Soddisfatte le banche creditrici. Gm apprezza
FALLISCE IL BLITZ DI MEDIOBANCA E BERLUSCONI SULLA FIAT. MA CI RIPROVERANNO
Nel mirino anche "Il Corriere della sera", "La Stampa" e le Generali
RIMANE APERTA LA BATTAGLIA PER I NUOVI ASSETTI ECONOMICI E FINANZIARI DEL CAPITALISMO ITALIANO

La drammatica crisi della Fiat, con la prospettiva sempre più concreta e ravvicinata della svendita a pezzetti e dissoluzione del più grande gruppo industriale del Paese, ha riaperto prepotentemente la lotta per la definizione dei nuovi assetti economici e finanziari del capitalismo italiano, che ne usciranno profondamente modificati comunque si evolverà questa crisi. A muoversi per tempo, con tutta la sua forza in campo, è stata come sempre Mediobanca, la potente banca d'affari milanese che Vincenzo Maranghi ha ereditato da Enrico Cuccia, e che da quando esiste non ha mai voluto rinunciare al suo ruolo di "salotto buono" del capitalismo italiano, dove si prendono le decisioni più importanti, si mediano i diversi interessi e si ridisegna continuamente la geografia del potere economico e finanziario, e di conseguenza anche politico del Paese. E dietro Mediobanca è spuntata chiaramente anche l'ombra del neoduce Berlusconi, i cui appetiti sono stati potentemente solleticati dall'opportunità, che questa crisi gli offre, di impadronirsi di alcuni ambìti "gioielli" del boccheggiante impero torinese, come quelli delle assicurazioni e della carta stampata.
Questo disegno ha cominciato a delinearsi chiaramente dopo la conclusione dell'infame accordo tra i vertici della Fiat e il governo, che ha esautorato i sindacati e dato il via libera al feroce piano di ristrutturazioni, cassa integrazione e licenziamenti già stabilito dall'azienda; e dopo le dichiarazioni apparentemente "estemporanee" di Berlusconi, che aveva proposto la sostituzione degli attuali dirigenti Fiat e il rilancio del gruppo puntando sui suoi marchi più forti di "immagine", come la Ferrari. Infatti, a pochi giorni di distanza da questi due eventi, alla vigilia di una riunione del Cda della Fiat convocato per il 10 dicembre, voci insistenti e solo debolmente smentite da Umberto Agnelli, che ha assunto la direzione dell'azienda dopo il peggioramento delle condizioni di salute del fratello Gianni, prospettavano un vero terremoto al vertice della casa torinese: via il presidente Paolo Fresco e via anche l'amministratore delegato Gabriele Galateri. Al loro posto, rispettivamente, Gianluigi Gabetti, vecchio amico di famiglia degli Agnelli, appositamente richiamato dalla pensione, ed Enrico Bondi, amministratore delegato di Telecom Italia, già liquidatore dell'impero Ferruzzi, e soprattutto fedelissimo di Maranghi.
Tutto questo sarebbe stato concordato segretamente tra Umberto Agnelli, con l'approvazione del fratello, e Mediobanca, all'insaputa delle quattro banche creditrici della Fiat, e cioè Capitalia (ex Banca di Roma), Intesa, San Paolo e Unicredit. Anzi, a Galateri Agnelli aveva già dato il benservito, costringendolo a presentarsi dimissionario al Cda del 10, e anche dalla Ifil, la finanziaria che controlla la Fiat da cui era stato trasferito di peso per gestire il "risanamento" del settore auto. Paolo Fresco, invece, si rifiutava di dare le dimissioni, forte dell'appoggio delle banche che mostravano di non gradire affatto le decisioni della proprietà.

"PROFETA" O PARTE IN CAUSA?
Si avverava insomma la strana "profezia" di Berlusconi, che a questo punto comincia ad apparire non più come uno spettatore dotato di sorprendenti capacità divinatorie, ma più realisticamente come il terzo protagonista, insieme ad Agnelli e Maranghi, di un disegno già avviato da tempo che ha per posta la liquidazione dell'impero torinese, sotto la regia di Mediobanca, e la redistribuzione delle sue spoglie a vantaggio della cordata che sostiene Maranghi, in primis il cavaliere piduista di Arcore, che ha un'occasione d'oro per assicurarsi il controllo di due grandi quotidiani della Fiat come "La Stampa" e il "Corriere della Sera".
Il piano messo a punto da Maranghi e Berlusconi, e accettato segretamente dagli Agnelli, prevederebbe il cosiddetto "spezzatino", e cioè la vendita frazionata delle società della famiglia, da affidare alla provata esperienza del "liquidatore" Bondi, tra cui lo scorporo dal gruppo Fiat di Ferrari, Alfa-Romeo e Maserati, che andrebbero a far parte di un "polo del lusso" compartecipato dal gruppo tedesco Volkswagen-Bmw. Così si spiega anche l'acquisto del 34% della Ferrari effettuato a fine giugno da Mediobanca, pagato alla Fiat ben 2,4 miliardi di euro, che serviva evidentemente a riavvicinare gli Agnelli a Mediobanca e a preparare la strada al piano.
La produzione delle utilitarie, fortemente ridimensionata con la dismissione di alcuni stabilimenti (Termini Imerese per primo) e la ristrutturazione degli altri, sarebbe finita invece in una nuova holding con la tedesca Opel, filiale europea dell'americana Gm, senza aspettare la vendita del restante 80% della Fiat alla Gm stessa nel 2004, che a questo punto sarebbe uscita dall'accordo firmato nel 2000. Il governo avrebbe fatto la sua parte gestendo insieme ai nuovi vertici della Fiat le dolorose conseguenze occupazionali e sociali che questo pesante ridimensionamento dell'industria italiana dell'auto avrebbe comportato.
Ma la parte più importante e ambiziosa del piano riguardava la sorte dei "gioielli" di famiglia: come la Toro assicurazioni, che nei piani di Maranghi e del neoduce avrebbe dovuto andare a far parte di un grande polo assicurativo con Generali e Mediolanum (la compagnia di Ennio Doris e di Berlusconi), e come Hdp, il cui controllo garantisce a sua volta il controllo del "Corriere della Sera". Non per nulla per il suo acquisto si sono già fatti avanti gruppi "amici" come Ligresti (della stessa cordata di Mediobanca e Fininvest) e l'industriale Della Valle.
Che fosse questo il vero retroscena delle dichiarazioni "profetiche" di Berlusconi e del terremoto al vertice Fiat deciso dal maggior azionista, al di là delle ripetute smentite di Umberto Agnelli e del presidente del Consiglio, era confermato dalle fonti più varie: dalle dichiarazioni invelenite di Fresco, ai giudizi della stampa internazionale, ai timori espressi dalle federazioni nazionale e internazionale dei giornalisti, e perfino un editoriale molto preoccupato del direttore del "Corriere", Ferruccio De Bortoli, che lo stesso Umberto Agnelli ha dovuto personalmente rassicurare con una lettera in cui negava l'eventualità di un passaggio di mano della proprietà del quotidiano milanese.

TREGUA ARMATA
Tuttavia la reazione delle banche creditrici è stata più forte di quello che gli autori del piano avevano messo in conto. La loro decisa opposizione al cambiamento del vertice Fiat, che ha ricevuto anche la solidarietà del governatore della Banca d'Italia Fazio, oltre che al fatto di appartenere da tempo a una galassia ostile a quella di Mediobanca, era dovuta ad altri due motivi fondamentali: il timore - perdendo i loro referenti Fresco e Galateri - di essere scavalcate e tagliate fuori dalle decisioni sul futuro del gruppo, e il timore che tramite la Toro, azionista di Capitalia per il 6,6%, a cui si aggiungerebbe il 2,8% già in mano alla Premafin di Ligresti, Mediobanca possa arrivare a controllare l'ex Banca di Roma presieduta da Geronzi. Di qui l'avversione di Geronzi e Fazio alla sostituzione di Fresco con Bondi.
Ne è risultato un duro braccio di ferro tra Umberto Agnelli e Mediobanca, da una parte, e Fresco e le quattro banche, dall'altra, che minacciavano di far saltare l'intero Consiglio di amministrazione se la proprietà avesse proceduto al cambiamento di vertice, il che avrebbe portato a gravi ripercussioni in Borsa, tanto che la Consob è intervenuta allarmata per sapere quale sarebbe stato esattamente l'ordine del giorno del nuovo Cda convocato per il 13 dicembre.
Alla fine, dopo l'accantonamento di Bondi e l'avanzamento di altri nomi alternativi, tra cui quelli di Montezemolo e Bernabé, le parti si accordano per un compromesso che sancisce una sorta di tregua armata: Fresco resta presidente fino alla scadenza naturale, cioé luglio 2003, in attesa di preparare con calma la sua successione e per garantire la continuità dei rapporti con la Gm che, non vedendo anch'essa di buon occhio la sua estromissione, si considera soddisfatta del compromesso raggiunto. Galateri si dimette da amministratore delegato, ma torna in Ifil, e al suo posto subentra Alessandro Barberis, che è un uomo interno alla Fiat. Umberto Agnelli fa però capire che alle banche creditrici, oltre l'onore spetterà anche l'onere della "vittoria", e cioè che toccherà a loro accollarsi la crisi finanziaria della Fiat, in quanto la proprietà non tirerà più fuori un soldo.
Mediobanca e il neoduce sono costretti a rinfoderare per il momento le unghie. Ma c'è da giurare che non rinunceranno al loro piano e faranno di tutto per ritirarlo fuori alla prossima occasione. Che non tarderà molto a ripresentarsi, dato che hanno il coltello (le leve del potere finanziario e politico) dalla parte del manico, e la questione del riassetto del capitalismo italiano, innescata dalla crisi della Fiat, è ormai sul tappeto e non può essere congelata all'infinito.