Le analisi del "pensatoio'' di Bush
Negli Usa si pensa a un 'esercito imperiale' per fronteggiare insurrezioni ovunque nel mondo
"Fighting Global Counterinsurgency'' (Combattere globalmente contro le insurrezioni) è il significativo titolo di un documento del centro studi "American Enterprise Institute'', considerato il "pensatoio'' dell'amministrazione Bush, reso noto alla metà di dicembre e realizzato dagli esperti militari Thomas Donnelly e Vace Serchuk sulla base dell'esperienza maturata nelle campagne imperialiste in Afghanistan, Filippine e Iraq, oltre che precedentemente in Bosnia, Haiti, Kosovo, Somalia.
Secondo costoro la priorità per il Pentagono non è più vincere in fretta singole battaglie o guerre ma fronteggiare insurrezioni di lungo periodo e per farlo deve dotarsi di un "esercito imperiale''. Sui nuovi scenari in cui è sceso in campo l'aggressore imperialista Usa, secondo gli esperti militari di Bush, lo scontro è con bande di ribelli, insorti, guerriglieri e clan tribali ed è di lungo periodo: "Non servono - si legge nel documento - grandi eserciti che partono per vincere rapidamente battaglie tradizionali e quindi tornare indietro ma truppe altamente professionali che rimangono stabilmente sul territorio a fronteggiare le insurrezioni per garantire la stabilità politica''.
La priorità dunque diventa il soldato. Da qui l'importanza per i guerrafondai Usa di addestrare truppe speciali "con compiti anti-guerriglia, conoscenza dei territori e delle lingue locali''. L'equipaggiamento ad alta tecnologia serve per affrontare combattimenti urbani e in zone impervie nelle migliori condizioni di sicurezza, ma il salto deve essere fatto anzitutto nella mentalità del soldato. "La mentalità di un esercito imperiale è decisamente diversa da quella di un esercito di massa - afferma in proposito Eliot Cohen, docente di strategia alla Johns Hopking University - perché il soldato imperiale accetta di avere obiettivi imprecisi, impegni interminabili e di affrontare quotidianamente scontri limitati, lo scopo di chi fa parte delle truppe imperiali è la vita stessa da soldato mentre i militari di un esercito di massa vogliono vincere in fretta per poi tornare a casa''. Ossia vere e proprie truppe scelte, di professionisti, atti esclusivamente alla guerra "preventiva'', senza remora alcuna nel sottomettere le popolazioni locali che si ribellano all'occupazione imperialista.
Oltre a contingenti di truppe scelte schierate permanentemente sui singoli scenari l'altra componente dell'"esercito imperiale'' sono i contingenti di truppe reclutate fra le popolazioni locali, come avviene oggi con l'esercito afghano e la polizia di Baghdad. "Se Al Qaeda ci attacca su scala globale delegando per procura a singoli gruppi locali la realizzazione di attacchi - si legge nel rapporto - noi dobbiamo rispondere delegando per procura a milizie locali il compito di fronteggiarli''.
I due esperti militari dell'Hitler di Washington ritengono altresì a ragione che il processo di creazione di un "esercito imperiale'' sia già iniziato. Dall'Afghanistan alle Filippine al Corno d'Africa gli Usa hanno in campo truppe speciali per missioni definite "open-ended'' (senza fine), mentre il ricorso a contingenti misti si diffonde: pattuglie americano-kenyote sorvegliano i confini della Somalia, unità americano-filippine danno la caccia ai miliziani islamici sull'isola di Mindanao.
Anche il ministro della difesa statunitense Donald Rumsfeld ha dimostrato di condividere la necessità di porre le truppe speciali al centro del nuovo assetto, perciò designando come capo di stato maggiore dell'esercito il generale Peter Schoomaker, sostenitore della tesi di puntare sul rafforzamento della fanteria leggera. Mentre il politologo di destra Max Boot ha proposto la creazione di un "Ufficio coloniale'', al quale il Dipartimento di Stato dovrebbe delegare la gestione delle responsabilità civili in aree di crisi quando la transizione del potere non è immediata.
"La democrazia in Medio Oriente non arriverà nello spazio di un mattino, - afferma Donnelly - abbiamo di fronte anni, forse decenni, nei quali dovremo affrontare guerriglie e dunque bisogna ripensare la strategia''. Gli autori del documento indicano in J.F. Kennedy il primo presidente Usa ad aver compreso la necessità di una "strategia globale anti-insurrezionale'' ma la richiesta di rinnovamento che fece nel 1962 non venne compresa dal ministro della Difesa, Robert Mc Namara, "che trattò la guerra del Vietnam come una grande guerra mentre si trattava di un conflitto di nuovo tipo''.