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LA TERAPIA DEL TUMORE DELLA MAMMELLA

Dr. Gian Paolo Andreoletti, specialista in Oncologia, Giornalista scientifico, Bergamo

 

Secondo vari studi epidemiologici il tumore della mammella rappresenta, nei paesi occidentali, la neoplasia più frequente della donna. Nell’Europa occidentale circa una donna su dieci manifesta clinicamente nel corso della propria vita un tumore mammario. Il carcinoma della mammella rappresenta inoltre la prima causa di morte per tumore nel sesso femminile; nelle donne di età compresa tra i 35 e i 55 anni esso costituisce addirittura la causa di morte più importante in assoluto, mentre in quelle con età superiore a 55 anni è la seconda causa dopo le malattie cardiovascolari.

Questi brevi dati epidemiologici bastano da soli a comprendere l’importanza, per il medico di Medicina Generale, di una conoscenza sufficientemente approfondita delle problematiche inerenti le neoplasie della mammella.

Si cercherà in questo articolo di focalizzare l’attenzione, in modo schematico ed essenziale, sugli aspetti terapeutici (chirurgia, chemioterapia, radioterapia, ormonoterapia) del carcinoma mammario.

 

Terapia dei tumori invasivi con diametro inferiore o uguale ai 3 centimetri

I carcinomi mammari invasivi si distinguono dai carcinomi non invasivi o carcinomi in-situ in quanto le cellule tumorali, all'esame istologico, non superano la membrana basale.

I carcinomi mammari in situ (carcinoma lobulare in situ e carcinoma duttale in situ) vengono considerati patologie ancora localizzate, per cui la terapia è in genere conservativa (tranne nelle forme multifocali) e non prevede di norma l'esecuzione della linfoadenectomia; la radioterapia inoltre è effettuata solo nei pazienti con carcinoma duttale (e non lobulare) in situ trattati con chirurgia conservativa.

 

I tumori mammari invasivi di piccole dimensioni (diametro fino a 3 centimetri) rappresentano attualmente la quota maggiore di neoplasie della mammella che si presentano all’attenzione clinica. Essi vengono trattati chirurgicamente con tecnica conservativa, ricorrendo alla quadrantectomia, procedura chirurgica messa a punto da Veronesi all’Istituto dei Tumori di Milano negli anni settanta. Il risultato cosmetico nella gran parte dei casi è eccellente; i risultati a lungo termine di vari studi randomizzati non dimostrano peraltro differenze statisticamente rilevanti nella percentuale di ricadute locali o a distanza e nella sopravvivenza globale tra quadrantectomia e mastectomia radicale.

La quadrantectomia consiste in un’ampia resezione della neoplasia e del tessuto circostante, così da asportare un intero quadrante della mammella, con la porzione corrispondente della cute e della fascia pettorale. L’exeresi chirurgica deve essere sufficientemente ampia da asportare anche 2 centimetri di parenchima macroscopicamente sano intorno alla lesione neoplastica.

Alla quadrantectomia si associa contemporaneamente la dissezione completa dei linfonodi ascellari (linfoadenectomia ascellare). La dissezione linfonodale dell’ascella viene praticata, negli interventi conservativi, in continuità con la exeresi mammaria solamente quando il tumore è localizzato nei quadranti superiori esterni delle mammelle; in caso contrario la linfoadenectomia viene praticata con una incisione separata.

Al fine di evitare gli esiti invalidanti della linfoadenectomia ascellare (edema e parestesie dell’arto superiore omolaterale, difficoltà ai movimenti del cingolo scapolare) si sta oggi sperimentando, nelle pazienti con neoplasia in fase iniziale, una tecnica chirurgica conservativa detta del "linfonodo sentinella"

. Poiché la diffusione metastatica ai linfonodi ascellari avviene in modo regolare e progressivo, senza cioè di solito salti di livello, dal I° al II° e quindi al III° livello ascellare, si è pensato, nelle donne con tumori di diametro inferiore ad 1 centimetro, e quindi a basso rischio (5-10%) di metastasi linfonodali, di asportare con una piccola incisione solo il primo linfonodo di drenaggio regionale, individuato intraoperatoriamente con una sonda radioguidata, dopo iniezione intratumorale di albumina umana marcata con 99mTc. In sostanza il chirurgo, dopo aver iniettato alcune ore prima dell’intervento, con un ago da 25G, dell’albumina marcata in corrispondenza della lesione mammaria, è in grado al momento dell’intervento chirurgico di identificare, con una sonda capace di rilevare il punto di massima radioattività in sede ascellare, il primo linfonodo di drenaggio (linfonodo sentinella) e di asportarlo in modo selettivo. La negatività istologica per metastasi di tale linfonodo (esaminato intraoperatoriamente con esame estemporaneo su sezioni criostatiche quando si decida per un intervento in unica seduta; analizzato viceversa in modo differito su sezioni di preparato fissato in formalina e incluso in paraffina quando si opti per un eventuale intervento di linfoadenectomia ascellare posticipato in seconda seduta) è altamente predittiva (valore predittivo tra il 96 ed il 100%) della negatività istologica di tutti gli altri linfonodi ascellari e consente quindi di evitare la dissezione ascellare completa, con le inevitabili complicanze precoci e tardive connesse con questa procedura. La positività istologica del linfonodo sentinella è invece naturalmente indice di diffusione regionale della neoplasia e determina il ricorso alla linfoadenectomia ascellare completa.

Dopo l’intervento di chirurgia conservativa e linfoadenectomia, la mammella residua (ma non l’ascella, per il pericolo di danni radioindotti alle strutture vascolari e nervose) viene irradiata, al fine di ridurre il rischio di recidive tumorali locali, anche in considerazione della frequente multicentricità delle neoplasie mammarie. Il trattamento radioterapico (figura 3) consiste nell’erogazione a tutta la mammella residua di una dose di 50-60 Gy nell’arco di circa sei settimane; viene aggiunta poi una dose supplementare di 15-20 Gy sull’area tumorale, al fine di garantire una maggiore radicalità.

In centri di ricerca oncologica di avanguardia viene oggi praticata la radioterapia intraoperatoria (IORT), che, con l'utilizzo di acceleratori lineari mobili, forniti di un braccio robotico direzionabile sul campo chirurgico, consente di erogare in corrispondenza del letto tumorale una elevata dose di radiazioni in una unica frazione, nel corso stesso dell'intervento chirurgico. Ciò permette un trattamento radioterapico adiuvante precoce, preciso e mirato, evitando o riducendo gli effetti collaterali derivanti dall'irradiazione dei tessuti sani interposti.

Dopo il trattamento QUART (quadrantectomia, dissezione ascellare, radioterapia), le ulteriori fasi della terapia di una neoplasia mammaria variano in rapporto al dato istopatologico-clinico di maggior rilievo per la prognosi della patologia oncologica della mammella: la presenza o l’assenza di metastasi linfonodali. Si è evidenziato che il 50% delle pazienti con tumore mammario presenta nuovi segni di neoplasia, locali o a distanza, entro i primi tre anni dall’intervento se i linfonodi ascellari sono positivi, e addirittura entro due anni se il loro numero è maggiore di 10. La presenza di metastasi linfonodali è perciò elemento indicativo di una neoplasia più aggressiva o comunque non più probabilmente localizzata e suggerisce quindi la necessità di aggiungere alla terapia locoregionale un ulteriore trattamento sistemico chemioterapico e/o ormonoterapico.

 

 

Terapia dei tumori invasivi con diametro superiore ai 3 centimetri

Il trattamento dei tumori con diametro superiore ai tre centimetri prevede come prima opzione la mastectomia completa con dissezione ascellare totale, con o senza ricostruzione immediata o ritardata della mammella. Non è attualmente previsto in questo caso (a meno di un interessamento linfonodale importante) il trattamento radioterapico sulla parete toracica, mentre sono indicate la chemioterapia adiuvante postchirurgica con CMF per un totale di 6 cicli e la ormonoterapia adiuvante con tamoxifene per 5 anni nei casi ER+..

Nell’intento di consentire anche a queste pazienti un trattamento chirurgico conservativo, è possibile ricorrere ad una seconda opzione, che prevede una chemioterapia primaria prechirurgica citoriduttiva (chemioterapia neoadiuvante) con tre cicli di CMF o FAC (fluorouracile, adriamicina, ciclofosfamide) o FEC (fluorouracile, epirubicina, ciclofosfamide) o con cicli di combinazioni farmacologiche che prevedono l'utilizzo di taxani, al fine di ridurre le dimensioni del tumore al disotto dei tre centimetri. Una volta constatata la regressione dimensionale della neoplasia, si procede a trattamento QUART con quadrantectomia, svuotamento ascellare e radioterapia della parte di mammella residua, seguito da terapia adiuvante con 6 cicli di CMF e ormonoterapia con tamoxifene per 5 anni nei casi ER+.

 

Terapia dei tumori localmente avanzati

Per carcinoma mammario localmente avanzato si intende una neoplasia con estensione diretta alla cute e/o alla parete toracica (T4).

Viene compreso in questa categoria il cosiddetto carcinoma infiammatorio, caratterizzato clinicamente da un diffuso indurimento della cute mammaria, a bordo erisipeloide: si tratta di un tumore a rapida comparsa e evoluzione, caratterizzato istologicamente dall’infiltrazione dei linfatici del derma. La sopravvivenza a 5 anni è del 20-30% per le pazienti con carcinoma localmente avanzato senza segni di carcinoma infiammatorio e del 10% o meno per le pazienti con carcinoma infiammatorio.

Fino a qualche anno fa queste neoplasie venivano considerate inoperabili ed erano trattate solamente con una combinazione di radio e chemioterapia.

Nella maggior parte delle pazienti la strategia moderna contempla invece una chemioterapia primaria neoadiuvante citoriduttiva con CMF, FAC o FEC, seguita da mastectomia radicale (cioè con asportazione anche dei muscoli pettorali) e linfoadenectomia ascellare, da radioterapia sulla parete toracica e da chemio e ormonoterapia adiuvanti. Con tale approccio multimodale si sono riportate sopravvivenze del 40-60% a 5 anni.

 

Terapia dei tumori metastatici

Il carcinoma mammario metastatizzato in modo clinicamente evidenziabile ai tessuti periferici viene considerato una patologia da trattare con finalità di palliazione.

Le sedi più frequenti di metastasi sono i tessuti molli, lo scheletro, i polmoni e il fegato. Il trattamento antineoplastico con ormonoterapia e/o chemioterapia è in grado nella maggior parte dei casi di prolungare la sopravvivenza, di indurre una provvisoria regressione tumorale parziale o completa e di migliorare la qualità della vita.

La scelta del trattamento tra ormonoterapia (con antiestrogeni come il tamoxifene o, in seconda e terza battuta, con inibitori dell'aromatasi come l’anastrozolo - in pazienti in postmenopausa - , con analoghi dell’RH-LH come il goserelin - in pazienti in premenopausa - e con progestinici come il medrrossiprogesterone acetato) e chemioterapia (con schemi classici come il CMF, il FAC, il FEC o con le nuove combinazioni di taxani ed antracicline) va fatta sulla base della conoscenza dei dati clinici e biologici della neoplasia, dell’intervallo libero da malattia tra trattamento del tumore primitivo e comparsa delle metastasi, del numero e delle sedi delle localizzazioni metastatiche. Devono essere trattate con chemioterapia le donne con malattia aggressiva e rapidamente evolutiva, con breve intervallo libero da malattia dopo l’intervento chirurgico e con localizzazioni metastatiche viscerali, anche al sistema nervoso centrale. La ormonoterapia deve essere invece preferita per localizzazioni esclusivamente ossee o ai tessuti molli (in genere a lenta evoluzione), nelle donne con lungo intervallo libero da malattia dopo l’intervento chirurgico e con recettori ormonali positivi o sconosciuti. In caso di recettori ormonali negativi è comunque da preferire la chemioterapia, anche quando le metastasi non siano viscerali. Non vi è al momento attuale indicazione alla associazione di ormonoterapia e chemioterapia per il trattamento delle metastasi.

Ancora non del tutto definito è il problema della chemioterapia ad alte dosi, che consiste nella somministrazione di agenti antineoplastici a dosi da 2 a 20 volte superiori rispetto a quelle standard, con reinfusione di cellule staminali autologhe per ricostituire il midollo osseo. Vari studi clinici non hanno in ogni caso evidenziato risultati clinici migliori in pazienti con carcinoma metastatico trattate con chemioterapia ad alte dosi, rispetto a quelle trattate con chemioterapia a dosi standard.

Alcuni recenti studi clinici dimostrano che l'aggiunta di trastuzumab (un anticorpo monoclonale diretto contro il recettore per lo human epidermal growth factor HER2, noto anche come c-ErbB2) alla chemioterapia, in pazienti con carcinoma mammario metastatico che iperesprime HER2, è associata ad una sopravvivenza superiore a quella ottenuta con l'utilizzo della sola chemioterapia. Tuttavia, il trastuzumab può determinare cardiotossicità, in particolare in associazione alle antracicline, per cui il suo utilizzo deve essere attentamente ponderato.

 

 

Terapia delle recidive loco-regionali

La comparsa di una recidiva locoregionale di carcinoma mammario (evidenza clinica di ripresa di malattia a carico delle stazioni linfatiche di drenaggio e/o della parete toracica dopo mastectomia totale o radicale, a carico della mammella residua dopo terapia conservativa) è un evento frequentemente riscontrabile nella pratica clinica. Il significato prognostico delle recidive locoregionali varia in base alla loro estensione e localizzazione e alle caratteristiche di aggressività del tumore primitivo. In genere si riconosce una prognosi migliore per le pazienti che vanno incontro a recidive intramammarie isolate e chirurgicamente aggredibili (50-70% di sopravvivenza a 5 anni), mentre negli altri casi la recidive è spesso il preludio alla comparsa di lesioni metastatiche periferiche.

In caso di recidiva intramammaria o ascellare la terapia è chirurgica (asportazione in toto della mammella nelle pazienti precedentemente trattate con quadrantectomia; asportazione della massa ascellare in caso di recidiva in tale sede); negli altri casi si ricorre alla radioterapia della regione toracica ed eventualmente delle stazioni linfatiche di drenaggio. Talora al trattamento locale della recidiva si fa seguire comunque un trattamento precauzionale sistemico chemioterapico e/ormonoterapico

 

Terapia del carcinoma mammario nella donna anziana

Il trattamento del cancro mammario nella donna sopra i 70 anni deve tener conto dello stadio della neoplasia, dello stato generale della paziente e delle patologie associate.

Per le forme operabili l’approccio terapeutico è generalmente di tipo chirurgico, come nelle altre fasce di età. Quando non esistano controindicazioni è da preferire l’anestesia generale, che consente di associare, alla quadrantectomia o alla mastectomia, la linfoadenectomia. In presenza di ostacoli alla anestesia generale si ricorre ad un intervento di tumorectomia o quadrantectomia in anestesia locale.

In pazienti di età molto avanzata le indicazioni al trattamento radioterapico postchirurgico devono essere valutate caso per caso, sulla base del rischio di recidiva locale e dell’aspettativa di vita.

Per quanto riguarda il trattamento farmacologico sistemico si tende in genere a preferire la ormonoterapia con tamoxifene, alla dose di 20 milligrammi al giorno da proseguire per 5 anni, anche nelle donne con recettori negativi (nelle quali pure la terapia riesce a dare risultati sufficientemente buoni); il trattamento chemioterapico è da riservare a casi particolari.

 

 

 

Conclusioni

La terapia del carcinoma mammaria, come si è visto, è un argomento abbastanza complesso ed in continua evoluzione ( come dimostrano la recente messa a punto della tecnica del linfonodo sentinella, la nuova suddivisione delle pazienti N- in sottoclassi di rischio da curare in modo differente, la comparsa clinica di potenti agenti antineoplastici come i taxani). Compito del medico di Medicina Generale è conoscere i principi che guidano le scelte terapeutiche, al fine di poter consigliare ed indirizzare al meglio le assistite che si trovano ad affrontare questo drammatico problema.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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