§ III
L'Unità d'Italia
e il declino dopo la soppressione della provincia
Il 5 maggio 1860 parte il processo di
unificazione dell'Italia. Da sud, dopo aver liberato Sicilia e Calabria dal dominio
borbonico (Spedizione dei Mille partita da Genova), il 7 settembre 1860
Garibaldi entra trionfalmente a Napoli con i Borboni costretti a ritirarsi a Capua e Gaeta
nonostante la precipitosa concessione della costituzione e l'adozione della bandiera
italiana.
Da nord, dopo aver ottenuto con la II Guerra d'Indipendenza Lombardia,
Emilia, Romagna e l'annessione pacifica del Granducato di Toscana, Vittorio Emanuele II
e Cavour (per timore che Garibaldi arrivi fino a Roma e l'unificazione diventi di
stampo garibaldino anzichè sabaudo e per evitare l'intervento dei francesi che
proteggevano Roma), dopo aver ricevuto l'autorizzazione da Napoleone III («fate, ma
fate presto»), inviano l'esercito piemontese attraverso le Marche e l'Umbria con
l'obiettivo di occupare lo Stato Pontificio e di riunirsi con i garibaldini a Napoli.
Pio IX invia le sue truppe a nord ma sono più rapidi i
piemontesi che sono già scesi fino all'altezza di Ancona; così il 18 settembre
1860 nell' improvvisa e decisiva Battaglia di Castelfidardo
l'esercito piemontese, guidato dai generali Cialdini e Fanti, batte le truppe
franco-pontificie, guidate dai generali Lamoricière e De Pimodan, occupa Ancona e gli
altri capoluoghi.
Fermo viene occupata il 21 settembre dal gen. Pinelli
che dichiara decaduto il Governo pontificio e istituisce la nuova Giunta provinciale di
governo presieduta dal conte Domenico Monti, liberale (mentre dal 24 settembre il marchese
Cesare Trevisani sarà il nuovo sindaco di Fermo); una settimana più tardi, il 28
settembre, l'arcivescovo di Fermo, cardinale Filippo De Angelis, fu
tradotto nelle carceri di Torino su decisione del gen. Fanti perchè ancora si opponeva
all'unificazione e cospirava in modo giudicato pericoloso dalla nuova autorità, come
vedremo meglio più avanti.
L'offensiva sferrata all'interno, invece, incontra meno resistenza: i
piemontesi proseguono verso la Campania dove, nel frattempo, sul Volturno
(1-2 ottobre) Garibaldi aveva già piegato definitivamente le forze borboniche.
Infine a Teano (26 ottobre) c'è lo storico incontro
tra il Re e Garibaldi: l'Italia è di nuovo unita dopo oltre mille anni.
Le ostilità si chiudono il 13 febbraio 1861 con la presa di
Gaeta dove erano rifugiati i Borboni, che fuggono in esilio all'estero. Il 18
febbraio a Torino si riunisce per la prima volta il Parlamento Italiano con i deputati di
Napoli, Sicilia, Umbria e Marche. Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno
d'Italia.
Sotto la sovranità papale restano ancora la città di Roma e parte del
Lazio, ma nonostante ciò Roma è "acclamata" capitale d'Italia.
Nel 1865 la capitale è trasferita da Torino a Firenze.
Dopo due tentativi vani di Garibaldi (che in uno fu anche ferito), Roma
diventerà materialmente capitale solo dieci anni più tardi, il 20 settembre 1870,
con la sua presa da parte dei bersaglieri, guidati dal gen. Cadorna che entrano attraverso
la Breccia di Porta Pia e il 2 ottobre un plebiscito approva l'unione di
Roma e Lazio all'Italia.
Nel 1871, dopo oltre mille anni, la capitale torna ad essere
definitivamente Roma e viene approvata unilateralmente la Legge delle
Guarentigie (Pio IX non risconosce il fatto compiuto e si rifiuta di accettare
tale legge) con la quale si attribuisce al papa l'inviolabilità e si lasciano in
dotazione al pontefice i palazzi del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo
assegnandogli una somma dal bilancio dello stato. Tale legge non fu mai riconosciuta dal
Vaticano ma rimase in vigore fino ai Patti Lateranensi del 1929 che regolarono
definitivamente (fino ad oggi, salvo la riforma del solo Concordato avvenuta nel 1985) i
rapporti Stato-Chiesa.
FERMO CITTÀ NOSTALGICA, IL CARDINALE DE ANGELIS E IL DECRETO MINGHETTI, MAI
APPROVATO DAL PARLAMENTO, MA CHE DI FATTO LA PRIVA DELLA SEDE AMMINISTRATIVA
Con la Battaglia di Castelfidardo era caduto lo Stato Pontificio nelle
Marche e in Umbria, e con il successivo plebiscito del 4-5 novembre 1860 l'intera
regione era stata annessa allo Stato Piemontese nel quale Fermo è capoluogo di una
provincia con quarantasette comuni e 110.000 abitanti: le circoscrizioni
territoriali delle Marche vengono confermate dal Decreto n. 568 del
6 dicembre 1860 del Regio Commissario per le Marche, Lorenzo Valerio (e sono sei: Urbino e
Pesaro; Ancona; Macerata; Camerino; Fermo; Ascoli).
Ecco i risultati del plebiscito negli undici comuni del mandamento di
Fermo : 5224 si - 39 no - 6 nulli; però su
9144 aventi diritto al voto andarano a votare solo 5269 (3875 gli astenuti). Votò
soltanto il 58% degli aventi diritto.
L'alto numero degli astenuti ebbe influenza negativa nel giudizio del
ministro degli affari interni Marco Minghetti sulla provincia fermana, già
tradizionalmente molto vicina al papato.
Vittorio Emanuele II arriva ad Ancona via mare subito dopo il gen.
Cialdini e visita i capoluoghi delle Marche prima di proseguire per la Capania dove
incontrerà Garibaldi. Il re doveva recarsi anche a Fermo ma vengono frapposti
ostacoli di ordine politico: Fermo restava ancora una roccaforte del potere
papalino, in città si trovavano i potenti cardinali Bernetti e De Angelis, fermani. Il
primo era segretario di stato Vaticano e in precedenza aveva contribuito notevolmente
all'elezione del papa regnante, Pio IX (Mastai Ferretti di Senigallia), mentre il card. De
Angelis era stato tra i principali candidati al soglio pontificio quando fu eletto Pio IX
(non fu eletto papa per pochi voti), era un indomito sostenitore del mantenimento del
potere temporale del papa e si opponeva ancora in modo fattivo (per non dire sovversivo)
al processo unificatore.
E' una situazione politica che peserà sul futuro della città.
A nulla serve la successiva visita "riparatoria" dei membri
del comitato liberale fermano, guidati dal conte Domenico Monti (ultimo presidente della
provincia fermana e amico personale del Re) che l'11 ottobre vanno ad ossequiare
Vittorio Emanuele II a Grottammare, ospite dei marchesi Laureati, ricevendo asssicurazioni
sulla protezione di Fermo.
La provincia di
Fermo |
Nonostante i fasti del passato e la grandezza politica e culturale che
ancora la caratterizza, nonostante sia la terza città delle Marche per dimensioni
dopo Ancona e Pesaro, il 22 dicembre 1860, a seguito del Regio Decreto 4495 del Ministro
dell'interno Marco Minghetti e del luogotenete Eugenio Di Savoia (che effettua un
improvviso riordino delle circoscrizioni del nuovo Stato unitario), la
provincia di Fermo viene unita a quella confinante di Ascoli a formare
l'attuale provincia, con capoluogo Ascoli anzichè Fermo o entrambe e questo nonostante
all'epoca Fermo fosse più grande e importante di Ascoli e la provincia di Fermo fosse
più importante per popolazione, estensione, reddito, estimo catastale e viabilità, di
quella di Ascoli (vedi tabella in basso).
E nonostante il nuovo capoluogo fosse decentrato e mal collegato rispetto a tutto il resto
della provincia, soprattutto alla parte nord (come lo è rimasto ancora al giorno d'oggi).
La provincia di Fermo aveva una popolazione di 110.321 abitanti (quella di Ascoli 91.916)
e comprendeva più comuni dell'altra.
Tutto questo solo perché Ascoli - come vedremo avanti - dava maggiori garanzie
patriottiche rispetto a Fermo.
Il 26 dicembre si riunisce la commissione municipale di Fermo
che scrive al ministro Minghetti e poi decide di inviare subito a Torino una deputazione
(composta dall'avvocato Morichelli e dell'ingegnere Carducci appoggiati nella capitale dal
deputato fermano conte Gigliucci) per effettuare pressione sul Governo e sul Re allo scopo
di modificare il decreto.
Scrive il Regio Commissario Domenico Valerio: «Mentre a
Camerino (la cui piccola provincia era stata unita a Macerata) il risentimento non è
notevole a Fermo la commozione è grave perché la città di Fermo
aveva titoli per essere mantenuta provincia» al punto che l'entusiasmo
per la raggiunta Unità nazionale passa addiruttura in secondo piano e comincia un'azione
di rivalsa politica che degenera presto anche in proteste di piazza che assumono
la forma di tumulti ed escandescenze (più in là, nel 1873, nell'ennesima manifestazione
di piazza ci sarà anche un morto).
Scrive Il Corriere delle Marche: «C'è la necessità di
restituire alla provincia il capoluogo che le assegnò la natura. Ascoli, posto in mezzo
ai monti, all'estremo lembo della provincia, è il luogo meno adatto per tenervi la sede
del capoluogo».
La commissione muncipale di Fermo si dimette per
protesta.
Sono soltanto le prime due iniziative di una lunghissima serie (giunta fino ai giorni
nostri), sinteticamente illustrata nella cronistoria riportata più in basso.
I MOTIVI DI FACCIATA
- Il motivo formale addotto dal Governo fu quello della "centralità
geografica" che avrebbe acquisito Ascoli rispetto alla nuova provincia perché il
progetto prevedeva di accorpare all'Ascolano non solo il Fermano ma anche il Teramano. In
quel caso Ascoli sarebbe stata davvero al centro della nuova provincia, che invece non si
formò mai perché il Teramano riuscì a rimanere col suo vecchio capoluogo. Il Governo
Sabaudo disse che voleva unire queste tre province per "armonizzare" la
popolazione, creandone una nuova a cavallo di quel fiume Tronto che per secoli aveva
diviso le due popolazioni vicine rappresentando il confine secolare tra Stato Pontificio e
Regno Borbonico.
I VERI MOTIVI - In realtà i
motivi di fondo, mai ammessi anche se chiari sin dall'inizio, stavano nel privare del
capoluogo due città che avrebbero potuto rappresentare un pericolo all'unificazione
appena raggiunta.
Come accennato, arcivescovo di Fermo era il cardinal De Angelis, che non era stato
eletto papa per pochi voti, irriducibile difensore del potere temporale del papa e che si
era dato troppo da fare con la sua azione apertamente reazionaria e
"austriacante". De Angelis era molto potente e temuto a Fermo, per anni aveva
tenuto sottomesse le autorità amministrative e giudiziarie fermane. Il Finali
definiva De Angelis «istigatore di reazioni armate», il Leti invece lo definiva «un
uomo battagliero, ricco e circondato da un numeroso clero compatto, organizzatore di
armati e incettatore di armi»; il C.A. Vecchi, ascolano,
racconta che su ordine di De Angelis ad Ascoli furono arrestati un conte ed un marchese
come cospiratori contro il governo papale.
Fermo per molti anni si era dimostrata un buon centro
strategico della reazione armata e antirivoluzionaria (vennero scoperti in città alcuni
documenti militari) e questo nonostante si trovassero a Fermo anche ottimi
elementi liberali e patrioti (come lo stesso conte cav. Domenico Monti, amico personale
del re e che fu l'ultimo presidente della provincia di Fermo).
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando l'arcivescovo
cardinale il 17 settembre (giorno prima dell'arrivo delle truppe piemontesi nelle Marche)
propagò una circolare in cui intimava a tutti i religiosi della circoscrizione «di non riconoscere il governo invasore,
di non accettare impieghi e incombenze, di non prestarvi giuramenti di fedeltà, di non
consegnare ai ministri del governo intruso l'elenco dei
parrocchiani per la formazione della Guardia Civica». [in Archivio Diocesano di Fermo]
Invece, il giorno successivo alla Battaglia di Castelfidardo (19
settembre), il gonfaloniere fermano Antonio Brancadoro aveva rifornito di viveri i
militari pontifici allo sbando dopo la sconfitta.
L'atteggiamento ostile, quasi brigantesco, di molto clero
piceno, non piacque alle nuove autorità che decidettero di privare subito la città del
suo cardinale (che fu tradotto nelle carceri di Torino il 28 settembre 1860), poi, tre
mesi più tardi, anche della sede provinciale allo scopo di togliere il monopolio del
potere dalle mani dell'elemento clericale e potenziare invece Ascoli che, sebbene
da sempre città di secondo piano rispetto a Fermo, dava però in quel momento maggiori
granzie patriottiche e risorgimentali per la presenza in loco di un gruppo dirigente di
più forte fede liberale e perché da quel capoluogo posto sul vecchio confine, si poteva
controllare meglio da vicino il fenomeno dell'insorgenza, forte
soprattutto nel Teramano (essendo al confine anche del vecchio Regno di Napoli).
Nei riguardi di Teramo si volevano annientare - per l'appunto - le
organizzazioni brigantesche che infestavano la provincia e avevano in Civitella del Tronto
un'autentica roccaforte dell'insorgenza e del potere reazionario borbonico, e il progetto
prevedeva addirittura di smembrare la provincia, consegnandone una parte a nord ad Ascoli
e l'altra a sud a Chieti (Pescara non era ancora provincia, lo diventerà solo negli anni
Trenta).
Nonostante ciò, però, la provincia di Teramo, che contava
circa 250.000 abitanti estendendosi dal fiume Tronto al fiume Pescara (la provincia di
Pescara ancora non esisteva) riuscì a salvarsi per la notevole pressione che la
Luogotenenza Napoletana fece a Torino, mentre la sorte di Fermo fu segnata dal decreto
Minghetti del 22 dicembre 1860 che andò subito in esecuzione nonostante esso non fosse
mai stato approvato dal Parlamento, come invece richiedeva la legge (lo Statuto
Albertino).
Rimanendo Teramo per conto
proprio, Ascoli non si trovò più al centro della provincia e, ad un certo punto, sembrò
che questo fatto potesse restituire la provincia a Fermo: «Le cose di Fermo si
accomodano perché di Teramo non se ne fa altro» disse il ministro Minghetti al deputato
fermano, conte Gigliucci, a Torino sei mesi dopo il decreto, ma le cose non cambiarono lo
stesso.
Evidentemente era maggiore il timore verso Fermo: basti
ricordare gli ostacoli frapposti alla visita che il Re avrebbe dovuto compiere a Fermo
subito dopo l'unificazione come negli altri capoluoghi marchigiani e la minaccia di
attentati.
In conclusione la sorte di Fermo fu decisa d'istinto, con una decisione
affrettata «voluta da un momento di indignazione del Cavour e del ministro Minghetti»,
con un decreto che non è stato mai approvato e convertito dal Parlamanto (come invece
voleva la Costituzione in vigore) e quindi privo di valore ma che fu eseguito lo stesso;
decisione che però lascerà il suo segno molto a lungo nel tempo anche quando i timori e
i motivi che l'avevamo determinata non avranno più ragion d'essere, fino ai nostri
giorni.
[la maggior parte delle notizie è tratta da «Una vicenda
della rivalità municipale sorta con l'Unità d'Italia», prof. Bruno Ficcadenti - Urbino,
1973]
lmmagine in basso (da una carta geografica d'epoca): la nuova "PROVINCIA DI FERMO ED ASCOLI" (come si legge in basso). In realtà, nonostante la città più grande ed importante fosse Fermo (come si denota dal disegno), il capoluogo aveva la sede soltanto nel secondo centro. I confini sono gli stessi di oggi.
Dati tratti da una "Tabella di Riporto" annessa al decreto n. 568 del 6 dicembre 1860 del Regio Commissario Lorenzo Valerio che in un primo momento aveva stabilito il mantenimento di entrambe le province di Fermo e di Ascoli. |
||
FERMO | ASCOLI | |
popolazione del capoluogo | 23.864 (compreso Porto San Giorgio) |
16.890 |
comuni | 47 | 45 |
popolazione totale | 110.321 | 91.916 |
estimo catastale | 19.137.948 | 12.929.333 |
densità di popolazione | 127 | 75 |
strade rotabili | 357 | 131 |
Cronistoria
delle principali iniziative prese dal 1860 ad oggi
a difesa della provincia fermana
6 dicembre 1860: | Il Regio Commissario per le Marche,
Lorenzo Valerio (a cui il Governo aveva dato ampi poteri su tutte le province delle Marche
subito dopo l'annessione all'Italia), pubblica il Decreto n. 568 che stabilisce il
mantenimento di entrambe le province di Fermo e di Ascoli (assieme a quelle di
Pesaro-Urbino, Ancona, Macerata e Camerino). Annessa al decreto c'è la "Tabella di Riporto" di cui sopra e che evidenzia la priorità di Fermo e del Fermano sull'Ascolano. |
22 dicembre 1860 | Il Luogo tenente generale Eugenio di
Savoia e il ministro dell'interno Marco Minghetti emettono a sorpresa il decreto 4495 che
accorpa le province di Camerino e Fermo rispettivamente a Macerata ed Ascoli spostando la
sede del capoluogo in queste ultime due città. La decisione fu adottata senza consultazione con il Parlamento NONOSTANTE LO STATUTO ALBERTINO IN VIGORE DISPONESSE "LE CIRCOSCRIZIONI DELLE PROVINCE SONO REGOLATE PER LEGGE" (ART.48): il decreto Minghetti non fu mai convertito in legge, ma nonostante ciò rimase in esecuzione. |
23 dicembre 1860 | Il Commissario straordinario per le Marche, L. Valerio, è sorpreso e dispiaciuto per l'inatteso decreto 4495 Di Savoia/Minghetti che lo scavalca e contraddice il suo precedente decreto emesso sedici giorni prima e commenta: «Mentre Camerino aveva uno scarso numero di abitanti e di comuni, e il risentimento non fu notevole, a Fermo la commozione fu grave perché la città di Fermo aveva titoli per essere mantenuta provincia». |
1 gennaio 1861 | Il conte cavalier Domenico Monti si dimette da presidente della provincia rassicurando, però, i fermani «con la parola augusta del Re» (parola che il Monti ebbe a Grottammare in cui si era recato per rendere omaggio al Re, ospite dei marchesi Laureati. Vittorio Emanuele, in quella cirocostanza, garantì al Monti una speciale protezione per Fermo che sarebbe stata oggetto di particolari cure del governo). |
21 marzo 1861 | Petizione rivolta al Parlamento |
maggio 1861 | La provincia di Teramo resta per conto
proprio perché ci sono difficoltà per l'annessione ad Ascoli. Quindi Ascoli non si trova più al centro della nuova provincia, così ad un certo punto sembra che questo nuovo fatto possa restituire la provincia a Fermo: «Le cose di Fermo si accomodano perché di Teramo non se ne fa altro» disse il ministro Minghetti al deputato fermano, conte Gigliucci, a Torino, sei mesi dopo il nefasto decreto. Anche queste, però, parole al vento, come quelle del re. |
13 marzo 1862 | Su pressione del consiglio comunale di
Fermo, il ministro dell'interno incarica il prefetto Campi di convocare in via
straordinaria il consiglio provinciale per un parere. La composizione del consiglio vede favorito il Fermano: i consiglieri fermani sono ventidue, gli ascolani venti (poiché il Fermano è zona più vasta e popolosa). Gli ascolani, dando per scontata la sconfitta alla votazione, cercano di differire la seduta o di evitarla, ma alla fine il consiglio provinciale vota e la deliberazione è favorevole alla ricostituzione della provincia fermana. |
15 ottobre 1862 | Per sostenere la volontà espressa dal consiglio provinciale, viene inviata a Torino una delegazione (marchese Luciani e avv. De Minicis) alla quale il ministro dell'interno dichiara: «è giusto ed urgente riparare ai mali cagionati da un decreto improvvido ed erroneo». |
23 giugno 1866 | I consiglieri provinciali fermani ricorrono contro la decisione del prefetto Gerra che decide di riunire il bilancio provinciale in un capitolo unico anziché lasciarlo in due capitoli separati (Fermo e Ascoli): così non sarà più dimostrabile la superiorità di entrate e la maggior richezza di Fermo rispetto ad Ascoli. |
1873 | Tre giornali (La Gazzetta d'Italia, La Gazzetta dell'Emilia e Il Corriere delle Marche) appoggiano le lamentele di Fermo. Dice il terzo: «C'è la necessità di restituire alla provincia il capoluogo che le assegnò la natura. Ascoli, posto in mezzo ai monti, all'estremo lembo della provincia, è il luogo meno adatto per tenervi la sede del capoluogo». |
1873 | A Fermo si svolge una imponente
manifestazione che ha eco anche su giornali di altre regioni. La situazione degenera in
moti di piazza, nel corso di una rissa un contendente perde la vita. Il Consiglio provinciale non riesce più a riunirsi nella sede di Ascoli poiché i consiglieri fermani (che rappresentavano la maggioranza) decidono di non recarsi più ad Ascoli e costituiscono a Fermo la "Commissione Permanente". |
20 maggio 1873 | Il prefetto intima ai consiglieri
fermani di riunirsi ad Ascoli ma essi si rifiutano ribadendo che il capoluogo naturale del
Piceno è Fermo mentre Ascoli è un "capoluogo impossibile"; aderiscono a questa
presa di posizione anche molti comuni della provincia. Il Prefetto è costretto a riconvocare il consiglio, ma i membri fermani danno le loro dimissioni in attesa di nuove elezioni provinciali. Però subito dopo le elezioni i nuovi consiglieri fermani si dimettono come i predecessori. Arriviamo all'11 novembre: il Prefetto indice nuove elezioni, e i consiglieri fermani si dimettono per la terza volta: l'attività amministrativa provinciale è paralizzata e il problema torna a farsi sentire in alto. |
30 gennaio 1874 | I Deputati fermani Trevisani, Bartolucci e Gigliucci comunicano ai loro concittadini la promessa del Ministero che la questione provinciale sarà presa in esame dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento: le astensioni e le dimissioni cessano nella speranzosa attesa di buone notizie. |
marzo 1874 | Il Consiglio di Stato dichiara prive di validità legale le deliberazioni prese dal Consiglio provinciale quando mancavano i fermani. Rinfrancati da questa decisione i fermani tornano a riunirsi regolarmente ad Ascoli certi che la partita stia per essere vinta. |
31 maggio 1876 | In Parlamento viene illustrato il
disegno di legge Bartolucci-Gigliucci che dimostra la convenienza di spostare la
prefettura e la sede del capoluogo di provincia a Fermo. Il nuovo ministro degli Interni, Nicotera, dichiara: «non si tratta di una questione semplice ma di una questione che tocca interessi vitali, ed è giusto che il Governo si riservi tutta la sua libertà nell'esame di questa proposta di legge». La proposta è appoggiata da un esponente politico di primo piano a livello nazionale, il Depretis. |
6 giugno 1876 | La proposta di legge passa all'esame
della commissione della Camera ma si decide di rinviare la decisione in occasione di una
più ampia riforma delle circoscrizioni territoriali (che però non si svolgerà mai
più). La lotta politica si esaurisce poco alla volta e la discussione resta solo nelle piazze e sui giornali anche perché i fermani vengono momentaneamente rabboniti dal Governo con il finanziamento di importanti opere pubbliche (realizzazione della Strada Nuova, apertura di nuove scuole, Regio Liceo, potenziamento di istituti esistenti, tra cui l'Istituto Industriale Montani) o con la progettazione di altre (collegamento ferroviario per Porto San Giorgio e per Amandola che sarà poi realizzato trent'anni dopo). |
anni Venti e Trenta | Sotto il governo fascista vengoni istituite nuove province (ad.es. Pescara, Terni, Taranto e altre...); Fermo si fa avanti di nuovo senza ottenere nulla. |
anni Sessanta e Settanta | Nuova ondata di province: vengono
promosse a capoluogo le città di Isernia e Oristano; nonostante le istanze, Fermo resta al palo. Nel 1973 un docente dell'Università di Urbino, Bruno Ficcadenti, pubblica un libro molto dettagliato sull'intera vicenda della provincia fermana (da cui sono tratte le notizie che compaiono in questo prospetto). Nasce un nuovo comitato spontaneo guidato dallo storico e appassionato Abramo Mori, viene presentato al Consiglio di Stato un ricorso sull'irregolarità formale del Decreto Minghetti del 1862 (che non è mai stato convertito in legge). Il supremo tribunale amministrativo dichiara che la questione non può più essere esaminata: è ormai passato troppo tempo. |
1992 | Finalmente, nel
nuovo disegno di legge sulle autonomie locali, viene inserita anche Fermo, il cui
territorio ha riacquistato importanza principalmente per lo sviluppo industriale. Nella riunione decisiva del Consiglio dei Ministri c'è l'incartamento di Fermo assieme a quelli di Rimini, Lecco, Prato, Lodi, Biella, Verbania e Crotone, ma all'ultimo minuto Fermo viene scartata perché, per "opportunità politiche" deve essere inserita Vibo Valentia, e non è possibile istituire una provincia in più oltre al numero previsto. Le motivazioni non saranno mai chiarite ma l'onorevole Mancino è legato proprio a Vibo Valentia, mentre, nonostante il parere favorevole dato dalla Regione Marche alla quinta provincia, l'onorevole pesarese Forlani (che ha molti consensi elettorali nell'ascolano), sostiene a Roma le proteste degli ascolani (ovviamente contrari alla provincia fermana), come contrario alla ricostiuzione dell'antica provincia è anche l'on Ciaffi, maceratese, per il timore che gli importanti comuni calzaturieri del macetatese vadano a gravitare nella nuova provincia. Fermo invece non ha politici di rilievo nazionale che appoggino la sua causa E' una situazione simile a quella del disegno di legge Bartolucci del 1876: Fermo si blocca quando già si intravvede il traguardo. Così Fermo viene rinviata alla seconda ondata della stessa legge del 1992 nella quale sono inserite anche Monza e Barletta. |
1999/2000 |
Novembre
1999: il Parlamento approva la copertura finanziaria per l'eventuale istituzione di alcune
nuove province e impegna il Governo a decidere. Febbraio 2000: il sottosegretario del Ministero del Bilancio, Macciotta, conferma che esistono le risorse finanziarie per la nuova provincia fermana. Dicembre 2000: giungono alla Prima Commissione Affari Costituzionali della Camera le proposte di istituzione di ben 28 province in Italia tra cui quella di Fermo. Ma quella di Fermo è tra le poche (sono una decina in tutto) ad avere tutti i requisiti richiesti (formali delibere di tutti i comuni, parere favorevole della regione, numero minimo di abitanti per essa e per la provincia che resta ecc...) anche se ciò non basta, servendo anche la volontà politica. Il governo dichiara: "Di nuove province ne saranno istituite soltanto due o tre al massimo, una al nord, una al centro, una al sud". Fermo spera di essere quella del centro. Quella del nord sarà quasi sicuramente Monza (Lombardia); al sud buone probabilità per Barletta (Puglia). Le altre proposte considerabili sono: Alba-Bra (Piemonte), Bassano del Grappa (Veneto), Chiavari (Liguria), Empoli (Toscana), Civitavecchia (Lazio), Foligno-Spoleto (Umbria), Avezzano-Sulmona (Abruzzo), Aversa-Nola (Campania), Castrovillari-Sibari (Calabria). |
2001 |
Marzo 2001: si conclude l'iter parlamentare. Tutte le commissioni
interessate (Affari Costituzionali, Bilancio, Finanze e Giustizia) hanno dato parere
favorevole all'unanimità per la istituzione delle provincie di Monza (Lombardia),
Barletta (Puglia) e Fermo: per quest'ultima sarebbe un ritorno dopo il
clamoroso errore commesso dal governo Cavour nel 1860 che spostò il capoluogo ad Ascoli,
centro dell'entroterra che non è stato capace di assumere il ruolo di vera guida del
territorio come dimostrano le delibere di separazione dei 40 comuni
interessati che hanno chiesto di tornare con il "loro" capoluogo. Bocciate le province di Empoli, Civitavecchia, Avezzano-Sulmona e altre. Il Governo Amato stanzia 15 miliardi per i primi adempimenti dei tre nuovi enti, saranno disponibili a partire dal gennaio 2002 quando le nuove province saranno operative. Nell'ultima seduta di giovedì 8 marzo 2001, la Commissione Affari Costituzionali, e poi il "si" della Presidenza del Consiglio, hanno vincolato le nuove camere a ripendere subito in esame le tre proposte di legge per la loro discussione e approvazione entro sei mesi con la procedura d'urgenza, come prevedono i regolamenti parlamentari: i tre enti saranno istituiti entro gennaio 2002, quando i fondi in billancio saranno utilizzabili. E intanto anche il comune di Civitanova Marche intende far parte della nuova provincia "industriale" staccandosi da Macerata. |
In basso: l'incremento demografico dei cinque capoluoghi della regione a confronto.
(dati dal 1861 forniti dall'ufficio regionale statistica dell'ISTAT -
Ancona)
Lo scippo della provincia ha chiaramente frenato il possibile sviluppo di Fermo.
1861 | oggi |
|
|
ANCONA | 35.000 | 100.000 | x 2,8 |
PESARO | 26.000 | 88.000 | x 3,4 |
FERMO | 19.000 | 36.000 | x 1,9 |
MACERATA | 18.000 | 40.000 | x 2,2 |
ASCOLI | 17.000 | 52.000 | x 3 |
altre città
(fonte: ufficio regionale statistica dell'ISTAT - Ancona)
S. BENEDETTO | 7.000 | 45.000 | x 6,4 |
PORTO S. ELPIDIO | 2.000 | 22.000 | x 11 |
PORTO SAN GIORGIO | 4.000 | 16.000 | x 4 |
CIVITANOVA | 9.000 | 37.000 | x 4,1 |
CAMERINO | 12.400 | 7.000 | - 40% |
TOLENTINO | 10.900 | 18.000 | x 1,7 |
FANO | 19.000 | 56.000 | x 2,9 |
URBINO | 14.800 | 15.000 | = |
Nonostante la privazione della
sede provinciale, la città subisce egualmente una trasformazione edilizia e un processo
di sviluppo, anche se esso sarà necessariamente più lento rispetto a quello subito dai
vicini capoluoghi Ascoli e Macerata.
Risale a questo periodo la realizzazione di due tra le più importanti
opere pubbliche degli ultimi secoli, la c.d. "Strada Nuova" e la Ferrovia Porto
San Giorgio - Fermo - Amandola.
Il trenino mentre sbuca dal tunnel (Galleria Vinci) |
La "Strada Nuova" (oggi via Roma, Piazza O.
Ricci, via Trevisani, via XX settembre, viale Vittorio Veneto e piazzale T.C.Onesti ) fu
iniziata dall'architetto G. Dasti e completata dall'arch. fermano Giambattista Carducci
per dotare il centro storico di Fermo di un accesso più comodo e importante rispetto alle
ripide e anguste strade medievali e fu realizzata nell'arco di molti anni tra il 1870 e il
1890 con lavori di sventramento della parte est dell'abitato (zona di via Roma), di
sbancamento del lato sud della collina. Con altri lavori di demolizione fu sistemato il
collegamento tra la zona di Campoleggio e la "Strada Nuova" (via Lattanzio
Firmiano, c.d. "salita di S. Pietro"). Successivamente, con la realizzazione
anche di una breve galleria per evitare una curva a gomito e rendere possibile sulla
Strada nuova anche il transito di veicoli a rotaia.
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Infatti il 14 dicembre 1909 entra in funzione una ferrovia
a scartamento ridotto e trazione a vapore, progettata dall'ingegnere milanese Ernesto
Besenzanica, che collega la linea adriatica (aperta nel 1863) da Porto San Giorgio ad
Amandola, cittadina ai piedi dei Monti Sibillini, passando per Fermo e la valle del Tenna.
Per collegare ancora meglio il centro di Fermo fu costruita anche una diramazione che, dal
fianco della città, arrivava fino alle porte della centralissima Piazza del Popolo come
una vera e propria linea tramviaria, passando appunto lungo la Strada Nuova.
Il 28 maggio 1928 la ferrovia fu elettrificata e si progettò anche un
suo prolungamento attraverso la Val Nerina fino a Spoleto e Terni (dove si sarebbe
ricongiunta con la linea che da Ancona conduceva a Roma), ma il prolungamento non fu mai
più realizzato.
Nel 1909 era stato aperto anche il primo cinematografo della città, il
Cinema Helios, uno dei primi della regione, esistente ancora oggi nella
stessa sede storica, ricavata all'interno della vecchia chiesa di San Rocco.
In epoca fascista (grazie anche a Di Crollalanza, ministro dei lavori
pubblici di origini fermane), compaiono a Fermo le prime moderne case in cemento armato: abitazioni
popolari fuori della vecchia cinta medievale (piazzale Colombo); il nuovo Ospedale
Civile fuori zona Campoleggio (inaugurato nel gennaio 1933 e poi intitolato al
concittadino Augusto Murri, insigne clinico), il ricostruito e ampliato Tribunale
in corso Cavour (inaugurato nel gennaio 1933) e il nuovo Campo sportivo comunale,
(inaugurato nel gennaio 1934 e inizialmente dedicato alla memoria di Sandro Mussolini,
nipote del Duce: foto in basso), dotato di una delle prime tribune costruite in Italia con
pensilina a sbalzo in cemento armato con la tecnica dei tiranti in ferro, esistente ancora
oggi.
Più tardi viene dedicato alla memoria del giovane fermano Bruno
Recchioni, capitano di fanteria, caduto a Cefalonia il 22 settembre 1943, già
giocatore della Fermana nel ruolo di mediano.
Nell'ottobre 1932 è pavimentata (tra le prime nelle Marche) la
strada provinciale Fermo-Porto San Giorgio ("via del mare", oggi viale Trento).
Pochi anni più tardi la strada comunale Castiglionese (che collegava
Fermo con Monte Caccione) viene prolungata fino a Porto San Giorgio e trasformata in
provinciale, poi viene realizzato il primo tratto di otto chilometri della strada
provinciale val d'Ete da S. Maria a Mare verso l'interno.
Una immagine del 1934 del Campo Sportivo di "via del
mare" appena inaugurato e dedicato alla memoria di Sandro Italico
Mussolini (nipote del Duce morto giovane).
Subito dopo la guerra fu dedicato al fermano Bruno Recchioni, capitano di fanteria,
morto il 22 settembre 1943 nell'Isola di Cefalonia (Grecia) in cui i nazisti uccisero più
di cinquemila italiani.
Si può notare il profilo della tettoia a sbalzo, all'epoca una costruzione avveniristica
che pochissime città in Italia potevano vantare.