Giovanni Gardella, Il destino della poesia di Giancarlo Majorino (“La Mosca”, gennaio 2002, in edizione ridotta)

 

“Vivo in un mondo che si muove tutto”, mi dice sul ponte della sua nave in camera, mentre guarda, dal tavolo, di là oltre la finestra.

Questo mi sembra l’unico attacco possibile per parlare di Giancarlo Majorino, del suo ultimo libro, Gli alleati viaggiatori, e dello shock salutare che m’ha dato all’andargli al venirmi incontro; consustanziando tutto d’un colpo, come per un grande tam tam metropolitano, i dieci anni della sua sempre più approfondita (e insieme sempre più fremente, sulla superficie della vita) conoscenza.

Il viaggio nella poesia e della poesia di Majorino ha inizio nello spaziotempo del 1959 a Milano (con il poema La capitale del nord). Da allora in poi le sue stazioni molto personali, le fermate mobili di questo sempreverde tragitto coerente e variegatissimo, in un complesso legarsi di vita e forme e forme e vita, hanno disegnato, sulla terra poetica d’Italia (ch’è un mondo, se non “il mondo”), un arco fra terra e cielo, una pista aperta nella nebbia della sua (della poesia di Majorino) corporea, intendibile irriconoscibilità. Irriconoscibile, come una sorta di Fantomas, depistante, imprevedibile sono alcuni degli aggettivi spesso usati per descrivere gli spostamenti, i cambi di marcia, di passo ritmico, di forma apparente delle raccolte poetiche di Majorino, dalla prima uscita definita da Fortini “racconto neopopulista (sic!) neofuturista in versi” a Lotte secondarie (1967), Equilibrio in pezzi (1971), Provvisorio (1984), La solitudine e gli altri (1990), Tetrallegro (1995). Ma, mi sembra, se mai sia stati inintellegibile criticamente, dall’orecchio stereotipato, prestabilito, prescritto, delle critiche accademiche e dell’establishment (ossia di stato) e/o di parte, il gioco di Majorino, questi alleati viaggiatori, nella loro riformante deformazione, nella cioè ormai qui messa in opera, in un dinamico e vivente corpus, riforma della poesia italiana, getta come un raggio verde a ritroso (e verso il futuro) su quelli che Goethe chiamava nel 1820 i fondamenti del fare poetico (lettera a Manzoni sul non senso e infondatezza estetica dell’italica particulare disputa sul primato dei classici o dei romantici). Ed è, il fare di Majorino, l’esperimento di una vita che trova quasi il suo fine (sublime) con questo autoritrovamento, questa scoperta manifesta e sovraesposizione del “viaggio”

Il viaggiare di tale concentratissimo e teso-inatteso (nel plurimo reciproco e creaturale reagire di formecontenuti e contenutiforme là tessuti) libro del poeta milanese produce, alla lettura, come all’ascolto della sua voce che ne diceva alcune parti lo scorso mercoledì 3 ottobre sera (alla libreria Feltrinelli di piazza Duomo) è successo in crescendo e ripetutamente per evidenza (ingl. evidence), una specie di scarica elettrica, o meglio, un bagno caldo rigenerante (essendo in autunno-inverno, ma gelido, fosse ancora estate) che riporta (ha riportato me, insieme a altri testimoni di questa speciale esperienza, assimilabile all’euforia da innamoramento, al papillare bicchiere di vino o alla molto urbana e splenetica Baudelairiana virtù) a una specie di stato di confusa primordiale partenza (stato di grazia?).

La lettura degli Alleati viaggiatori si riporta infatti, con la sua onda d’urto morfofisiopsicologica a una sorta di pulsare biologico primario (quello che Formaggio chiamava “carne selvaggia”?), come se per un po’ si avesse la coscienza di essere anche noi nuovamente dei vivi organismi, un organismo e, quindi, a un tempo, ci fa riavere la coscienza del sangue che scorre nelle vene (come in un film famoso di fantascienza degli anni sessanta sembrava, ma per via analogica e congetturale, di stare dentro di noi, mentre, il Majorino ce ne dà la vera, reale, apparcezione fenomenica).

Bisogna, a questo punto, chiederci: cosa è che in questa complessa composizione crea un siffatto senso di rigenerazione di un sé (a quarantanni) e, insieme, la certezza palese del rigenerarsi, qui e ora, del sì della poesia italiana tout court, d’un tratto percepita (molta di quella recente) come un sepolcro imbiancato, per dirla con Pasolini; sia, a confronto con tale effetto farfalla distruttivo/costruttivo (come un baccanale apollineo) di Majorino e sia, in parallelo, nella sua totale incapacità di dare speranza (nella propria estenuata e esangue inanità) di fronte al necessario vis-a-vis con l’orrore del giorno, con il ritorno dello spettro di Hiroshima, nel settembre-ottobre duemilaeuno, mentre si ha sulla faccia il destino di vita o morte per sempre dell’umanità (e, con essa, della poesia, lettori zero,zero lettrici, nel mondo fattosi sabbia).

La speranza implicata in questo libro è uno spirare libero delle profondità più profonde d’una persona, un atto panico-erotico d’amore per l’umanità, per l’uomo che resiste dentro il corpo del poeta e nel corpus (habeas corpus!) della sua poesia, come, per Dino Formaggio, viene a trasformarsi in sapienza dello stile (in ogni vera opera d’arte) quel primitivo atto o credito d’amore che diventa poi, per ogni grande artista, un dettato, un certo debito verso l’umanità e/o la (verso di Majorino) “fuga da non si sa che male”.

Un punto di partenza in negativo della resistenza di Majorino dentro la propria “carne selvaggia” può essere considerato l’incipit dei Minima moralia di Adorno: “Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza speranza propria”. Da tali parole sembra essersi messo in moto il motore di questo libro che, come per il moto e lo scatto possente d’un animale feroce, trova, riscattando e salvando con sé chi vuole e può, una sorta di correlativo “oggettivo” dello scorrere, delle corse umane e animali fin qui sulla terra. In nessun’altra forma artistica del Novecento, a esclusione forse del corpus di Picasso, può ritrovarsi una forza siffatta, davvero rapportabile anche al pensiero, ai contenuti vitalisti di Nietzsche. Negli Alleati viaggiatori, in cui Majorino sembra indicare a ritroso (e verso il futuro) il destino della sua poesia, e d’una rinfrancata poesia per l’uomo, è possibile trovare, al cuore della odierna tetra megalopoli mondiale una festosa e tremenda celebrazione della natura che è lotta fra la vita e la morte per cui ogni attimo, ogni microsecondo di vita (ancor di più, quasi profezia, col senno del dopo settembre nero 2001) acquista valore.

I principi-valori o i fondamenti teorici della prassi poetica di Majorino sono stati da lui più volte indicati e sviluppati, nel corso della sua attività fra i “dintorni” (o, meglio, dentro e fuori il bordo) del fatto poetico, a partire dai primi anni Sessanta della rivista Il corpo da lui diretta, per giungere fino a quel manifesto di poetica e insieme studio critico-diagnostico del tessuto storico dei fatti di quell’arte che è stato Poesie e realtà (1945-2000), pubblicato l’anno passato. Sono ivi rinvenibili, quasi come in una moderna isogogia, cinque valori appunto o principi (o fondamenti) entro cui innestare il tronco del fare poesia, nella nostra epoca. Questi fondamenti sono, per Majorino, in sintesi, l’inerenza al tempo, la criticità, l’idea d’una bellezza slegata, la magnanimità etica, la necessità. Tra di essi, come già sopra notato riferendosi ad Adorno, quello dell’inerenza al tempo, cruciale per tutta l’età moderna dopo il saggio famoso Le peintre de la vie moderne di Baudelaire, pare essere il perno, il motore di tutto (del testo con la sua sete di totalità), con la grave (in senso letterale) sottoquestione all’ordine del giorno che si è messa concretamente e tangibilmente in pubblica totale mostra, divenendo la realtà iperreale, nell’ultimo mese di settembre 2001. E’ il concetto della “mortificazione culturale” che Majorino ha definito chiaramente nel 1997 negli Atti del Convegno di Letture. Per la poesia tra Novecento e nuovo Millennio: “La poesia è musica e senso, una sorta di sogno ambiguo di felicità che chiama realtà e possibili insieme... L’aumento degli scriventi è per me non un fatto negativo, ma un surrogato o un avviso su certe mancanze gravi che la vita continua a portare con sé. Questo, il punto concreto dell’interrogazione sulla perdita della riconoscibilità, che è da attribuire, senza rivendicazioni o pianti, al mondo in cui i poeti continuano a pronunciarsi sulla poesia stessa e alla loro maniera di scrivere, da una parte; alla gravità di ciò che sta accadendo, dall’altra. Il mondo è un mondo di vendita, di soprusi, di autopromozioni, accompagnato da una costellazione mortificante di modelli di successo. Tra questa realtà e la scrittura sono intervenute mediazioni che non sono solo mediazioni: le comunicazioni di massa, l’industria culturale, le tonalizzazioni corporative.

Il terreno di custodia della poesia è la libertà. Ma il poeta riesce ad essere libero in un mondo del genere? Solo mantenendo il più dilatati possibile gli ambiti propri della persona del poeta e dell’indipendenza della scrittura”...

A partire da questo titanico, grande lavoro preparatorio, la formacontenuto del testo si costruisce come una strepitosa ma semplicemente congegnata complicanza (si vorrebbe riusare, qua, letteralmente il termine seconda natura) di vari elementi di senso e significato: un nido fatto ad arte che ci sorprende per la sua spudorata, oltre ogni tabù di censure od elezioni, e fine e sapiente e cruda intelligenza della concreta matericità della poesia. Come l’essenza dell’architettura moderna consta, per Bruno Zevi, di nuove emergenze strutturali (tipo i pilotis, la finestra in lunghezza, il tetto-giardino), così Majorino accentua, amplificando a dismisura e oltre ogni regola o convenzione la libertà sperimentale della ricerca, il valore totalizzante (alla ennesima potenza) d’una ricreata variegatissima tassonomia compositiva che carica di senso e amorosa attenzione anche i gangli più trascurati e i recessi ignoti del discorso, della figuralità linguistico-retorica e poetica, facendo rivibrare e risuonare come per la prima volta (come per un primo parlante la lingua di Dante), ogni parte possibile e immaginabile del testo. La poesia è la risultante della babelica costruzione geotettonica della lingua iniziata da Majorino con la sua opera prima e poi sempre in modo diverso coltivata fino al pienamente compiuto disvelarsi di questa roteante crescita nella mole che qui ci sovrasta. In un tremendo viaggio d’assimilazione e composizione, nel corpo al Duemilaeuno del poeta, dei fari della tradizione bimillenaria occidentale, si crea un cortocircuito fra una comicità erotica ed epigrammatica (morale, cioè dell’uomo, ma non sentenziosa ossia gnomica, come in un certo perenne italico neofeudalismo paraecclesiastico nel secondo Novecento e attuale), il viaggio dell’animacorpo di Dante e Michelangelo e Goethe e Baudelaire, più la velocità del futurismo, più Duchamp, più il farsi carico del male di Celan.

Diventa, è diventata la poesia, tracciata una via per la sua futura sopravvivenza e per quella dell’umanità, un immenso motore, una ruota costruita e composta in modo da essere capace di rappresentare e insieme creare/ricerare l’infinita varietà del mondo, le Shakespeariane “molte più cose fra il cielo e la terra”, in versi poematici. Nessuna esclusa. Tutto potendo la poesia, senza nessuna spocchia o alibi d’elezione tardoclassicisti, e volendo, la poesia, indovare o ritrovare la bellezza nel puro e semplice qui e ora della realtà. Senza esclusività di club.

Ogni cosa riesce alla prova dei fatti Majorino ad animare, a mettere in moto, anima e corpo (l’ospite e il compagno) alleati, nel viaggio che tutti ci estranea. E del tutto estraniatosi, del tutto indiatosi dentro i corpi di corpi della propria materia poetica risulta alla lettura l’autore. Facendo risorgere l’esserci ingenuo (letterale ed estetico), i puri moti fenomenici di tutti gli esseri viventi che la lingua stessa, fatta dionisiacamente a pezzi e ricomposta come nuova, mette in mostra, con quei corpi nuovi semoventi ed irradiantisi nel testo e dal testo formati da, puta caso, avverbi, congiunzioni, locuzioni, esclamazioni. Ogni brandello linguistico-testuale risulta, al fondo, e in primis, scosso dalla foga ritmico danzante dell’io polimorfo e polifonico di Majorino. E’ un testo alla fine, ab initio, che si muove, tutto venendo trasfigurato e trasformato dal ritmo incessante interno (con il proprio metro natural-sperimentale, del corpo necessario, propagato in ogni direzione) che se la ride dei regolamenti, dei regolisti e finanche, per primato d’arte e d’estetica (in quanto atti d’amore totalizzanti), dell’etico; anch’esso, per respirare profondamente e continuare a sperare, infranto. E tale fondamento etico-salvifico di principio viene quindi, come per sua stessa fine, inglobato in questa riscoperta, in questa totale bildung.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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