Va avanti la deregolamentazione del "mercato del lavoro"
IL COLLOCAMENTO IN MANO ALLE REGIONI E AI PRIVATI
I nuovi centri per l'impiego sono funzionali alla precarizzazione del lavoro
E' solo questione di tempo ma tra pochi mesi i "servizi pubblici all'impiego", vale a dire i vecchi uffici di collocamento, non esisteranno più e sarà completamente stravolto il modo di trovare lavoro. Sin da ora affermiamo che questa ennesima controriforma non favorirà i disoccupati e l'occupazione e contribuirà a mutare la costituzione economica in senso liberista nell'ambito della trasformazione dell'Italia in una seconda repubblica capitalistica, presidenzialista, neofascista e federalista.
Il passaggio del collocamento dalla gestione dello Stato a quella delle regioni e degli enti locali e la crescente apertura alle società private di intermediazione va vista nella complessa mutazione del "mercato del lavoro" e negli interventi dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni per adeguarlo alle nuove sfide di competitività del capitalismo italiano all'interno dell'Unione europea (Ue) imperialista a livello internazionale: soprattutto estendendo le flessibilità e la precarizzazione del rapporto del lavoro che con questa "riforma" investirà anche le modalità di assunzione.
Questa nuova legge è solo l'ultima di una lunga serie che ha portato alla eliminazione dell'ufficio di collocamento progressivamente depotenziato e reso inefficace in particolare dalla legge 223 del luglio 1991 in poi che eliminava l'obbligatorietà della richiesta numerica per categoria e qualifica professionale attingendo alle liste di collocamento, concedendo ai padroni la libertà di assumere mediante richiesta nominativa, e dunque selettiva e discriminatoria. La struttura pubblica, seppur obsoleta e insufficiente, veniva così a perdere le funzioni di controllo e regolamentazione e anche la sua ragione di esistere. Dopo alcuni anni di transizione, senza nessuna legiferazione da parte del governo, arrivava la "devolution" federalista, cioè il passaggio di ampi poteri dallo Stato centrale alle regioni, in particolare con la legge n.59/1997, la cosiddetta "legge Bassanini" che ha investito in pieno il collocamento, e il decreto legislativo sempre del '97 che recepiva una direttiva della Ue per mettere fine al monopolio pubblico sul "mercato del lavoro" e aprire il settore alla "libera concorrenza" dei privati.
Le normative approvate hanno insomma cancellato totalmente la situazione esistente fino al 1990. Ci sono un'infinità di dati relativi all'andamento occupazionale che testimoniano un radicale cambiamento avvenuto negli ultimi 10 anni nel "mercato del lavoro" italiano. Prendiamo l'interinale, cioè il lavoro dato in affitto ai padroni da agenzie private di collocamento: 300.000 lavoratori nel 1999 impiegati come pacchi postali con salari e trattamenti contrattuali inferiori alla norma, con una stima che li fa salire a mezzo milione per il 2001, il lavoro part-time raggiunge il 7,3% con l'obbiettivo di crescere al 16% in pochi anni, le nuove assunzioni sono per il 30% a tempo indeterminato.
Da questo processo di liberalizzazione padronale non poteva rimanere fuori il collocamento. Gli ultimi governi, compreso quello in carica, hanno infatti pensato bene di creare nell'avviamento al lavoro quelle condizioni di "flessibilità", precariato, mobilità, compressione dei diritti dei lavoratori, di totale libertà nelle assunzioni e in parte nei licenziamenti caratteristiche del capitalismo selvaggio di tipo liberista e globalizzato. Il tutto strutturato in senso federalista per soddisfare le esigenze della borghesia che vuol creare un Nord-Italia ancorato ai paesi più avanzati della Ue e un Sud da sfruttare a condizioni da Terzo mondo. Questo destino riservato al Mezzogiorno è confermato anche dal "piano dell'occupazione" e dal "collegato alla Finanziaria sul lavoro" del governo D'Alema e dalla "riforma degli ammortizzatori sociali" che prevedono condizioni di supersfruttamento per i lavoratori, estreme forme di flessibilità nelle assunzioni, meno tasse e varie agevolazioni fiscali per le aziende private.
La legge Bassanini, nel concreto, ha delegato alle regioni la gestione del servizio pubblico all'impiego: da quello ordinario a quello agricolo, dei lavoratori a domicilio ed extracomunitari, degli enti pubblici e della pubblica amministrazione con la sola esclusione della amministrazione statale centrale. Una gestione già avviata con le 15 agenzie regionali per l'impiego. Adesso in 11 regioni sono già stati costituiti i nuovi "centri per l'impiego", 234 nel Centro-Nord e appena 8 nel Sud. Questo dato da solo fa già capire quali saranno le conseguenze: le regioni del Sud pagheranno la loro debolezza economica e infrastrutturale che questa "riforma" renderà ancora più drammatica, la formazione professionale tanto decantata rimarrà lettera morta e avranno ancora più spazio il lavoro nero e il caporalato.
Considerando che nel frattempo è stato concesso ai privati di esercitare l'intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, pratica in precedenza considerata reato penale, al Nord accanto al collocamento pubblico ci saranno agenzie private agguerritissime, mentre al Sud lo Stato si ritira e lascia campo libero alle società di avviamento al lavoro private che avranno uno spazio crescente. Non deve trarre in inganno se finora queste agenzie nel Mezzogiorno sono pochissime. Si può star certi che si moltiplicheranno appena sarà definito il quadro legislativo ed organizzativo.
Governo, sindacati e partiti della destra e della "sinistra" di regime spargono demagogia a piene mani dipingendo questa controriforma come "politica attiva del lavoro", sventolando la promessa di formazione professionale che si svolgerebbe nei nuovi uffici. A ben guardare il decreto legislativo del 20 aprile 2000 stabilisce che i servizi competenti si limitano ad offrire entro 6 mesi un "colloquio d'orientamento" e una proposta d'adesione ad "iniziative d'inserimento lavorativo o di formazione e/o riqualificazione professionale". Se il lavoratore interessato non vi partecipa, oppure non accetta un'assunzione anche a tempo determinato o una "missione" (ovvero lavoro in affitto) perde istantaneamente la veste di disoccupato. Questo non è un aiuto ma una sanzione verso il lavoratore, un pretesto per togliergli il misero assegno di disoccupazione che rimane lo stesso previsto nella vecchia legge. Ma non basta! Il governo ha rinviato alla "riforma" degli "ammortizzatori sociali" altre severissime sanzioni e obblighi per chi non accetta "proposte" di lavoro dai suddetti centri d'impiego.
Il decreto legislativo sancisce anche la fine delle liste degli iscritti sostituite da un tesserino magnetico con dati anagrafici e professionali favorendo i padroni nella scelta delle assunzioni. La stessa ridefinizione dello stato di disoccupato con distinzioni tra "disoccupato di lunga durata" oppure "inoccupato", è finalizzata alla riduzione degli interventi statali e della spesa pubblica. Del resto è questa la politica portata avanti dai governi di "centro sinistra". Basti ricordare che l'Italia è uno dei pochi Paesi europei dove i disoccupati non percepiscono una lira. L'unico sostegno economico offerto è quello dato finora ai lavoratori licenziati che abbiano lavorato almeno 12 mesi nell'ultimo biennio, pari al 30% del salario, cioè nemmeno quel 40% stabilito nell'accordo governo-sindacati-imprenditori del 23 luglio 1993. Più in generale la spesa pubblica per le politiche del lavoro in Italia è dell'1,96% del Pil (Prodotto interno lordo), contro il 2,37% della Spagna, il 3,13% della Francia, il 3,79% della Germania e il 4,25% della Svezia. Gli incentivi al lavoro trovano consistenza solo quando a beneficiarne sono le aziende. Qui i governi Prodi, D'Alema e Amato si sono dati un gran daffare: hanno distribuito sgravi contributivi e fiscali per oltre 15.000 miliardi l'anno, soldi sottratti al bilancio pubblico e alla spesa sociale.
Il collocamento pubblico e soprattutto controllato dai disoccupati e dalle organizzazioni dei lavoratori è sempre stato un obiettivo del movimento operaio con lo scopo principale di eliminare la contrattazione privata a scopo di lucro con conseguenze da tratta degli schiavi, evitare il più possibile le discriminazioni politiche, sindacali, di sesso e razziali da parte del padronato e le "guerre" tra poveri provocate dall'assunzione nominativa e dai rapporti di lavoro precari specie nei momenti di crisi economica e occupazionale.
Questa controriforma non sviluppa le occasioni di lavoro, aumenta il potere ricattatorio padronale e peggiora notevolmente le tutele e i diritti dei disoccupati. è vero che gli uffici di collocamento erano diventati inadeguati (grazie al disimpegno dei governi e alle leggi che li hanno depotenziati) ma i "nuovi centri per l'impiego" non sono nati per favorire una vera occupazione stabile e a salario pieno ai disoccupati, ma piuttosto per aiutare i padroni a trovare manodopera part-time, a tempo, in affitto. Dobbiamo anche sfatare la teoria che questa "riforma" applicata alla nuove forme di lavoro "atipico" contribuirà a far emergere il lavoro nero perché le statistiche dimostrano il contrario: dal 1992 al 1997 l'occupazione irregolare è aumentata di 350.000 unità e rappresenta il 15% del totale. L'Italia detiene il triste record nell'ambito dei paesi Ue e il nono posto mondiale in rapporto percentuale tra economia sommersa e Pil.
Noi marxisti-leninisti rivendichiamo il lavoro stabile, a salario pieno e sindacalmente tutelato per tutti, pur sapendo che ciò è impossibile che si realizzi nel capitalismo. Si deve tuttavia partire da questo obiettivo per immaginare la forma che deve avere il collocamento che comunque deve essere pubblico, esteso equamente su tutto il territorio nazionale, dotato di mezzi e controllato sindacalmente e socialmente dalle masse. Spetta al governo e alle istituzioni sviluppare una politica economica e finanziaria realmente incentrata sulla piena occupazione, che preveda la creazione di posti di lavoro e la gestione del collocamento e della formazione professionale. In assenza di di ciò ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione deve essere data una indennità economica pari al salario medio dei lavoratori dell'industria.