Rina Li Vigni Galli, La solitudine non passiva di Majorino (“Gazzetta del Sud”, 10 gennaio 1991)

 

Non sono pochi a riconoscere in questa raccolta di poesie: "La solitudine e gli altri" (Garzanti) di Giancarlo Majorino un punto di riferimento e un momento tra i più intensi della produzione poetica di quest'ultimo decennio, che, avviato per sentieri di trasparenza, molte nebbie ancora tratteneva tra sepolture di neoavanguardie e fumi diradanti di ideologie malamente bruciate. Con intuitività e tempestività Majorino sembra aver centrato il bersaglio, riconoscendo in una nuova pacata, ma proprio per questo più dolorosa solitudine, l'oggetto ultimo di un inveramento poetico che si rappresenta in un rapporto-non rapporto tra l'io e gli altri, tra la domanda e l'impossibilità della risposta.

E' questo l'approdo d'un lungo percorso che iniziò con la "narrazione" sgomenta di uno stravolgimento ne "La capitale del Nord" (Mondadori, 1959), affrontò con le "Lotte secondarie" del '67 la durezza d'un tempo confuso ed oscuro con affondi esplorativi in aree urbane sempre più frastornate, facendosi via via conscio d'una provvisorietà ("Provvisorio", 1984) densa d'angosce, ma pur sempre qua e là rischiarata dai lumi d'una qualche speranza di mutamento. Questo poeta del '90 è tornato filosofo del proprio vissuto in nome di una soggettività correlata alla visione d'un reale più strettamente circostante: "l'albero e le sue virtù/ per me misteriose/ compiono nel viale/ movimenti di foglie/ pezzi di pelle celeste/ stanno tra i rami/ lo fisso come un antico nemico/ potrebbe diventare un nuovo amico?". Il ripiegamento coglie nuovi nessi e sensi negli interni: "pareti che esistevano appena/ serrano ora/ il tono dei colloqui/ sta sul palmo mosca della mano; rare imprese comuni/ ricordano radici;/festeggiamenti lievi e sparsi citano/ una solitudine essenziale/ e la connessa comunicazione d'ufficio".

Da quel lontano singhiozzo spezzato, da quella frammentarietà provvisoria, in cui anche la parola si scomponeva dispersa, il poeta (e l'intellettuale) è pervenuto alla strada del proprio fluire, concentrato sugli indizi appartati del proprio vissuto con un'interna vitalità sofferta che tenta il percorso di interiori "viali con le ali". Riscopre l'antico destino. Il privato solitario è una fermata confluente. Il poeta è sceso dalle metropolitane, si è appartato dal flusso collettivo che lo impegnava ed è venuto a confronto di una solitudine "tra contagiosi e ostili/ sorridente". L'alienazione storica del recente passato si è fatta consapevolezza della irrimediabilità della perdita personale, dell'<unica vita!>. L'esclamativo, isolato e fermo, sottolinea il grido, essenziale, nella maturità pacata del linguaggio. Sotteso, appena avvertibile, c'è come il filo di una nostalgia: di giovinezza individuale, ma anche di ideali collettivi. Il rapporto fra poesia e realtà che Majorino evidenziò negli anni '60 come necessario nel caos di una pronunzia che appariva insulsa e balbettata non è rinnegato. Sono mutati i termini del rapporto spostatosi sul piano dell'emotivo quotidiano e di una diversa ricerca di attrito tra il proprio pensiero e il mondo.; di una diversa rappresentazione di sé sulla terra. In questo senso il segno si fa presenza umanissima nel tentativo di un adeguamento al ritmo stesso dell'esistenza attraverso le sue stesse scansioni. E c'è la semanticizzazione di queste scansioni , che è la pronuncia mille volte ripetuta di una solitudine: che è poi la definizione dell'enigmaticità della vita.

E tuttavia sommersa o come sospesa c'è un'atmosfera di indefinibile attesa: "saranno più profonde/ le prossime imprese". E lo sguardo dentro fuori del poeta sarà "la pressione dell'osservare più/ l'immaginazione dentro un fare". "Inizia dal cervello il silenzio e si spande/ si confonde con l'aria/ che la camera pigia/ dilatando molecole..." Nel presente subdolo e seppellitore c'è questo ronzio del pensiero tra "le cerniere della notte" e "la piccola grotta del corpo" che "sta nella grande grotta della casa", punto d'osservazione del cielo, mentre "luci d'aerei forano" il grande mistero della galassia "sorgendo da terra/ o cadendo/ piano nel rilento".

La poesia è ancora il segno più turbato e profondo dell'estraneità dell'uomo sulla terra, il segno dell'imperscrutabile in zone sempre più estese e profonde dell'essere, dell'esserci; si tratta di adeguarsi al ritmo della grande incertezza del vissuto attraverso le piccole certezze dell'oggetto. Che non sono più gli "oggetti" del nostro quotidiano, ma la focalizzazione di un proprio dentro e di un fuori col quale si tenta una familiarizzazione: con l'albero davanti a casa o col cielo mediante il segno umano, l'aereo che lo attraversa. E attraverso tutti i possibili contatti c'è questa tentata ricomposizione del soggetto nel gorgo indecifrabile del vivere; e nella scrittura che tenta la distensione in una più composta verbalizzazione del mondo. E la solitudine è la postmoderna contemplazione di sé e dell'altro da sé, termine ultimo d'una filosofia esistenziale e ultimativo della vita, della nostra presenza nel mondo.

A suggello del panorama poetico degli anni '80 ronzanti di ricerche mancava forse un testo così preciso di consapevole scelta nel privilegiare temi e linguaggio. Questo di Giancarlo Majorino sembra in ultima analisi indicare un'estrema possibilità nel recupero di un reale accettato in solitudine non passiva, in forza di una sensibilità che il pensiero incide nutrendosene fin quasi a rasserenarsi.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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