo la sospensione della terapia. Va ricordato che alla caduta dei capelli può essere associata quella dei peli pubici e ascellari e delle sopracciglia.

E’ possibile, in parte, ovviare all’alopecia da chemioterapici applicando, per circa trenta minuti prima e dopo la somministrazione endovenosa, un casco di plastica contenente del ghiaccio.

 

Dopo la chemioterapia si va in menopausa?

Il trattamento chemioterapico del carcinoma mammario è frequentemente associato al blocco delle mestruazioni (amenorrea). Nelle donne più giovani (età inferiore ai 40 anni) questo blocco delle mestruazioni è nell’80% dei casi reversibile, per cui le pazienti, pur essendo a rischio di sviluppare una menopausa precoce, dopo alcuni mesi tornano ad avere dei cicli mestruali abbastanza regolari . Nel 95% delle donne con età superiore ai 40 anni il blocco delle mestruazione è invece irreversibile, per cui le pazienti vanno in menopausa.

 

Le donne sottoposte a chemioterapia possono ancora avere gravidanze?

Come detto, nelle pazienti giovani sottoposte a chemioterapia per carcinoma mammario il blocco delle mestruazioni (amenorrea) è reversibile, per cui le donne tornano dopo alcuni mesi ad avere mestruazioni regolari, potendo quindi concepire un figlio.

Attualmente si consiglia di attendere un periodo di cinque anni dalla fine del trattamento prima di intraprendere una gravidanza. Questo in considerazione del fatto che nei primi anni dopo la terapia le ricadute della malattia sono più frequenti.

Dagli studi fino ad oggi condotti sembra di poter concludere che i bambini nati da pazienti trattate con chirurgia, chemioterapia e radioterapia per carcinoma mammario non presentano incidenza di malformazioni superiore rispetto alla popolazione generale.

 

Come ci si deve comportare, qualora un carcinoma mammario venga diagnosticato in gravidanza?

Qualora una mammografia debba essere necessariamente eseguita in gravidanza, occorre minimizzare il più possibile, con opportune schermature, la dose di radiazioni trasmessa al feto.

Nel caso in cui si debba sottoporre la gestante a biopsia in anestesia locale o ad intervento chirurgico in anestesia generale, queste procedure possono essere eseguite in qualsiasi momento della gravidanza, senza particolari rischi per il feto. Il ricorso alla chemioterapia e alla radioterapia deve invece essere evitato durante tutto il periodo della gravidanza, per il pericolo di danni fetali.

 

Dopo l’intervento alla mammella, quando occorre sottoporsi anche alla radioterapia?

La radioterapia viene eseguita di regola dopo gli interventi chirurgici alla mammella cosiddetti conservativi, cioè gli interventi nei quali non si asporta l’intera mammella, ma solo il quarto della stessa interessato dal tumore (quadrantectomia). Il significato del trattamento radioterapico, in questi casi, è quello di eliminare eventuali cellule tumorali non asportate dal trattamento chirurgico e rimaste perciò in sede.

Dopo gli interventi di asportazione totale della mammella non viene invece di norma eseguita la radioterapia.

 

Quando va iniziata la radioterapia e quanto dura?

La radioterapia sulla porzione di mammella residua, dopo intervento chirurgico conservativo (quadrantectomia), viene di solito iniziata 4-5 settimane dopo l’intervento. Un intervallo anche più lungo, giustificato a volte da lunghe liste d’attesa, non sembra tuttavia compromettere i risultati in termini di guarigione. Nelle pazienti che devono eseguire pure la chemioterapia, i due trattamenti (chemioterapico e radioterapico) possono essere eseguiti anche contemporaneamente, senza che questo comporti effetti tossici particolari.

La radioterapia prevede in genere 5 sedute alla settimana per un totale di 5-6 settimane di trattamento.

Sono in corso studi clinici finalizzati a valutare l'efficacia di una radioterapia intraoperatoria, eseguita cioè direttamente nel corso dell'atto chirurgico, anzichè successivamente ad esso. Si tratta tuttavia di una metodica sperimentale e non ancora applicabile su larga scala.

 

Quali problemi può determinare la radioterapia?

La radioterapia della mammella residua, dopo un intervento chirurgico conservativo, determina in genere gonfiore ed arrossamento della parte irradiata. Si tratta di effetti collaterali transitori, che si risolvono nell’arco di qualche settimana con l’aiuto di pomate cortisoniche.

La mammella irradiata, in caso di gravidanza, nel periodo dell’allattamento tende a non gonfiarsi ed a produrre quantità limitate di latte.

 

Dopo l’intervento chirurgico, la chemioterapia e la radioterapia, quando occorre fare la terapia ormonale?

La terapia ormonale viene in genere eseguita in tutte le donne che presentino tumori che, alle indagini istologiche, risultino sensibili agli estrogeni. Vengono esonerate dalla terapia ormonale le pazienti con tumori non sensibili agli estrogeni e le pazienti con tumori a bassissimo rischio di metastasi (cioè con tumori di diametro inferiore ad un centimetro, formati da cellule a bassa malignità e che non hanno intaccato i linfonodi ascellari).

 

In che cosa consiste la terapia ormonale?

La terapia ormonale consiste generalmente nell’assunzione per via orale di una compressa giornaliera da 20 milligrammi di tamoxifene. Tale sostanza è dotata di effetto antiestrogenico a livello delle cellule mammarie, per cui è in grado di bloccare la proliferazione di eventuali cellule neoplastiche rimaste nell’organismo della paziente dopo il trattamento chirurgico, chemioterapico e radiante.

 

Quali sono gli effetti collaterali della terapia con tamoxifene?

I più comuni effetti collaterali della terapia con tamoxifene sono rappresentati dai sintomi menopausali, più intensi durante i primi mesi di trattamento. Vampate di calore, sudorazioni notturne, alterazioni o interruzioni mestruali, perdite vaginali, secchezza e prurito vaginale, riduzione del desiderio sessuale e dolore durante i rapporti sono comuni durante la terapia con tamoxifene.

Poiché, seppur raramente, la terapia con tamoxifene può provocare la formazione di tumori uterini, si consiglia di eseguire annualmente una ecografia transvaginale.

 

Per quanto tempo va continuata la terapia con tamoxifene?

La terapia per via orale con le compresse di tamoxifene, che viene iniziata dopo qualche giorno dall’intervento chirurgico, deve essere continuata per cinque anni. Non esistono dimostrazioni che trattamenti più prolungati aumentino l’efficacia preventiva della terapia.

 

A quali controlli occorre sottoporsi dopo il trattamento per una neoplasia mammaria?

Le pazienti sottoposte ad intervento chirurgico e trattamento radio/chemio/ormonoterapico per carcinoma della mammella devono sottoporsi, per il resto della loro vita, ogni sei mesi ad un esame senologico ed ogni anno ad una mammografia, al fine di evidenziare il più precocemente possibile eventuali ricadute locali della malattia o la comparsa di neoplasie alla mammella controlaterale. Sull’utilità di aggiungere a questi controlli periodici la ricerca nel sangue di alcune sostanze (markers) tumorali, come il CEA o il CA15.3, oppure la radiografia del torace, la scintigrafia ossea o l’ecografia epatica, non esiste ancora accordo nella comunità scientifica.

 

In caso di ricadute locali (cioè alla mammella residua in caso di quadrantectomia, alla parete toracica o alla ascella) della malattia neoplastica, cosa occorre fare?

In caso di ricaduta tumorale locale a livello della ascella o della porzione di mammella residuata all’intervento conservativo di quadrantectomia si ricorre in genere ad un nuovo intervento chirurgico di asportazione della massa tumorale, insieme con la porzione di mammella rimasta. Negli altri casi (ad esempio ricadute in corrispondenza della parete toracica ) si utilizza invece generalmente la radioterapia.

 

In caso di metastasi tumorali, a quali terapie occorre sottoporsi?

La presenza di metastasi tumorali controindica in genere l’esecuzione di trattamenti chirurgici o radioterapici. Si ricorre in genere alla chemioterapia (sono oggi disponibili nuove combinazioni di farmaci molto efficaci) e/o alla ormonoterapia (trattamento con tamoxifene in prima battuta, quindi con altre sostanze se il tamoxifene non risulta efficace).

 

Nelle donne in età molto avanzata, quale è il trattamento corretto per un tumore mammario?

Poiché il tumore mammario nella paziente anziana è una neoplasia ad andamento spesso molto lento, per cui la morte in molti casi sopravviene per cause indipendenti dalla malattia tumorale, nelle pazienti oltre gli 80 anni di età, in particolare se in precarie condizioni generali, si può decidere di limitare la terapia antineoplastica al semplice trattamento chirurgico (più o meno esteso a seconda dei casi e delle situazioni: quando vi siano controindicazioni alla anestesia generale si pratica la semplice escissione del tumore in anestesia locale, evitando la asportazione dei linfonodi ascellari), seguito da una terapia per 5 anni con una compressa giornaliera di tamoxifene. Si preferisce spesso non ricorrere alla radioterapia ed alla chemioterapia, per evitare gli effetti collaterali e i disagi invariabilmente connessi con questi trattamenti.

 

Il tumore della mammella è possibile anche nel sesso maschile?

Anche il maschio può presentare, seppur raramente, un carcinoma della mammella, che origina dagli abbozzi ghiandolari mammari. Le neoplasie mammarie maschili rappresentano l’1% delle neoplasie mammarie totali; i carcinomi della mammella costituiscono inoltre l’1% dei tumori che si riscontrano nel sesso maschile.

La diagnosi di carcinoma mammario viene effettuata anche nel maschio attraverso la mammografia, la ecografia e, quando necessario, l’agoaspitrato o la biopsia chirurgica

 

Quale è la terapia del tumore della mammella nel sesso maschile?

La terapia del carcinoma mammario maschile non si discosta da quella praticata in caso di neoplasia mammaria femminile. Il trattamento prevede l’asportazione totale della ghiandola mammaria, con la cute soprastante ed il complesso areola-capezzolo (mastectomia totale), e di tutti i linfonodi ascellari. Seguono la chemioterapia (in caso di presenza di cellule tumorali ai linfonodi dell’ascella), la radioterapia sulla parete toracica (nei casi localmente avanzati) e la terapia ormonale con compresse di tamoxifene (da assumere per cinque anni se il tumore risulta sensibile al trattamento ormonale).

 

E’ possibile controllare il dolore nella malattia tumorale in fase avanzata?

La presenza di metastasi, in particolare a livello osseo, può determinare una sintomatologia dolorosa importante. L’utilizzo della morfina è però in grado di controllare efficacemente anche dolori altrimenti intrattabili.

La morfina viene somministrata preferibilmente per bocca; solo in caso di problemi alla deglutizione vengono usate la via intramuscolare o sottocutanea. La morfina è generalmente ben tollerata: gli effetti collaterali più frequenti, soprattutto nei primi giorni di trattamento, sono rappresentati dalla stitichezza e dal vomito, che possono essere però prevenuti con opportuni interventi terapeutici.

L’utilizzo della morfina non mette a rischio di depressione respiratoria o di dipendenza da oppioidi.

 

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