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COMPLICANZE POST CHEMIOTERAPIA NELLE PAZIENTI TRATTATE PER CARCINOMA MAMMARIO

Dr. Gian Paolo Andreoletti, specialista in Oncologia, Giornalista scientifico, Bergamo

 

 

Le pazienti con diagnosi di carcinoma mammario vivono molto spesso (per lo più in modo angoscioso e traumatico) l’esperienza della chemioterapia. Fanno eccezione generalmente le donne affette da tumori biologicamente poco aggressivi e non diffusi alle stazioni linfonodali ascellari, per le quali il solo trattamento chirurgico conservativo, associato a radioterapia locale, viene considerato risolutivo. Il trattamento chemioterapico può precedere a fini citoriduttivi, in caso di neoplasie di grosse dimensioni e/o infiltranti la cute o la parete toracica, l’intervento chirurgico (chemioterapia primaria o neoadiuvante); più frequentemente la chemioterapia segue la terapia chirurgica, per consentire, in pazienti trattate chirurgicamente in modo apparentemente radicale ma con interessamento neoplastico linfonodale, la sterilizzazione di eventuali micrometastasi non evidenziabili clinicamente (chemioterapia adiuvante). L’uso dei farmaci chemioterapici è da ultimo previsto in genere nei casi di neoplasie metastatiche, non suscettibili di trattamento chirurgico o radioterapico.

 

FARMACI UTILIZZATI NELLA CHEMIOTERAPIA DEL CARCINOMA

MAMMARIO

Nella chemioterapia primaria e nella chemioterapia adiuvante del carcinoma mammario gli schemi terapeutici più utilizzati sono rappresentati dal CMF (associazione di ciclofosfamide, metotrexate e fluorouracile), dal FAC (fluorouracile, doxorubicina e ciclofosfamide), dal FEC (fluorouracile, epirubicina e ciclofosfamide) e dall’AC (doxorubicina e ciclofosfamide). Il CMF, il FAC ed il FEC vengono in genere somministrati in sei cicli (sei mesi di terapia), l’AC in quattro cicli (quattro mesi di terapia).

Nel trattamento della malattia metastatica, accanto agli schemi terapeutici precedenti, hanno fatto la comparsa negli ultimi anni nuovi farmaci: tra questi i più importanti sono la vinorelbina, un alcaloide della vinca di terza generazione, e i taxani (paclitaxel e docetaxel). I taxani vengono spesso utilizzati in combinazione con le antracicline (doxorubicina-paclitaxel o doxorubicina- docetaxel), con remissioni complete (pur se temporanee) che raggiungono anche, in alcuni studi, il 41 per cento.

 

EFFETTI COLLATERALI ACUTI

 

Una non corretta iniezione endovenosa (stravaso venoso) può determinare localmente una necrosi tissutale a lunga risoluzione, specialmente se si utilizzano farmaci ad elevato potere irritante come le antracicline (doxorubicina, epirubicina) o gli alcaloidi della vinca (vinorelbina). In caso di stravaso di farmaco può essere utile, per ridurre la necrosi locale, iniettare idrocortisone (100-300 milligrammi) o desametazone (4-12 milligrammi) intraderma o sottocute e coprire l’area con una pomata a base di steroidi. Per evitare la possibilità di gravi danni locali va assolutamente evitata l’iniezione di chemioterapici antineoplastici nel braccio omolaterale nelle pazienti sottoposte a intervento chirurgico mammario con linfoadenectomia ascellare.

 

Reazioni da ipersensibilità anche gravi, fino allo shock anafilattico, possono verificarsi soprattutto con l’utilizzo del taxolo. Per tale motivo si raccomanda, in caso di utilizzo di questo farmaco, una premedicazione con steroidi e/o antiistaminici.

 

La nausea ed il vomito rappresentano notoriamente gli effetti collaterali acuti più frequenti della chemioterapia antineoplastica. L’entità del problema varia in rapporto al potenziale emetogeno dei farmaci utilizzati: tale potenziale è elevato nel caso della ciclofosfamide, alto ma meno grave per le antracicline, moderato per gli altri citostatici utilizzati nella terapia del cancro mammario. L’impiego degli antagonisti serotoninergici specifici per i recettori encefalici del centro del vomito (ondansetron o granisetron), eventualmente in associazione con desametazone, è tuttavia in grado di prevenire o controllare la nausea e il vomito in oltre l’80% delle pazienti, anche nel caso di utilizzo di farmaci fortemente emetogeni.

 

EFFETTI COLLATERALI RITARDATI

 

La mielodepressione, principalmente caratterizzata da leucopenia e piastrinopenia, più raramente anche da anemia, tende a presentarsi tra l’8° ed il 12° giorno e si risolve abitualmente tra il 20° ed il 28° giorno. L’incidenza di leucocitopenia (leucociti al di sotto dei 2500/millimetro cubo) e piastrinopenia (piastrine al di sotto di 75000/millimetro cubo) è comunque inferiore al 10% sia con lo schema CMF che con lo schema FAC. Nei casi in cui la conta dei neutrofili scenda al di sotto di 800-1000/ millimetro cubo può essere indicata per alcuni giorni la somministrazione di fattori di crescita granulocitari.

 

L’alopecia è comune a tutte le combinazioni chemioterapiche, ma è più intensa negli schemi contenenti le antracicline, che determinano quasi invariabilmente una perdita di capelli tale da richiedere l’uso di una parrucca. Alla perdita dei capelli può essere associata quella dei peli pubici ed ascellari e delle sopracciglia. E’ possibile in parte ovviare all’alopecia da chemioterapici applicando per circa trenta minuti prima e dopo la somministrazione endovenosa un casco di plastica contenente del ghiaccio. E’ in ogni caso importantissimo, in considerazione dell’effetto a volte devastante dell’alopecia da farmaci antineoplastici sulla psiche della paziente, che il medico avvisi la donna che la perdita dei capelli è reversibile nella totalità dei casi dopo la sospensione della terapia.

 

 

EFETTI COLLATERALI CRONICI

 

Il danno cardiaco, pur se raro, rappresenta sicuramente, insieme con la potenziale induzione di secondi tumori, l’effetto collaterale più grave (talora ad esito fatale) della chemioterapia del cancro mammario.

Un elevato potere cardiotossico è caratteristica abbastanza distintiva delle antracicline (doxorubicina in particolare; minore è la tossicità miocardica della epirubicina); un certo grado di cardiotossicità è comunque descritto anche per la ciclofosfamide (disfunzione sistolica, versamento pericardico, miocardite emorragica), per il 5-fluorouracile (angina, infarto miocardico per danno coronarico) e per il paclitaxel (aritmie cardiache, specie bradicardia). Uno scompenso cardiaco clinicamente significativo si verifica nell’1-7% delle pazienti trattate con schemi terapeutici che prevedano l’utilizzo di antracicline.

La patogenesi della cardiotossicità indotta dalle antracicline non è completamente nota. Le teorie esistenti propendono per un danno da radicali liberi dei lipidi microsomiali, mitocondriali e delle membrane cellulari.

L’insufficienza cardiaca congestizia è correlata sicuramente con la dose cumulativa di antracicline somministrata. Tradizionalmente la dose limite cardiaca della doxorubicina è stata valutata pari a 550 mg/metro quadrato; esiste tuttavia un’ampia variabilità individuale, per cui esistono casi riportati in letteratura di insufficienza cardiaca a dosi inferiori a 100 mg/metro quadrato e, viceversa, casi di pazienti che tollerano dosi superiori a 1000 milligrammi/metro quadrato senza danno cardiaco. La dose limite delle antracicline va ovviamente considerata più bassa (nel caso della doxorubicina diventa di 350 mg/metro quadrato) quando si preveda di sottoporre la paziente con cancro mammario anche ad un trattamento radioterapico del torace, soprattutto nel caso di carcinoma della mammella sinistra..

I fattori di rischio per la miocardiopatia provocata da antracicline sono, oltre ad una precedente o successiva irradiazione toracica, un’età superiore ai 70 anni ed una malattia cardiaca preesistente. Schemi di infusione rapida delle antracicline aumentano il rischio di cardiotossicità, a causa dei picchi elevati di concentrazione del farmaco; viceversa si è notata una tossicità clinica più bassa (ma c’è il dubbio di una minore efficacia antineoplastica) con una infusione prolungata di doxorubicina (da 48 a 96 ore).

Le antracicline possono essere causa di problemi cardiaci durante il trattamento, alcune settimane dopo il completamento della terapia o, talora, molti mesi o addirittura anni dopo la terapia. Durante il trattamento con antracicline si verificano in circa il 30% dei pazienti delle variazioni elettrocardiografiche (alterazioni del tratto ST, riduzioni del voltaggio del QRS, allungamento dell’intervallo QT, extrasistoli atriali e ventricolari), che di solito scompaiono nell’arco di alcune settimane. La comparsa di queste anomalie elettrocardiografiche precoci non è predittiva di miocardiopatia e non costituisce una indicazione alla sospensione della terapia. Il tempo medio di sviluppo clinico di sintomi da scompenso cardiaco è di alcuni mesi dopo la fine della terapia, anche se, come detto, il danno cardiaco si può manifestare anche dopo molti anni. La presentazione clinica del paziente con danno miocardico da antracicline è simile a quella che si riscontra nelle altre miocardiopatie dilatataive. Un segno di allarme importante per il medico di medicina generale può essere rappresentato dallo sviluppo di una tachicardia sinusale persistente in una paziente oncologica altrimenti stabile: tale reperto clinico può fare insorgere il sospetto di una incipiente disfunzione ventricolare e di una insufficienza cardiaca congestizia imminente.

Nella miocardiopatia da antracicline si osserva una disfunzione sistolica biventricolare, evidenziabile ecocardiograficamente. Il parametro di cardiotossicità di uso più comune, anche se poco sensibile nel rilevare il danno miocardico in fase iniziale, è rappresentato dalla frazione di eiezione ventricolare valutata attraverso l’ecodoppler cardiaco. Durante la terapia con antracicline, una riduzione della frazione di eiezione maggiore del 10% e, comunque, una frazione di eiezione inferiore al valore di 50% sono indicazioni alla sospensione del trattamento. Una frazione di eiezione basale inferiore al 30% viene considerata un dato clinico che controindica in maniera assoluta un trattamento chemioterapico con antracicline.

Di minore importanza pratica da un punto di vista diagnostico, in considerazione della sua invasività, è la biopsia endomiocardica, in grado di rilevare danni citoplasmatici e lesioni delle membrane dei miociti già in fasi precoci.

Recentemente alcuni ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano hanno evidenziato che aumenti nel siero della Troponina I sono in grado di rivelare alterazioni cardiache correlabili al trattamento chemioterapico in fase ancora preclinica.

Il decorso clinico della miocardiopatia da antracicline varia dallo scompenso cardiaco fulminante, che si manifesta da poche ore a qualche giorno dopo la somministrazione del farmaco, alla insufficienza cardiaca progressiva e a lenta evoluzione.

La terapia prevede la sospensione di farmaci o sostanze cardiotossiche e l’utilizzo dei farmaci (inotropi, diuretici, vasodilatatori, ACE inibitori; soprattutto questi ultimi sembrano essere utili nelle fasi precoci) utilizzati nelle altre forme di scompenso cardiaco. In caso di sviluppo di insufficienza cardiaca, la mortalità per causa cardiaca è del 30-50%.

 

Il trattamento chemioterapico del carcinoma mammario, compreso quello adiuvante, è frequentemente associato con una amenorrea, che può essere temporanea o permanente, risulatante dalla tossicità diretta dei farmaci sulla funzione ovarica. L’incidenza della amenorrea chemio-indotta dipende dal tipo di trattamento utilizzato (rischio maggiore con CMF piuttosto che con schemi contenenti antracicline) e dall’età della paziente. Le donne più giovani sono a minor rischio di sviluppo di amenorrea e, qualora la sviluppino, questa è spesso (80% dei casi) reversibile; nelle donne con età superiore ai 40 anni l’amenorrea è invece comune e nel 95% dei casi irreversibile. Le donne che continuano a mestruare dopo la chemioterapia sono comunque a rischio di menopausa precoce. L’amenorrea indotta da chemioterapici è caratterizzata, da un punto di vista ormonale, da una diminuzione del livello di estrogeni e progesterone circolanti e da elevati livelli di FSH e LH.; tali variazioni sono simili a quelle che si riscontrano nella menopausa fisiologica e determinano gli stessi effetti clinici. I sintomi menopausali tendono però ad essere più accentuati nella menopausa chemio-indotta piuttosto che in quella naturale, a causa del più brusco abbassamento del livello ematico di estrogeni.

 

L’uso prolungato di vinorelbina e taxolo, farmaci antineoplastici utilizzati soprattutto nella malattia in fase metastatica, è associato ad una tossicità neurologica. Sono possibili neuropatie periferiche, di tipo sia sensitivo che motorio, con un quadro clinico caratterizzato da dolori, parestesie, debolezza muscolare. E’ descritto anche un potenziale coinvolgimento del sistema nervoso autonomo, con ileo paralitico e dolori addominali.

 

La chemioterapia per carcinoma mammario può, seppur raramente, provocare l’insorgenza di leucemie o sindromi mielodisplastiche. Il rischio è molto basso (stimato tra lo 0,2 e l’1%) dopo un trattamento standard con ciclofosfamide, metotrexate e fluorouracile o con combinazioni comprendenti le antracicline. Le leucemie provocate da agenti alchilanti come la ciclofosfamide possono insorgere abitualmente tra i cinque e i sette anni dopo il completamento della terapia e sono in genere precedute da sindromi mielodisplastiche.. Gli inibitori delle topoisomerasi, come le antracicline, possono dare luogo all’insorgenza di leucemie secondarie da sei mesi a cinque anni dopo la terapia. Da monitorizzare attentamente nel tempo, perché a rischio maggiore di sviluppare leucemie secondarie, sono le donne che, ai controlli dell’emocromo, sviluppano citopenie persistenti dopo il trattamento con antineoplastici.

 

 

CONCLUSIONI

La chemioterapia del cancro mammario è invariabilmente associata ad effetti collaterali, taluni comuni a tutti i farmaci, altri variabili a seconda dello schema terapeutico utilizzato. In genere queste complicanze sono di gravità limitata e possono essere gestite dal medico di medicina generale con relativa facilità. Due sole condizioni possono costituire un grave pericolo per la vita della paziente e richiedono una particolare attenzione: il possibile sviluppo di una cardiopatia ed il rischio potenziale di insorgenza di seconde neoplasie chemio-indotte.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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