La Cgil non lo firma
IL "PATTO PER IL LAVORO" DI MILANO LIBERALIZZA IL "MERCATO DEL LAVORO"

Dopo il preaccordo siglato lo scorso luglio Cisl e Uil, Comune di Milano e Assolombarda hanno firmato ufficialmente il 2 febbraio il famigerato "patto per il lavoro" proposto dalla giunta neofascista Albertini. E come la scorsa estate la Cgil si è dissociata dalle altre due confederazioni, decidendo di non firmare il patto al termine di un'estenuante trattativa notturna a Palazzo Marino.
Il "patto per il lavoro" elaborato dall'assessore al personale Magri, spacciato per un progetto volto a promuovere l'occupazione a Milano, si propone in realtà di introdurre e legalizzare quote aggiuntive di "flessibilità" nel "mercato del lavoro", attraverso contratti a termine e retribuzioni ridotte in deroga ai contratti nazionali, per alcune fasce di popolazione in cerca di lavoro come immigrati, ultraquarantenni espulsi dai processi di ristrutturazione, disabili e disoccupati di lunga durata.
I settori in cui si comincerà a sperimentare il patto, secondo l'elenco che Magri ha fatto alla stampa, riguardano l'assistenza domiciliare agli anziani, il controllo della sosta a pagamento, la pulizia della città e dei muri dai "graffiti", i cosiddetti "custodi di strada", la manutenzione del verde pubblico, l'installazione delle lampade votive, e anche l'inserimento in piccole imprese artigiane: 986 posti in tutto, che verranno assegnati da marzo alla fine dell'anno. Ma è evidente che l'obiettivo è di allargare gradualmente tale sistema all'intero "mercato del lavoro".
Si comincia infatti con un periodo di "prova" del patto di quattro anni, da rinnovare sei mesi prima della scadenza attraverso una "verifica" e una nuova intesa tra le parti. Intanto sarà creata una commissione di "concertazione" composta da rappresentanti di Comune e Provincia e dalle associazioni firmatarie del patto, e uno "sportello unico" gestito dal Comune e Provincia di concerto con la Questura e la Direzione provinciale del lavoro. I contratti saranno di tipo formazione-lavoro a scadenza biennale. La formazione verrà affidata a soggetti pubblici o "privati accreditati", con "forme di autofinanziamento, cofinanziamento o finanziamento da parte di terzi". Le imprese private assegnatarie di appalti pubblici potranno utilizzare questo tipo di mano d'opera, applicando le normative previste dall'intesa "Milano lavoro". Le retribuzioni saranno "commisurate alle prestazioni", vale a dire sganciate dai contratti collettivi.
è chiaro quindi che il "patto per il lavoro" è uno strumento che, sfruttando la fame di lavoro che c'è in questa città, dopo la deindustrializzazione che ha desertificato le ex cittadelle operaie, mira a liberalizzare il "mercato del lavoro", creando una categoria di lavoratori di serie B, precari, sottopagati e non tutelati sindacalmente, da utilizzare in concorrenza con i lavoratori stabili delle municipalizzate e delle imprese private.
è lo stesso obiettivo, per un'altra via, che si proponevano i referendum radicali, sponsorizzati da Confindustria, ma bocciati dalla Corte costituzionale, che chiedevano di liberalizzare il lavoro a domicilio e i contratti a termine. Non a caso il "patto per il lavoro" di Milano è stato salutato entusiasticamente dall'esponente della lista Bonino, Benedetto Della Vedova, come un atto che "ha il grande pregio di rompere il tabù della riforma del mercato del lavoro, muovendo nella direzione indicata dai nostri referendum economici".
Gravissima è la posizione di Cisl e Uil, che hanno firmato il patto esaltandolo come una conquista del sindacato e dei lavoratori, mentre in realtà si sono resi complici di una manovra ideata dalla giunta neofascista Albertini in combutta con l'Assolombarda per accelerare la liberalizzazione del "mercato del lavoro" e dare un colpo demolitore alla contrattazione collettiva nazionale.
A fronte di ciò va registrata la dissociazione della Cgil, che non ha voluto firmare il patto, ma sulla coerenza della quale tuttavia non c'è da giurare.
Infatti Cofferati ha definito la firma del patto "un atto di rottura grave", ma in cosa si differenzia poi, nella sostanza, la sua linea nazionale sulla "flessibilità", da quella di D'Antoni e Larizza? E che credibilità può avere chi le stesse cose che rifiuta a Milano le concede poi sotto altra forma a Napoli o a Bologna, e firma assieme ai padroni per l'estensione del lavoro interinale all'edilizia, all'agricoltura e a tutti i lavori a bassa qualifica?
Tra l'altro anche l'opposizione dei vertici della Cgil milanese e lombarda al patto Albertini non è priva di ambiguità e opportunismo: infatti non solo la Camera del Lavoro di Milano ha partecipato alle trattative, ma la rottura non è avvenuta tanto sulla natura e gli obiettivi antioperai e antisindacali del patto Albertini, quanto sulla singola questione della cosiddetta "causale soggettiva", cioè a discrezione delle aziende, per le assunzioni a termine: la Cgil chiedeva di mantenere la "causale oggettiva"(picchi produttivi straordinari, sostituzione di personale), o quantomeno di fissare dei limiti per le assunzioni a termine "soggettive". Ma non si opponeva in toto ad esse.
Sta di fatto che la rottura è avvenuta, e ora bisogna pretendere coerenza dalla Cgil, che deve fare la sua parte per mobilitare i lavoratori contro il "patto per il lavoro" corporativo e neofascista di Albertini. Ma su questo non c'è da farsi illusioni, anche perché per essere coerente dovrebbe invertire di 180 gradi la sua linea cogestionaria sulla "flessibilità" del lavoro.