Critica alla proposta di Epifani
La "nuova politica dei redditi" non giova ai lavoratori
Nella riunione del direttivo nazionale Cgil, tenutasi il 16-17 febbraio scorsi, il segretario generale Guglielmo Epifani ha avanzato essenzialmente due proposte, poi raccolte e approvate nelle conclusioni a larga maggioranza: la prima di attualità, riguardante il confronto-scontro col governo sulla "riforma previdenziale", condivisibile e da appoggiare; la seconda sulla messa a punto della strategia sindacale per i prossimi mesi e anni che invece è da criticare e bocciare senza appello.
Andando per ordine, nel documento votato si legge: "Il Comitato Direttivo ribadisce il giudizio negativo sulla proposta del governo di modifica del sistema previdenziale... e dà mandato alla Segreteria per predisporre le necessarie risposte" di lotta da concordare con Cisl e Uil, ivi compreso lo sciopero generale. Un giudizio negativo questo che tiene presente le scelte conclusive del governo annunciate per l'incontro del 19 febbraio con i sindacati. E fin qui, niente da dire.
Sull'altra questione, nello stesso documento è scritto che la Cgil ritiene necessaria "per rispondere al declino del paese, una piattaforma sindacale autonoma" fondata, tra le altre cose, su "una nuova politica dei redditi".
Epifani dunque ripropone, sia pure in una nuova veste, quella "politica dei redditi" concertativa e castrante per la difesa degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori, contenuta nel famoso accordo del 23 luglio '93 che dati alla mano, in modo incontestabile, ha portato alla progressiva perdita di acquisto dei salari e delle pensioni e ha favorito i profitti capitalistici, modificando la distribuzione della ricchezza tra lavoro e capitale, privilegiando quest'ultimo.
Epifani ripropone la "politica dei redditi" in un momento in cui la necessità di forti e generalizzati aumenti salariali (come hanno messo in evidenza, per esempio, le vertenze contrattuali dei metalmeccanici e dei tranvieri) è diventata questione urgente e irrimandabile; nel momento in cui il governo del neoduce Berlusconi e la Confindustria di D'Amato da destra hanno fatto a pezzi la suddetta "politica dei redditi"; nello stesso momento in cui un sindacato di categoria importante come la Fiom l'ha giudicata fallimentare e non riproponibile, tanto da decidere di tenere un congresso straordinario per apportare le correzioni necessarie nella strategia e nella piattaforma rivendicativa.
Non a caso nel documento del Comitato centrale Fiom del 29-30 gennaio 2004 si poteva leggere che: "lo schema del 23 luglio e della politica dei redditi è stato superato dall'iniziativa del Governo e Confindustria e ha assunto la caratteristica della programmazione della riduzione del potere d'acquisto... Non è ripetibile - continuava - questo sistema in una situazione totalmente diversa e dunque è necessario andare oltre il punto di approdo dell'ultimo Congresso".
La cronaca dei lavori del direttivo segnala un tentativo fallito di Rinaldini (segretario Fiom) di emendare il documento conclusivo, chiedendo di esplicitare la volontà della Cgil a rilanciare una politica di aumenti salariali. Non si comprende allora come i dirigenti dell'area "Lavoro Società", salvo Cremaschi, abbiano potuto astenersi invece di votare contro, come hanno fatto Danini e Baldini dell'area "Eccoci".
Su queste conclusioni del direttivo della Cgil pesano le pressioni della destra "riformista" capeggiata da Panzeri, Mengale e Nencini che, da tempo, lavora per spostare a destra la linea della Confederazione. Su una questione di strategia sindacale, così centrale, "non si può avere un atteggiamento neutrale - dice significativamente Agostino Mengale - perché nella difesa e nel rilancio della politica dei redditi e degli accordi del 23 luglio si gioca il profilo del sindacato nei prossimi anni". Conclusioni che, fatalmente, condizioneranno non poco l'Assemblea programmatica che la Confederazione ha fissato per i primi di aprile.
Costoro, ma anche Epifani, per quanto lo neghino e parlino ad ogni piè sospinto di autonomia sindacale, in realtà operano di concerto con quanto sta avvenendo nell'Ulivo (la lista unica, il futuro partito riformista, ecc.), si stanno preparando, elezioni permettendo, a un possibile governo di "centro-sinistra" che richiede, secondo loro, una Cgil disponibile a riprendere il cammino con Cisl e Uil, nell'ottica del "sindacato unitario" della seconda repubblica, integrato e istituzionalizzato.
Nei confronti della "politica dei redditi" noi marxisti-leninisti nutriamo un'avversità che non è solo di tipo sindacale, ma politica e di principio. La natura di questa politica salariale è riformista e borghese, di stampo liberale o socialdemocratico. In Italia nel dopoguerra e finché è stato vivo la sosteneva il repubblicano Ugo La Malfa. Essa nega la natura antagonista degli interessi tra capitalisti e operai, nega loro la possibilità di lottare contro lo sfruttamento e la sua abolizione attraverso la conquista del socialismo, li condanna insomma, alla perenne schiavitù salariata.
La "politica dei redditi" e quindi la concertazione e il "patto sociale" che ne derivano con il governo e il padronato, così come l'accettazione delle compatibilità economiche capitalistiche e del salario come "variabile non indipendente" di cui sono parte integrante, non giovano alla classe operaia: né sul piano strettamente sindacale né sul piano politico generale.
25 marzo 2004