Maurizio Cucchi, “Lotte secondarie” di Giancarlo Majorino ("Poesia", maggio 1990)

 

La complessità e la vitalità della sperimentazione, nella nostra poesia degli anni Sessanta, non è attestata soltanto dall'esperienza della neoavanguardia, dai poeti compresi nell'antologia I Novissimi (Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta, Sanguineti). Si potrebbe dire, anzi, che gran parte della poesia di quel periodo presenta un forte carattere sperimentale. Perciò, ai nomi dei poeti della neoavanguardia si dovrebbero aggiungere, quanto meno, quelli di Amelia Rosselli e di Andrea Zanzotto, ma anche quelli di altri autori, più o meno della stessa generazione di Novissimi, che proprio tra il '65 e il '68 venivano pubblicando opere importanti. Una tensione sperimentale (benché, s'intende, in un senso del tutto particolare) attraversava -con sorpresa per molti- anche Gli strumenti umani di Vittorio Sereni, e passava per La vita in versi di Giovanni Giudici: due libri pubblicati nel '65.

Ed è certo netta in opere di autori allora appena oltre l'esordio. Ricordo che nel '66 (oltre al Manuale di poesia sperimentale, antologia a cura di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani) usciva Le case della Vetra di Giovanni Raboni, nel '67 La tartaruga di Jastov di Giorgio Cesarano e Lotte secondarie di Giancarlo Majorino, e in quegli anni, sulla rivista "Il corpo" diretta dallo stesso Majorino, pubblicava i suoi primi versi Giampiero Neri; del '68 è La talpa imperfetta di Tiziano Rossi. In quest'area, lombarda secondo una nozione nuova e al tempo stesso più antica del termine, si muoveva, accompagnata da riflessioni teoriche e riletture di autori del primo Novecento (si vedano le "Questioni di poesia" sulla rivista "Paragone"), una sperimentazione nella quale la presenza di "vissute tensioni" (per usare un'espressione proprio di Majorino) e di un'energica spinta etica lavorava il corpo del linguaggio, aprendolo con effetti che a distanza di tempo non sembrano per nulla essersi affievoliti. Una sperimentazione che non era tale per programmi o scopi, ma che lo era per la consapevolezza di procedere senza garanzie che non fossero nella necessità della propria ricerca, nell'invenzione di un linguaggio, e per gli esiti d'innovazione che sapeva proporre. Introducendo l'antologia I Novissimi Alfredo Giuliani diceva tra l'altro: "Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione, e di portare quest'ultima a misurarsi con la vita contemporanea", e parlava poi della <prosa >, insomma quello che non si è abituati a trovare". A parte il tono, si tratta di indicazioni rispetto alle quali non risulta affatto lontano il lavoro di altri autori (e anche la loro articolata posizione teorica) come quelli che ho citato.

Rileggendo Lotte secondarie c'è semmai da stupirsi -data la radicalità nell'uso della "prosa", nella proposta di un "discorso diretto", nella frequentazione del reale nelle sue circostanze basse e provocatoriamente "impoetiche", data la complessiva violenza, appunto sperimentale, di questo libro- dell'accoglienza, non adeguata al valore, che ebbe.

Lotte secondarie, il secondo libro di Majorino (seguito a La capitale del nord, storia in versi i cui presupposti non erano lontani da quelli della Ragazza Carla di Pagliarani), aveva tutti i requisiti per dare autentici scossoni, per indicare coraggiosamente una via diversa, e dunque di rinnovamento, in un momento in cui se ne sentiva un bisogno speciale. Ma non ci fu nessuno scossone, nessun'ombra di scandalo, e a pensarci meglio, la cosa non è così sorprendente, ed è anzi, paradossalmente, abbastanza spiegabile. Una reazione netta, schierata, si sarebbe comunque dovuta verificare all'interno di un sistema, quello letterario, che tollera senza gravissimi traumi opposizioni anche energiche rispetto a un qualche ordine più o meno tacitamente codificato, e dunque tollera, o persino richiede funzionalmente, "tradizionali", istituzionali scontri tra proposte nuove e nozioni dominanti. Lotte secondarie, uscendo in modo più vistoso, violento, dagli schemi, aveva in sé qualcosa di incontrollabile, di "eccessivo": il suo vitale azzardo, deliberatamente scelto dall'autore, era tale da rischiare in partenza l'espulsione... Bastava non capirne o non volerne capire le ragioni e l'intensità e perciò la portata. "Non è poesia", poteva dire qualcuno, e Majorino ne era avvertito, come si capisce da tutto il libro e come si legge in una poesia non a caso intitolata Per un pubblico nuovo, dove l'autore si immagina già un certo pubblico (non quello "nuovo") intento a voltar pagina dicendo tranquillizzato: "non è poesia, sono frasi/ che chiunque sarebbe in grado di scrivere"; e si immagina (o meglio si ricorda, da reazioni avute da "assaggi" di questo suo libro) certi critici accusarlo di "prosaicità", di "contenutismo". Sta di fatto che dopo ventidue anni, lontani dal clima di allora, lontanissimi, il libro vive intatto nella sua "autenticità". Sta di fatto, anche, che ha purtroppo influito meno di quanto sarebbe stato giusto, e che quel "pubblico nuovo" non c'è e non c'è stato. Ma questo è un altro discorso.

Un carattere sostanziale -cioè non solo una scelta stilistica, un'operazione letteraria, una volontà sperimentale- è in questo libro l'adozione di un registro basso, di una lingua povera, parlata, estremamente concreta e quotidiana, dentro le implicazioni "primarie" del vissuto. Un carattere sostanziale in quanto questa lingua era la sola, penso, nel progetto di Majorino, che potesse dar voce, dignità poetica, a una realtà cui quasi sempre, storicamente, è stata negata possibilità di parola. Una poesia, perciò, accentuatamente inclusiva; prosastica, anche in virtù di una versificazione libera, molto varia (e che a volte giunge a negarsi debordando nella prosa). Il testo di Majorino, perciò, si fa carico di "impurità", coinvolgendosi l'io abbassato (ma non certo debole, rinunciatario; al contrario dotato di una sua asprezza, di una sua umoralità giovanile, di un corpo percettivo apertissimo all'esterno) nell'intrico orizzontale dei molteplici rapporti, delle dipendenze da un contesto che ne frustra la volontà ironizzata di autoaffermazione strisciante. Tanto che il poeta si viene a presentare nel modo più insolito, merceologico, orgogliosamente sliricizzato: "Sono una biro: esagonale; tonda/ è la punta; l'involucro/ di colore vivace". Un io, insomma, denso, combattivo (nella perfetta coscienza dei suoi limiti, delle sue debolezze, dei suoi cedimenti, del suo vivere con fierezza "in quel poco"), persino potente, ma che si vuole fondato in un dire poetico che rifiuta la salvezza o l'alibi di un'ambiguità a priori, cautelativa; che si dimostra insofferente anche nei confronti di un istituto poetico per eccellenza, come la metafora, giocando la carta di un "discorso diretto", che riesca e che possa dunque imporsi frontalmente. Una strada dunque molto difficile, presa con intelligenza e ironia, con sostegno ideologico (con passione ideologica), con forza, ma anche con una sensibilissima presenza nella fluidità e precarietà dell'esistere. Ed è proprio qui una venatura importante nella solo apparente squadratura inattaccabile delle posizioni più manifeste di Majorino; ed è qui anche la radice, non lontanissima, di quella dimensione drammatica della sua poesia che segna uno dei suoi ultimi libri, e cioè Provvisorio. Ma appunto il sentimento -l'ossessione- di questa condizione di provvisorietà è uno dei temi, più di una volta espressi, di Lotte secondarie; il tema del consumarsi inesorabile della nostra "unica vita". Vediamo, in Viaggio a Parigi, uno dei testi più magmatici del libro, questa strofa: "Se io potessi chiarire all'albergatore/ che gli ordini si discutono, che dio non c'è,/ che l'unica vita brucia, risponderebbe/ che gli ordini non si discutono, che Dio c'è,/ che questa vita è l'anticipo, il dubbio, la prova/ della Vita Infinita". Molti spunti, molti grandi temi, anzi, in pochi versi, come si vede. Poi, in Rapporti con il fratello minore, questa conclusione rivolta a se stesso: "E tu che parli e senza saperlo sbavi/ l'odio per chi ha nove anni meno di te/ forse nove lunghi anni di respirare muoversi mangiare?/ Quando tu sarai sotto coi vermi lui ancora c'è". E il senso di questa intensità fisica dell'esserci, di questa pesante e ricca materialità della vita si intreccia naturalmente con il tema dell'unica vita che siamo ("poi l'aria è lì tu qui nulla è mutato/ respirare mangiare bere dormire amare odiare") e nella grandezza che c'è nell'umiltà elementare, nel poco che abbiamo e che si oppone alla morte senza rimuoverne o annientarne l'idea. Troveremo poi, con splendida capacità di alzare di colpo il tono (dopo queste parole, infatti: "comunque insegnerà Marx alla televisione"), ancora l'incidersi di questo tema nella poesia che dà titolo al libro: "Lotte secondarie prendono l'unica vita di un uomo". Ma un punto di sintesi, è nella Poesia del velo, che si può considerare centrale, nel suo sovrapporsi di emozioni e nudità del linguaggio, di riflessione esistenziale e scelta di classe e politica:

Tolto il bel velo con gli Angeli,

Dio, Maria, il Gesù Bambino,

la morte appare: un buco nero.

Questo, buon comunista, fratello, noi dobbiamo sapere

anche se siamo robusti, per ora.

Senza il bel velo celeste

la morte è un letamaio

e lì dovremo cadere.

Lì queste grandi speranze

amare odiare le fatiche

quello che c'è.

In tutto questo, nel dolore del proprio scorrere ed essere provvisorio, ma anche della formidabile riaccensione continua e orizzontalmente diffusa della vita, c'è l'esigenza di un "sì" che appaia dichiarato, di un'opzione a favore della vita stessa, che lega in qualche modo l'esperienza di Majorino a quella, per esempio, di altre figure di primissimo piano della poesia del nostro tempo: Vittorio Sereni, Antonio Porta, pure tra loro così diversi. E con Porta Majorino ha in comune un forte senso della fisicità, del fiato largo e denso della corporeità, della nostra materia umana, di cui, , con un misto di ironia e di partecipazione, sente la prevalenza un poco subdola, di fronte ai pretesi voli della mente cacciatrice di sublime: "Tornato intelligente ha fame sempre".

Lotte secondarie è poi un libro molto vario, che passa dall'asciuttezza e dai movimenti stringati di una sezione come La miopia (poesie degli anni '61-'62, tra le più belle di Majorino, tra le più belle di quegli anni e presentate sul "Menabò" 6 nel '63) a un frammento di racconto in versi (intitolato appunto Storia interrotta, del '61-'63), che esprime un'esigenza precisa, vitale, di questo poeta, appunto quella di uscire dalle nobili economie controllate della lirica e dei suoi affini, per cercare un'espansione poematica, uno spazio e un tempo largo e vario, e anche un grande contenitore poetico: come nel suo primo libro, come in un'altra storia in versi che da vent'anni Majorino sta scrivendo. C'è un pensiero inquieto che percorre l'opera di questo poeta, e c'è come il rovescio positivo e onesto di un vagante senso di colpa, di un velenoso sospetto di parziale estraneità che neppure la scelta decisa di uno stile antiletterario può in fondo del tutto far sparire. Ma Giancarlo Majorino lo sa perfettamente, e ha la lucidità e la persuasione per imporsi: scrivere non è una carriera, non è un occuparsi alienante di cose estranee al soggetto, non è una velleità, un conato di autoaffermazione. E', al contrario, "un lavoro da uomo", che consente di "rimanere unito". Ed è un lavoro che sa sfidare la durata per offrircela più vera, come dimostra Lotte secondarie, così immerso nel suo tempo eppure ancora così fresco e per nulla datato.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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