Gianni D'Elia, Storia nascosta del nostro decennio in un libro d'ore lirico-razionale (“Il Manifesto”, 28 dicembre 1990)

 

Tra i libri di poesia usciti di recente, trova un suo spazio di decisa rilevanza l'ultima raccolta di Giancarlo Majorino, La solitudine e gli altri. E dire che non sono pochi i buoni libri di versi letti in questi mesi, che per ora almeno vorrei citare, dato che è impossibile parlare di tutti e subito: dalla elegia amicale di Alessandro Parronchi in Clima (Garzanti), alle prose disubbidienti di Amelia Rosselli in Diario Ottuso (1954-1968), pubblicato da Ibn editore, fino a tre opere di autori "giovani" come Guido Garufi (con il suo montaliano e riflessivo Conversazione Presunta, Tracce Edizioni), Jean Robaey (con il suo narrativo e biografico L'epica, Corpo 10) e Renzo Chiapperini, che con Dal vivo (Terra del FUoco) ci offre un canzoniere analogico e politico.

Il merito indubbio di Majorino, che deriva nel giudizio del lettore da un altrettanto indubbio fascino pratico del suo libro, consiste nella capacità di identificare e nominare le spinte dissociative e inquietanti dei nostri anni, proponendo al tempo stesso non una "soluzione", ma almeno un utile atteggiamento per affrontare il quotidiano privato e pubblico: la carità della ragione, una carità plenaria e autocritica.

Negli anni che vengono dalla politica, e che inevitabilmente torneranno, attraverso la consumazione dello spazio politico espropriato, a una nuova democrazia politica ("chi ha da dire una parola utile per la propria città?", Euripide), un libro come La solitudine e gli altri di Majorino andrebbe letto da molti. Forse, perché si trova più storia di questo decennio in questi "versi milanesi", che negli spazi deputati alla riflessione storica e politica: "Lembo della casa/ sempre meno scuse./ Questa che conduci/ la vita che sai vivere". E' a partire di qui, da questo forte imperativo etico, che tutta la raccolta muove per interrogare il nesso di comunanza e solitudine. Può essere un viaggio in metropolitana, oppure uno sguardo che riflette su un corpo di donna che non sa lasciare la gioventù, o ancora lo stupore dell'identità anonima riconosciuta come destino; può trattarsi di esterni (più agiti che illustrati), o del proprio interno familiare e domestico, fino alla singolarità più sgomenta enunciata da chi riflette e guarda. In ogni evento di parola, si coglie il segno di un'esperienza, di una meditata brevità ed urgenza del comunicare la domanda comune, quella domanda tanto semplice e tanto difficile a fare breccia nella complessità pretestuosa dei chierici del presente: "Cose guardate/ cose guardate per essere/ il mondo intero è posto di cose/ che sollevano ciglia/ mentre voci persuadono/ i volti sono cose più complicate/ gli occhi cercherebbero occhi". In questa sentenziosità affabile e condizionale, così semplice e così difficile a farsi, sta il segreto probabilmente gnomico e "orientale" di questo libro d'ore, fatto di gocce lirico-razionali concentrate e indicative. Un libro di haiku urbani affilati, in cui il senso non è negato dal nonsenso, come da tradizione surrealista e onirica fino a noi caricaturata ormai in ogni spot patinato, ma è senso sottratto per concentrata immanenza dell'enunciazione, "fuori senso" che apre oltre il segno dato, nel possibile del reale deprivato e dell'immaginazione reificata. C'è, e si sente in ogni pagina, un'utopia al lavoro sui segni della lingua (un italiano basico con minori deviazioni sperimentali che in passato), come se un'urgenza nuova ponesse il linguaggio del pensiero in primo piano, al di qua dell'espressione letteraria. Quella contestazione formale e di sostanza, che Majorino fin da La capitale del Nord (1959) a Provvisorio (1984) ha perseguito, ora sembra non concentrarsi più sui composti stranianti o sulla scomposizione metrica, ma sul reperimento di un materiale elementare (da elemento materialistico primitivo e fondante), per poter tornare a dire (in senso forte) la scissione e la possibile riconciliazione.

Se ne avvertiva già l'orientamento di svolta (dal significante politicizzato al significato pedagogicamente ironico) nei Testi sparsi (Prova d'Autore, 1988), sorta di "diario in pubblico" tra memoria e presente, con versi scritti e scelti tra l'81 e l'87. E, ancora, le cose che Majorino "dice" sono fondamentalmente due: ci sono valori più grandi della persona, intesa come individualità borghese; c'è il compito di una memoria che dovrà essere capace di restituire il passato prossimo alla gioventù, che ne è espropriata dal potere.

Con l'aggiunta di una terza "cosa", davvero in comune, e cioè fondante la possibilità di un comunismo utopico e spirituale: i piccoli segni "nani" che sono già oltre la reificazione delle nostre vite, quei piccoli segni che non sappiamo fare ancora crescere, e che pure ci sono in noi e negli altri: la dedizione al presente, la verifica amorosa del guasto esistenziale, una speranza che ci accomuna nella solitudine storicamente determinata, che possiamo capire e cantare.

Ed è così che, per la prima volta in maniera decisa, fa ingresso nel linguaggio prosastico di Majorino una rima cognitiva, povera e nobile al tempo stesso, impiegata con frugalità colloquiale e osservativa: "misurare, che bella parola/togliamola dal sostare neutrale:/ la pressione dell'osservare più/ l'immaginazione dentro un fare".

Nella forma camuffata di un diario, queste 85 poesie scritte in pochi mesi dall'86 all'87, tracciano un percorso essenziale e epigrammatico, nel tentativo (riuscito mirabilmente) di fare in modo che la voce di uno sia nella mutevolezza perplessa dei molti che si interrogano, nell'attesa che il "pestifero egoismo" (Leopardi) dell'epoca sia contrastato dalla pietà attiva del presente e dalla solidarietà dell'amore, anche attraverso la critica vitale della poesia.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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