Per la prima volta dal '92
L'Italia è in recessione
Per l'Istat il Pil è a -0,1%. Cala la produzione industriale dell'1,7%

L'Italia è entrata ufficialmente in recessione economica. è quanto risulta dai dati pubblicati l'8 agosto dall'Istat relativi al primo semestre 2003. Si parla tecnicamente di recessione quando il Prodotto interno lordo di un paese (Pil) diminuisce per due trimestri consecutivi, ed è quanto è successo il primo e il secondo trimestre 2003, che hanno visto una riduzione dello 0,1% del Pil in entrambi i periodi.
Per attutire l'impatto negativo della notizia, appellandosi all'apparente esiguità dell'arretramento, l'Istat preferisce parlare di fase di "stagnazione'', anziché di recessione. Ma era dal 1992, l'anno della svalutazione della lira e delle maxistangate del governo Amato, che non si registrava un dato simile, e questo gli conferisce un valore ben più grave di quello che l'ente statistico di Stato ammette ufficialmente.
Anche perché ci sono altri dati che confermano, forse in modo ancor più eloquente della riduzione del Pil, la gravità della crisi recessiva in atto. Primi fra tutti quelli che rivelano il calo della produzione industriale, che nel primo semestre di quest'anno ha segnato un secco -1,7% rispetto allo stesso periodo del 2002. Ma se si considera il solo mese di maggio l'arretramento è stato drammatico, addirittura pari al 7%. La batosta appare ancor più dura se si osserva che il calo riguarda soprattutto i beni strumentali, la cui produzione è calata del 3,6%, più del doppio della media. Ma anche la produzione di beni di consumo non ne è uscita tanto meglio, essendo calata del 2,9%. E tra questi ultimi si registra un vero e proprio crollo tra i beni di consumo durevoli, che hanno segnato un secco -8,1%, contro il -1,5% dei beni non durevoli.
A fare le spese di questo vero e proprio tracollo dell'industria capitalista sono stati soprattutto i settori dei trasporti con un -10,9% (si pensi per esempio alla crisi della Fiat), l'elettronica (-10,1%) e la meccanica (-3,8%, ma a maggio il calo è stato del 9,4%!). Ma non se la sono cavata molto meglio i settori trainanti del made in Italy, come il tessile (-4,5%), il calzaturiero (-8%) e l'industria dell'arredamento (-3%). Quanto al resto, il settore alimentare e la chimica hanno registrato una sostanziale stagnazione, e solo il settore dell'energia, trainato dalla forte domanda dovuta all'eccezionale ondata di caldo, ha avuto un incremento di qualche rilievo.
Per quanto abbia cercato di minimizzarne il significato, questi dati rapprentano un duro colpo di immagine per il governo del neoduce Berlusconi e il suo ministro dell'Economia, Tremonti. Tra l'altro faranno quasi certamente saltare le sue già ridimensionate speranze di un tasso di crescita dello 0,8% a fine anno, su cui si basano le previsioni per il prossimo triennio del Dpef governativo. Già ora il tasso tendenziale annuo di crescita è sceso allo 0,3%, e bene che vada, secondo gli esperti, non arriverà oltre lo 0,4-0,6% a fine anno, ma a condizione che da qui ad allora si manifesti quella tanto sospirata "ripresa'' economica capitalista internazionale che ormai viene rimandata di anno in anno.
Una "ripresa'' che alla fine potrebbe rivelarsi un miraggio, poiché l'Italia non è l'unico paese dell'Occidente capitalista alle prese con la recessione, e presto potrebbe essere seguito da Francia e Germania, anch'essi in fase di ristagno economico, come del resto quasi tutta la Ue nel suo complesso. E questo segna tra l'altro un mezzo fallimento della linea di Maastricht, agganciandosi alla quale, secondo i suoi cantori, i singoli paesi europei avrebbero dovuto mettersi al riparo dalle tempeste economiche e finanziarie ricorrenti.
Quanto agli Usa, la "locomotiva'' che dovrebbe trainare questa "ripresa'', se la cavano un pò meglio solo grazie alla crescita abnorme della spesa militare, che però sta creando una voragine nei loro conti pubblici. Ma c'è di più: come ha ammesso anche lo stesso direttore generale di Confindustria, Stefano Parisi, supponendo che nel terzo trimestre del 2003 l'economia Usa ricominci a "tirare'' non è detto che l'Europa, e soprattutto l'Italia, la seguano automaticamente, poiché già ora il Pil Usa, sia pure in maniera drogata, sta crescendo tendenzialmente verso il 2,3%, mentre quello italiano è sostanzialmente pari a zero. Segno che, come molti analisti borghesi sostengono sempre più apertamente, nell'attuale crisi recessiva italiana c'è un carattere strutturale che va oltre la congiuntura internazionale.
Riallacciandosi agli allarmi di Fazio sul "declino della competitività'' dell'economia italiana nel mondo, lanciati nelle "Considerazioni conclusive'' all'ultima assemblea di Bankitalia, alcuni di questi analisti sottolineano infatti i dati Istat che confermano la tendenza negativa dell'interscambio commerciale con l'estero (+ 2,6 di importazioni contro il -2,1% di esportazioni nei primi cinque mesi dell'anno), e la parallela "perdita di competitività'' dell'industria italiana sia nei confronti dei paesi della Ue che del resto del mondo.
Quello che né Fazio, né Parisi, né gli economisti borghesi non dicono è come si spieghi tutto ciò nonostante che le imprese italiane stiano godendo del più lungo e massiccio periodo di sovvenzionamenti, privatizzazioni, agevolazioni fiscali e ristrutturazioni da molti decenni a questa parte, nonché di una deregolamentazione così estesa e selvaggia del mercato del lavoro da far dire al presidente di Confindustria D'Amato che "tutta l'Europa ce l'invidia''!
Evidentemente in questi anni, invece che in un aumento della "competitività'' in nome della quale vengono continuamente invocate, queste misure neoliberiste si sono tradotte in un puro e semplice aumento dei profitti immediati per i padroni, senza influire minimamente sulle tendenze recessive dell'economia capitalista italiana.
Eppure la ricetta proposta dal governo, dal padronato e dai loro economisti e pennivendoli è sempre la stessa: tagliare le pensioni, cancellare lo "Stato sociale'', detassare i profitti, liberalizzare ancora di più il mercato del lavoro: una spirale che finisce solo per concentrare sempre più la ricchezza in poche mani, deprimere i consumi e impoverire le masse, come si può constatare anche comparando i dati Istat di agosto sulla recessione con quelli di luglio sull'impoverimento delle famiglie. Senza per questo risolvere, anzi acuendo ulteriormente in questo modo le contraddizioni insanabili del capitalismo, che sono all'origine delle sue ricorrenti crisi recessive.