Luigi Ballerini, Osservazioni sull'Autoantologia di Giancarlo Majorino (“Studi novecenteschi - rivista semestrale di storia della letteratura italiana contemporanea”, XXVII, numero 60, dicembre 2000)

 

Dell'incenso, che insieme all'oro e alla mirra, secondo che si legge nei Vangeli, i re Magi recarono Gesù, dev'essersi fatto carico Melchiorre. In un formidabile verso di Giancarlo Majorino che compare alla pagina 181 della sua Autoantologia (Garzanti, settembre 1999), il nome proprio, sapientemente convertito in aggettivo, fa coppia, invece che con incenso, con "buonsenso". L'intera frase recita come segue: "...doglie/ di conoscenza senza/ il melchiorre buonsenso o aridità/ sino a fiumane permanenti, un occhio/ che scende e sale come l'ascensore/ e teratologìa di sosia,..."

La funzione aggettivale affibbiata a "melchiorre" non consente di discuterne come se si trattasse di un semplice caso di antomasia. Sarebbe tuttavia assurdo volgere le spalle all'invito di fare del significante "melchiorre" (con la minuscola oltretutto) un esempio preclaro, se non proprio universale, del portatore di doni. Ogni lasciata è persa, naturalmente; e anche questa perdita sarebbe grave. Ma qui urge piuttosto insistere sul verdetto di una rima che tanto più è forte e ossessionante quanto meno visibile è, sulla pagina, la sua manifestazione fisica. Grazie infatti alla presenza, per altro non ancora decifrata, di "melchiorre", "buonsenso" non può che rimanere con "incenso, e anzi, visto che in carne e ossa questa parola nel testo non compare, con la sua traccia fantasmatica, con l'eco, in buona sostanza, di un fatto linguistico che dovrebbe esserci, e che agisce invece tramite la propria assenza.

All'elenco delle rime che la pratica della poesia ha consentito di compilare (siciliane, baciate, alternate, lasse monorime, ecc.) dovremmo dunque aggiungere anche questa rima insidiosa e impropria, questa rima contumace, o aspettativa di rima, taciuta e irrinunciabile al tempo stesso (perché innestata su di un episodio neotestamentario che tutti hanno in testa da sempre) che ci mette di fronte a una domanda conturbante: che rapporto può mai esserci tra il buonsenso e l'atto, il mestiere di donare?

Al di là di ogni considerazione intorno all'idea di affidare a ogni parte del discorso il compito di accrescere l'area semantica del termine cui si collega e che, nel caso in questione, rende superflua ogni menzione d'incenso (già contenuta in "melchiorre"), occorre adesso valutare la profondità e la novità degli effetti prodotti dall'elemento rimosso, collegando le sue sotterranee istigazioni al contesto di superficie, una regione dove oltre al già esibito "buonsenso", troviamo sintagmi di non trascurabile pregnanza, quali, a monte, "doglie di conoscenza" e, a valle, "fiumane permanenti", "occhio che scende e sale come un ascensore" e, infine, la clausola "teratologia di sosia".

Ora, se il percorso conoscitivo indicato dall'autore viene descritto con una locuzione (doglie) che tira naturalmente in ballo la nascita -e l'equazione parto/dolore si applica a qualsiasi tipo di nascita sia corporale sia metaforica- e se, in aggiunta, tale percorso deve durare fino a vestirsi delle connotazioni fluviali di una permanenza che, a sua volta, non è meno irrequieta di uno sguardo impegnato in un suo verticale andirivieni (occhio uguale ascensore), allora acquista un senso ben preciso anche la straordinaria idea di coniugare teratologia e sosia, un binomio nel quale le caratteristiche del mostruoso e del geneticamente incurabile, inerenti al primo termine, si travasano sulla nozione di duplicazione (e dunque di possibile sostituzione) inerenti al secondo.

Il gioco, a questo punto, non è certamente scoperto, ma si è fatto in qualche modo più plausibile e invitante: in un punto della rete fono-stilistica si è prodotto uno strappo, un buco, a partire dal quale il reale si rivela come la fermentazione di una materia inestensa, , una corrispondenza di eventi irripetibili, associabili forse ma non sovrapponibili, non confondibili, non schiacciabili l'uno sull'altro, e dove, dunque, il nemico da battere è la forzosa illusione che il sapere coincida con la messa in opera di un'informazione controllabile per mezzo di sempre più raffinate tassonomie. Alle occasioni dell'equivalenza e dell'affinità, la poesia sostituisce la problematica dell'incalzare, alla similitudine la metafora, intesa nel suo senso etimologico di altrove, alla pacata logica della legge la fuorviante astuzia del viaggio.

Emblema non più di una funzione sacerdotale, di un desiderio di elevazione, ma illustrazione di un pernicioso abbassamento energico del linguaggio e delle retoriche funzionalistiche con cui, da più parti, si cerca di controllarlo, l'incenso è appannaggio del buon senso, plauso e trastullo di chi, per essere, deve fare mostra di possedere risultati chiusi in ineccepibili premesse (per poi magari fingere di pentirsene, pubblicamente, a intervalli regolari). Alla consuetudine dell'aver ragione, per logica o per sopruso, si oppone infatti l'esperienza primaria del linguaggio la quale, da che mondo è mondo, è poetica innanzitutto, e cioè espressione di ciò che sta sotto, di un luogo inferico e inconoscibile. In questo senso la poesia non è mai raggiungibile, ma solo avvicinabile.

Majorino lo dice chiaro e tondo (a pag. 151): "La salumosa carne che congiunta/ rabbrividiva ora fuggitiva fuggitiva/ non sostituita, tenera, dall'aria" dove si assiste, tra l'altro, a un secondo e ugualmente impeccabile scambio di funzioni predicative: l'aggettivo contiene il verbo, ovvero l'azione è implicita nella condizione. Anche qui, infatti, fuggiva, che sarebbe stato facilmente pronosticabile viene respinto nel recinto delle assenze; gli si consente tuttavia di farsi evocare, e dunque, in ultima analisi di essere tuttavia presente, sia pure sotto mentite spoglie, in un elemento foneticamente o morfologicamente congruo, ma sintatticamente irrispettoso (fuggitiva).

Suono e senso costituiscono un unico andirivieni: sarebbe scomodo, oltre che, con ogni probabilità, poco interessante, tentare di fissare il primato dell'uno sull'altro. Si tratta sempre, o quasi sempre, di una convergenza all'interno di un estroso carosello prospettico, di un distendersi e verticalizzarsi degli oggetti: l'effetto del disegnare, del riferire, scatta solo in presenza dell'inatteso, di un'epifania, in una parola, di un affetto. Fanno parte di questa "intenzione" le frequenti aferesi lombarde (vedi, per esempio, in "Ma, i prigionieri", i "riflussi/ disperati, negati/ e rotondati di persecutori" e i "bimbi dormentati". E ne fa soprattutto parte la mistura di rima e di cadenza, di metrica saltuaria, un po' dattilica, un po' trocaica e un po' spondaica, che Majorino "dissemina" con disinvoltura nei suoi versi, ottenendone, oltretutto, un più efficace legame discorsivo. Come si può, ancora a mo' di esempio, rilevare dall'incipit dello stesso testo (a pag. 182) "parlano, i prigionieri?/ (...)dal dòlce nido uscire?/ dal pòco concreato? Grosso e già vecchio uccello/ abituato..."

Le predilezioni agglutinative che qui, e altrove, innervano lo stile di Majorino, non danno mai luogo a scarti stridenti (e lo stridere, dove proprio lo si volesse trovare, è allegro e passeggero) perché introducono a sorprese semantiche accessibili ed esaltanti. (Non si trovano certo in Majorino esempi di quella sintassi pseudo-lacunosa, ma in realtà immediatamente riempibile, di quei poeti, intimisti malgrado tutto, che scambiano la propria pigrizia narrativa con l'istituto dell'appunto di viaggio o della cartolina paratattica).

Un altro esempio altamente significativo di questo funambolismo semantico -con finalità alloglottica, e dunque di bene comune, non di camuffamento di un io presentato come conosciuto da parte di chi scrive- lo troviamo, sempre a pag. 151, nel verso (ripetuto due volte): "Potresti scomparire sei comparsa", leggibile forse, in prima battuta, come controcanto del primo verso dei Mottetti montaliani ("Lo sai debbo riperderti e non posso"). Ma basta ascoltare in profondo l'enfasi nella scansione -quella cesura così forte che non ha bisogno né di punteggiatura né di copula- per rendersi conto che, al di là del contesto erotico in cui è incastonato, il senso della frase si è trasvalutato in emblema conoscitivo, il che, mi pare, non è il caso di Montale: la scomparsa della manifestazione epicentrica -che le due saldature, tipicamente e irresistibilmente majoriniane, del verso successivo ("tantopiena, cosìfrutto") rendono particolarmente corposa, conduce, al contrario della lamentazione elegiaca, a una regolare e non affannata frequentazione dell'inconscio, al necessario e tremante ipocentro della scrittura.

Tra i nomi che solitamente si fanno per inquadrare la poesia di Majorino: Brecht, Celan, Cummings, Elouard, Eliot (ma quest'ultimo, francamente, non riesco a capire il perché), manca quello di Wallace Stevens. Lo aggiungo qui, timidamente, non per dimostrare a tutti i costi una loro perfuntoria colleganza ideologica, ma per suggerire che le tensioni stilistiche di cui abbiamo dato qualche esempio nei paragrafi precedenti, non siano fenomeni idiosincratici , e che la rubrica della sprezzatura stilistica e metrica sotto cui si iscrivono, è in realtà l'unica credibile garanzia di testimonianza storica cui l'umanità possa attingere, al di là di qualsiasi determinazione socio-culturale: testimonianza non di fatti, ma della fuggevole ipotesi che li precede, e la cui espressione deve necessariamente affidarsi a un linguaggio altro, e cioè anteriore, rispetto a quello dei fatti stessi.

E' notoria, di Stevens, la locuzione "The the" che chiude "The Man on the Dump" e che il poeta americano offre come risposta alla domanda "where was it one first heard of the truth?". L'iterazione di "the" -ma il secondo, molto plausibilmente, ha funzione nominale- fa vibrare le corde di quella che Manganelli, all'inizio dell'Hilarotragedia, ha chiamato la natura discenditiva dell'essere umano, quell'askesis alla rovescia, quell'esercizio, appunto, del cercarsi sempre in un inizio introvabile (da un lato è sempre già iniziato e, dall'altro è, comunque, esterno a qualsiasi concomitanza). "Il il", "lo il", induce a ciò che è vero e non necessariamente verificabile, e si serve della domanda maliziosa "dov'è stato che uno ne ha sentito parlare per la prima volta di questa verità?" per proporre non un'esitazione, un balbettio crepuscolare, ma uno scardinamento di premesse che non lascia intatto neppure quel primissimo accenno di discorso costituito, appunto, dall'articolo de-terminativo.

Per quanto riguarda questo affidamento della significazione alle componenti basse, alle fasce aurorali del linguaggio, in un tempo e nei modi di una volontà di dire prima che tutti i giochi siano fatti, dalla miniera Majorino potremo estrarre più di una pietra preziosa.

Si veda, alla pagina 167, "il sottinteso potente nostr'uso di trattative", dove sono a fior di pelle, almeno, "mostruoso" e "sopruso"; o il "ripeti gesti liberi tamburo/ (...) tamtamburo motoso tamtamburo" di pagina 197, dove il demone scansivo, promuovendo l'aggancio di tamburo e mota e la loro imprevedibile associazione con gesti liberi consente al senso di ribollire "icasticamente" nella sede fonetica che gli è vistosamente naturale.

Diffuso ovunque con maggiore o minore insistenza, c'è alle pagine 240-241 dell'Autoantologia un testo in cui l'apparente perdita di senso di cui darebbe testimonianza questa immersione nella materialità del linguaggio, si rivela, forse più acutamente che altrove, come unica, o rarissima occasione di discorso autonomo, o quanto meno capace di distrarsi e disincagliarsi dai modelli (pochi e ripetitivi) messi frettolosamente in vendita dal regime linguistico prevalente, e sostenuto da un lato dalla prepotenza uniformante dei mezzi di comunicazione e dall'altro dalla debolezza delle alternative. Per interposta persona, e cioè citando le parole dello scomparso amico Cesarano, il cui nome fa da titolo alla poesia, anche Majorino si chiede: "che cosa temono ormai di perdere gli uomini/ dopo che la perdita (...) si è insinuata in ogni loro momento/ come contenuto reale di ogni scambio?". La risposta, chiara e godibile, non è tuttavia condensabile in una formula, in un paradigma, per quanto spericolato lo si voglia immaginare. E' tuttavia un sollecito e accurato ragionamento intorno al connubio di perdita e di materialità. Quando si svaluta ciò che è dicibile perché è nel codice, e quando l'urgenza del dire travalica l'attesa stessa delle sue modalità, il senso dell'espressione non può cercarsi che in una attivazione inedita del significante o in una sua creazione ex novo. Legato, a volte, a un riconoscibile riferimento, o, altre volte, a una realtà evitata, si tratta comunque di un ragionamento dentro il linguaggio quello che Majorino propone, sotto la specie di un "sole come forse nel nord/ europeo spesso scoppia tiepido soltanto al di qua del vetro". Ragionamento, dunque, per sona e per immagine, confronto e reciproca alimentazione di "scoppia" e "tiepido", termini divaricanti nel linguaggio ordinario, e che qui producono, invece, quel salutare effetto di straniamento senza del quale sarebbe impossibile accogliere come eccezionale l'allegoria della lettura (delle parole dell'amico) definita appunto come giorno di sole nordico... "al di qua del vetro".

Ulteriore significato derivano i termini dal battito anche qui misto di trochei (spesso, scoppia) e dattili (tiepido) che li accelera e frantuma ("così ogni tanto salto qualche parola mi fissano").

E', ancora, un ragionamento che scrive "le cose come stanno", perché nella freschezza del presente, che è il miracolo di cui la vera poesia è capace, le cose per stare devono anche fuggire, affinché i segni instaurino con esse e tra di loro un rapporto instabile e incalzante che consenta sempre, a chi ne ausculti il respiro, di farli rinvenire, come fiori che fossero per avventura sul punto di appassire.

C'è dunque in siffatto ragionamento un'azione linguistica che non sottomette la ragione della parola alla ragione della cosa, e distingue nitidamente la meccanicità del ripetere (che non frequenta) dalla duttilità dell'insistere (che frequenta invece, e fin dalle prime pagine) per evocare con ironia una scena, per cogliere un sapore desolato: "... che ore saranno? - / (...) /le ore di ieri -si ride/ si ride si ride- a quest'ora").

Ma il richiamo alla memoria, anche quando è dichiarato, non esaurisce mai la scrittura poetica di Majorino nella quale è invece pervicace l'ascolto esplosivo delle parole. Parafrasando la Gertrude Stein di Poesia e grammatica, non pare illogico affermare che la sua poesia sia fatta delle cose che capitano attraverso la scrittura e delle cose che costituiscono la scrittura mentre la si sta scrivendo.: non un ricordo confezionato per il consumo, ma un presente inesauribile, una verità storica iscritta in un soggetto statisticamente inaffidabile e refrattario ai vincoli programmatici della deduzione formale, ma sommamente abile nel fare del proprio idioletto spirituale ed etico la voce di una coscienza. In questo senso e nel pieno senso della parola, Majorino deve dirsi un classico, un autore il cui stile ha valore di istituzione. Tanto il suo lessico quanto la sua topologia figurale sono ormai patrimonio espressivo di una società, di un'ecclesia che, per non essere moltitudine, non è per questo meno autorevole nel porsi come luogo di resistenza a quel depauperamento del significare che è anche schiavitù politica. Majorino è, infine, classico, perché il suo testo non batte ciglio neppure davanti agli scherzi che il linguaggio gli gioca sia sul versante delle articolazioni "smangiate" (come, un po' dovunque i fortemente accentuati "sta" e "sto" in luogo dei più distesi dimostrativi "questo", "questa") sia sul quello delle scelte lessicali e del coordinamento grammaticale in cui è programmaticamente forte la matrice regionale (a pag. 212, per esempio, "t'hanno ciulato palloncino,/ era un po' che scendevi").

Ciò rafforza, tra l'altro, la qualifica di classicità testè avanzata, poiché consente di specificare che la necessaria e necessitante recepibilità universale di un classico non dipende da un'assunzione equilibrante di minimi comuni denominatori stilistici ma può tranquillamente tollerare, quando non addirittura coltivare, solecismi e contesti persino parrocchiali, come, per restare all nostra tradizione più recente insegnano Gadda o Delfini e, in generale, quegli scrittori che segnano sì la pagina ma non la soffocano progettualmente.

Se ho finora fatto riferimento alle pagine dell'Autoantologia senza indicare da quali raccolte individuali siano stati desunti i testi che la compongono, è perché mi pare che il volume vada gustato nella sua interezza, come un nuovo unicum, un'epica frammentaria -dopo Pound, e ancora ai nostri giorni, non potrebbe essere altrimenti-, piuttosto che come una campionatura, un deposito esemplare, una ripresa di testi già collaudati e richiamati alla ribalta per il bis.

Credo, infatti, che solo in un succedersi e concatenarsi di tessere stilistiche, ora condensate ora rarefatte, ma tutte partecipi di una nuova tensione -quella che il compilatore stesso conosce solo nell'atto di comporre il suo legame musaico- possa, un lettore mediamente attrezzato e "interattivo", cogliere il valore testimoniale dell'opera che gli sta davanti. E nell'Autoantologia c'è la storia insaziabile, l'assillo del dire, e del dire a tutti i costi, di un mondo che va ripetendo di non avere più niente da dire. Mi consenta dunque, Majorino, di dubitare dell'idea che gli viene attribuita in un'intervista su Il Giorno del 28 ottobre, 1999 (le poesie sarebbero solo "precipitazioni, strappi violenti e poi sei lì che batti i denti...") e dell'invidia che dice di provare per i grandi romanzieri cui sarebbero concessi ordito e tessitura, poteri sinfonici dunque, a tutto raggio.

Sarà anche vero ma allora, le poesie, guai a metterle insieme! Chi ha scritto che "deve esistere un oltre il necessario/ che non siano cose" (vedi p.283), sa certamente che la testimonianza degli avvenimenti palesi, offertaci da quelli che hanno i titoli per spiegare le alternanze del sì e del no, dei contrari che sono uguali e che si toccano, lascia alla fine il tempo che trova. E se ci sono casi rarissimi in cui ciò non avviene è perché il narratore è soprattutto poeta (e batte dunque i denti) al di là delle concessioni che il genere cui si è affidato gli impone. E' pertanto dalle pagine nervose e frammentarie di quest'Autoantologia, piuttosto che da quelle inerti di non so quanta narrativa, che la civiltà del nostro tempo può ricevere impulso a restare nella memoria e nel cuore degli uomini, alla stessa stregua e con lo stesso rilievo emotivo e cognitivo che a quella civiltà potrebbe ipoteticamente conferire un'autoantologia di immagini "sottratte" agli automatismi e alle ripetizioni della realtà da uno sguardo irriverente: magari quello di Federico Fellini. Credo che un tale "compagno di strada" non esiterebbe ad accogliere come proprio il testo che incomincia a pag. 337 con: "andavamo tutti come fosse un'emigrazione/ chi per acqua, chi per terra allarmati/ notammo che un leone ci oltrepassava/ ma era come quando nella tundra incendiata/ fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi", e termina, alla pagina successiva, con "abbandonando non si sa che male".

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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