La ribellione, per impedire la privatizzazione e l'esportazione del gas, è durata 32 giorni ed è costata oltre 85 morti e centinaia di feriti e arrestati
La rivolta popolare butta giù il presidente reazionario della Bolivia
Il boia De Lozada fugge in aereo negli Usa. Il suo successore Mesa annuncia le elezioni anticipate e un referendum sul gas
La sera del 17 ottobre il presidente boliviano Gonzalo Sanchez de Lozada consegnava la lettera di dimissioni al presidente del senato e poco dopo fuggiva in aereo alla volta degli Stati Uniti. Nella centrale piazza San Francisco della capitale La Paz migliaia di dimostranti festeggiavano, gridando "sì, si può", la vittoria della rivolta popolare che aveva buttato giù il presidente reazionario e sconfitto la sua politica liberista asservita agli interessi delle multinazionali e dell'imperialismo. Una vittoria importante, che in America Latina fa seguito a quella del popolo argentino che nel 2001 aveva costretto alle dimissioni il presidente De La Rua, a conferma che è possibile buttare giù i presidenti reazionari con la lotta di piazza, con la larga mobilitazione delle masse popolari.
La rivolta era iniziata il 15 settembre con le proteste e il blocco di un'autostrada da parte dei contadini indigeni contro il progetto di privatizzazione del gas e l'esportazione a prezzi stracciati verso il Messico e gli Usa; proseguita dai lavoratori con lo sciopero generale a oltranza e con le manifestazioni, indette dalle organizzazioni sindacali, degli indios e dei partiti di opposizione duramente represse dall'esercito. Gli oltre 80 morti e le centinaia di feriti e arrestati non hanno bloccato la crescente rivolta popolare che dopo 32 giorni ha costretto alla fuga De Lozada. Al suo posto, con l'incarico ad interim, il parlamento ha eletto l'ex vicepresidente Carlos Mesa che ha promesso un referendum "vincolante" sul progetto di privatizzazione del gas e di convocare elezioni anticipate.
La rivolta popolare era scoppiata un mese fa quando Sanchez se Lozada, proprietario delle più grandi miniere del Paese ed eletto alla presidenza della Repubblica nel 2000 con elezioni segnate da brogli, annunciava il nuovo piano governativo che metteva nelle mani delle compagnie petrolifere straniere l'intero processo produttivo del petrolio e del gas. Alla privatizzazione del gas, che è una delle principali risorse del paese tanto che la Bolivia ne è il paese più ricco dell'America Latina dopo il Venezuela, faceva seguito la decisione di esportarlo verso il Cile, con destinazione finale Messico e Usa, a prezzi di vendita stracciati: in accordo con le multinazionali che si occupano dell'estrazione, del trasporto e della commercializzazione del gas, il prezzo pattuito era di 0,7 dollari ogni mille piedi cubici contro un prezzo di mercato di circa 1,3 dollari. Un affare colossale a beneficio soprattutto dell'inglese British Oil e della spagnola Repsol che ha già forti tentacoli nella vicina Argentina. Una beffa per le masse popolari boliviane: il paese è uno dei più poveri dell'America Latina con il 75 % della popolazione sotto la soglia di indigenza e bassissimi indici di occupazione.
La privatizzazione del gas era già iniziata nel 1997 con la decisione del governo boliviano di cedere la proprietà statale degli idrocarburi. Una modifica che per le compagnie straniere voleva dire risparmiare oltre la metà dei 350 milioni di dollari all'anno che allora versavano nelle casse statali. Fra le benificiate della svendita del patrimonio nazionale vi è anche l'americana Enron che a colpi di mazzette si era aggiudicata la costruzione e la gestione di un gasdotto verso il Brasile. Il gasdotto passa in mezzo alla foresta di Chiquitano, l'ultima grande foresta tropicale secca del mondo, la cui costruzione terminata nel 2002 è stata invano contrastata dalle popolazioni indios della regione.
L'ulteriore svendita delle risorse naturali decisa dal presidente De Lozada spingeva alla protesta i contadini indios e i minatori che iniziavano i blocchi stradali in varie parti del paese. Il sindacato Cob lanciava lo sciopero generale a oltranza contro il progetto governativo; ai minatori si univano immediatamente gli insegnanti e i lavoratori dei trasporti. La crescita della protesta paralizzava il paese mentre nella capitale La Paz l'esercito attaccava i manifestanti.
La protesta è forte a Cochabamba, la città simbolo della rivolta popolare che nel 2000 sconfisse il progetto di privatizzazione dell'acqua decisa dal governo. E a El Alto, la baraccopoli cresciuta alla periferia della capitale, che l'esercito mette sotto assedio per impedire manifestazioni verso il vicino aeroporto internazionale. La popolazione scende nel centro della capitale e si scontra con le truppe che sparano per disperderla; i morti tra i dimostranti sono già diverse decine. La Paz è difesa dai carri armati dell'esercito, la guardia presidenziale e i reparti speciali presidiano le strade dato che il governo non si fida della polizia dopo che nel corso delle proteste popolari del febbraio scorso diversi reparti avevano solidarizzato coi manifestanti.
Il 13 ottobre il presidente annunciava la sospensione del piano per l'esportazione del gas ma la rivolta popolare cresceva; l'obiettivo era la cacciata del presidente e nuove elezioni.
A fianco del reazionario De Lozada si schieravano i padrini americani: il portavoce del dipartimento di Stato, Richard Boucher garantiva che gli Usa "appoggiano il presidente della Bolivia democraticamente eletto e i suoi sforzi per costruire un futuro più giusto e più prospero per i suoi concittadini". Per l'ambasciata di Washington a La Paz "questo governo non deve essere sostituito da uno imposto con la violenza delinquenziale". La Ue taceva.
Il 14 ottobre l'esercito sparava sulle carovane di mezzi dei minatori che da ogni parte del paese convergevano sulla capitale ma non li fermava; verso La Paz erano in viaggio anche gli indios che avevano lanciato un appello per continuare la mobilitazione per la cacciata del presidente.
Il 16 ottobre il governo annunciava la proclamazione di un referendum per definire la politica di esportazione del gas dal Paese e si diceva disponibile a discutere di elezioni per un'assemblea costituente ma la rivolta continuava con forza nonostante gli oltre 85 morti e le centinaia di feriti e arrestati.
La mattina del 17 ottobre arrivavano nella capitale migliaia di minatori dalla regione di Oruro a rinforzare la protesta e a ribadire con forza la richiesta di dimissioni del presidente. Alcuni ministri si dimettevano mentre il vicepresidente Carlos Mesa si preparava al passo successivo con l'abbandono del partito del presidente e una presa di distanza dalla violenta repressione militare.
A Sanchez de Lozada non restava che rassegnare le dimissioni, fuggire e trovare rifugio negli Usa. Il parlamento a tambur battente nominava ad interim l'ex vicepresidente Mesa che prometteva il referendum e le elezioni, anche se faceva capire che intendeva restare nella carica fino alla scadenza naturale del mandato nel 2007. Riceverà una mano dall'imperialismo americano che prometteva assistenza al governo "impegnato nel compito essenziale di rimettere ordine nelle istituzioni nazionali" travolte dalla rivolta popolare.
I sindacati e le organizzazioni contadine dettavano le loro condizioni al nuovo governo e ne chiedevano il rispetto; la rivolta aveva raggiunto solo il primo degli obiettivi.