Barbara Pietroni, Le trascurate

 

Con Le trascurate Majorino libera un mondo insolito, che procede parallelamente ai suoi grandi lavori poetici, ma che in qualche modo ne rimane estraneo. E’ un mondo in continua evoluzione, dove gli spazi si aprono e poi si chiudono, i sogni si sognano e poi si vivono, il tempo scorre a fianco e poi sfugge di lato, l’immaginazione spazia e poi buca.

La prima parte (degli anni Cinquanta e parallela a La capitale del nord), merita un’analisi capillare, visto che ogni poesia costruisce, pezzo dopo pezzo, lo stesso puzzle ma con sfaccettature diverse.

Ne "i campi rossi al termine del viaggio", il ragazzo-Majorino, seguendo la linea della “spensieratezza giovanile” e dell’apparente “sguardo leggero” sulle cose,  ci attira di proposito in una tela di semplici descrizioni (perché “semplici” devono apparire in un primo momento), dove a cambiare sembra essere solo la direzione dell’occhio. Poi la superficie si mescola alla profondità: questo blocco di pure elencazioni si dilata di colpo e ci rimane la vaga ma ben presente impressione che lo spazio dentro cui ci ha collocato Majorino non corrisponda a quello reale e delimitato, creato ed espresso da quelle precise parole fisiche dei versi iniziali. Questi frammenti di realtà nascondono in effetti ben altro: in continuo “spostamento”, esprimono e rendono visibile in tutta la sua pienezza il campo dei numerosi possibili, su cui ha la fortuna di affacciarsi un giovane “che ha tutta la vita davanti”. Majorino riesce a comunicarci molto bene, tra le righe, che ogni cosa o persona su cui poggia il proprio sguardo ha un suo vissuto, a noi ignoto e perciò ai nostri occhi carico di possibili, un microcosmo che sentiamo indipendente dal nostro essere e dalla nostra esistenza e che quando, quasi accidentalmente, viene a contatto con noi, ci fa rimanere a bocca aperta... e non soltanto per quell’attimo. Tale “spostamento”, tuttavia, non si riduce ad un semplice cambiamento di direzione dello sguardo. E pensandoci bene, è assolutamente impossibile che sia così, vista la propensione di Majorino a vivere “il tutto” pienamente e non dall’esterno di un osservatorio non coinvolto. Per questo motivo ci troviamo davanti non a semplici immagini-resoconti che scorrono da un capo all’altro della lista, ma di siti spazio-temporali che si compenetrano, mettendo in comune, condividendo e mescolando diverse sfere del sentire. E’ in questo modo che lo spazio si dilata: saltando da un universo all’altro, da una sensazione all’altra, come in una metafora. Così i visibili campi rossi sono cinti tattilmente da leggere reti tra case e acqua, il visibile barcone al centro, piatto, carico lascia il posto a un gustoso sorso d’aranciata tiepida, l’uomo assorbe la sua visibilità nella sonorità del proprio cantare e nella tattilità del proprio attraversare in sandali l’erba, l’immagine della signora che gioca ci rimanda all’alone mentale di distrazione, di cui ancora una volta non sappiamo il perché, il come, il quando: possiamo soltanto immaginarlo. Il susseguirsi e il compenetrarsi di queste sfere non risulta essere tuttavia un vociferare caotico, ma un “passare da...a...”. Queste “più-che-immagini”, cioè, mantengono una propria autonomia, ciascuna conservando un’eco della realtà-frammento che la precede. Il turbinoso “andare avanti arricchito dal prima” subisce uno stop improvviso quando si delinea in modo preciso la collocazione e l’azione del giovane tennista. Allora tutti i possibili svaniscono, i canti lasciano il posto al silenzio della concentrazione, tutti gli altri vissuti cedono il passo al biancovestito fantasma familiare. Ma non è la fine, è solo l’inizio, perché ad aprire i confini di ciò che è delineato, a far esplodere a raggiera ciò che è concentrato su un solo punto questa volta sono l’esile luna, le celesti stelle...

In "NATURA" è chiaro che Majorino non è mai “un solo Majorino qui e ora”: la sua coscienza del mondo, delle cose e delle persone si sdoppia, si scinde in tre, quattro, cinque parti, vigili e attive in egual misura. La consapevolezza del dentro convive con quella del fuori, quella del tempo che scorre con quella del tempo che sembra fermarsi, quella della vita con quella della morte, quella della gente, dei balli e delle voci con quella della desolazione e del silenzio. E’ ancora presto per “La solitudine e gli altri” perché la solitudine è ancora “troppo solitudine”, troppo arida quanto “un lago quasi terra” per ricavarne qualcosa di buono. E’ una natura strana questa: un sole immoto, campi levigati di brina quasi bianchi sotto un cielo di nebbia che discende scura a branchi. E’ un paesaggio desolato, che “aspetta”. E’ lì fuori e non cambia. Intercala stop improvvisi alla vita che scorre in un piccolo qui e in un breve ora. E, senza volerlo, rende l’attimo ancora più attimo, affermando l’urgenza e la necessità di vivere ogni singolo istante.

Portando con sé un bagaglio di “attimi” pieni di vita, di amore, di lasagne, di berretti e di trote, il ragazzo-Majorino incide l’imperturbabilità, la piattezza e il silenzio dei campi levigati. Non si tratta del finale di un film americano, sul modello del “e se ne vanno via insieme, felici e contenti, su un’auto sportiva e veloce, verso un ignoto (pubblicitario)”. Le auto ci sono, sono reali e filano veloci, le possiamo vedere con i nostri occhi (“Tu che leggi guarda come filano”) e vanno verso un ignoto “reale”, un ignoto che è legato alla vita di tutti i giorni, estremamente ricca di possibile.

In "negli apparecchi grigiastri e Ti vengo incontro. E’ misterioso questo", il ragazzo- Majorino ha scelto dove coltivare i suoi sogni, dove perdere lo sguardo, dove raccogliere infinite ricchezze: Milano, la capitale del nord, è il luogo dalle mille sorgenti, dove si può scegliere tra la solitudine e gli altri. Lo sguardo è rimasto lo stesso, quello di un giovane che guarda oltre lo spazio e il tempo, uno sguardo destinato però a scendere sempre più in basso, nel vissuto della gente.

Nella seconda parte (della fine degli anni Cinquanta e del decennio successivo, parallela a Lotte secondarie), lo sguardo “perso nell’infinito” viene rinchiuso. Lo spazio si restringe: il paesaggio piatto e sconfinato della campagna (I campi rossi...), la stanza-universo di “Giorni di Scuola”, la pista da ballo privata di pareti da “quel nulla che gira”, vengono costretti e compressi dentro il negozio cavo, dentro il cesso pieno di afa dove la maglia è stesa a colare, nell’ufficio strapieno di annegati che muovono gli occhi. Dei sogni giovanili rimangono “solo squame”: adesso i sogni non nascono più davanti alla finestra o alla campagna, ma sotto la doccia; non c’è più il credere ad un’unica vita “fuori dalla vita” che soddisfi tutte le aspettative, ma il rendersi conto dell’esistenza di più vite parallele, qualcuna meno importante, qualcuna forse un po’ sacrificata e qualcuna un preliminare in attesa dell’Eden. Anche l’amore fa i conti con la nuova realtà: la ragazza-zebra di “Giorni di scuola” acquista più consapevolezza, più disperazione e i suoi occhi diventano “scuri e fissi come un cane”.

E’ un periodo faticoso, forse per la nuova realtà del lavoro o forse per le cosiddette “lotte secondarie”. E’ azzardato e difficile definirne le cause, quello che mi pare evidente è che Majorino in queste poesie “combatte”. Con l’ironia, con il suo tipico sguardo del “ci sono e non ci sono”, del “sono dentro e sono fuori”, con l’ottimismo all’incessante ricerca di nuove vie. La lotta principale è quella per rimanere se stessi, per mettersi alla guida degli eventi che premono, che ribaltano e per non esserne fagocitati. Così in qualche punto affiorano nuove porte che lasciano intravedere nuovi spazi: dolcissima e liberatoria è l’immagine del “Quando ti svegli fingo/ di dormire, così, più tardi, dipingo/ la camera in silenzio...” E’ un “dipingere” diverso dal solito, sottintende un creare piuttosto che un modificare, un guardare fuori piuttosto che un rinchiudersi dentro, un osservare piuttosto che un aggredire.

L’<adesso nel lavoro fatto a pezzi/ nel lavoro> si riflette anche sulla scrittura. Mentre prima i versi risultano lineari e tranquilli, adesso diventano “frammentati”: la struttura della poesia, cioè, (l’andare a capo del verso, per intenderci) acquista una propria autonomia rispetto all’andamento della struttura delle frasi e del relativo contenuto. In “Studio per la camera da letto” tale frammentarietà viene poi sottolineata, per esempio, dal gioco di rime (assolutamente non prevedibili), che continua a spostare l’attenzione dal prima al poi e viceversa. In “L’oppositore quarantenne”, con parole che convivono stranamente, aprendo universi del tutto diversi (“d’equità equinozio equipollenza” oppure “ragionamenti voci spessa palta grigia”). In “Che che che” le parole “inciampano” (sgagna...risgagnato...sbriciolato... dove capita deve crescere...svolo fantastico...ripiglia a rigirarsi... che manca il respiro che...)

Nella terza parte (corrispondente al periodo dell’insegnamento di Majorino, al ’68, parallela a Equilibrio in pezzi e a Sirena), il tempo passa, scorre. via gli anni che erano tracannate di minuti . La morte è nascosta dietro l’angolo ed esce all’improvviso in momenti che sembrerebbero proprio escluderla. Non è poco, ammonisce col suo ridere/ la nuova faccia antica faccia d’amore/ china sul suo bambino-vecchino/ Tanto china e lucida di pelle/ da intimorire come un becchino. Morte fisica e morte di ciò che conta veramente. fantastico sciupio/ fonte d’ogni progresso, impotenza/ esportiamo nei paesi comunisti e neutrali/ la nuova morte. All’ < ansioso faccione> del tempo che scorre si contrappone l’< ansioso faccino> dello scrivere. Che cosa, se non la poesia, potrebbe infatti contrastare con uguale potenza ed intensità qualcosa che non si può cambiare e non si può fermare? Il punto centrale di queste poesie è l’emergere dunque di due nuovi interlocutori, che si disputano il mondo: l’uno ci getta irrimediabilmente nella consapevolezza che tutto ha un termine, che tutto è “attimo”, l’altro ci fa respirare, sperare, vivere di nuovo. Sono entrambi legati in modo stretto e necessario alla realtà, più che per qualsiasi altro poeta. Prendiamo per esempio la poesia intitolata “Una vestaglia interna al corpo”. Ad una realtà “esterna” si contrappone una realtà “interna”, a quel bel mucchio di morbide membra sguardi baci cuore segue una vestaglia gialla ardente interna al corpo. Non c’è un chiaro riferimento al tempo che passa, eppure questo risulta essere presente non come qualcosa che ci sovrasta , ma come qualcosa che ci costituisce dall’interno e proprio per questa consequenzialità di realtà e di immagini, le “morbide membra”, giovani, fresche, quasi eterne, perdono la loro immortalità davanti alla “vestaglia gialla”, che sprofonda vorticosamente nel desiderio di “andare non oltre, ma dentro”. E’ questo, infatti, che fa la poesia di Majorino: non riporta sulla carta parole, ma “carne”.

E’ un dialogo che continua ad alimentarsi da entrambe le parti: il tempo che scorre “sulla realtà che si vede in prima persona” alimenta la consapevolezza dello scrivere e il momento in cui si esplicita la consapevolezza della scrittura, permettendo quindi di fare una poesia sulla poesia, coincide con una maggiore apertura verso il mondo “che non viene vissuto in prima persona”, l’altro da sé che non vediamo se non in televisione o sui giornali.

La quarta parte procede parallela a Provvisorio, Testi sparsi, La solitudine e gli altri, Cangiante, Sosia. Se prima si poteva parlare (a metà) di un filo conduttore che procedeva abbastanza linearmente lungo il percorso di un’immaginazione “tenuta a freno”, temporalmente e spazialmente, adesso il tutto diventa più complesso: la scrittura esplode e implode in continuazione, creando dall’interno e ricevendo dall’esterno, improvvisamente, impulsi immaginativi che non tengono in considerazione il tempo e la sua consequenzialità (logica).

Se prima un’immagine, esaurendosi, cedeva il posto a quella successiva, adesso nella pienezza della sua espressione si rompe e si ricompone, si rompe e si ricompone, proiettando e scoprendo per qualche istante o attimo permanente nuove immagini che si legano ad essa o alle precedenti mediante congiunzioni temporali (quando in realtà tempi e luoghi sono diversi).

Il tempo nella sua accezione “classica” dunque viene meno e si sfalda anche l’idea della durata e dei tempi necessari all’acquisizione mentale di un’immagine: il tempo di un’immagine diventa il tempo di un’altra immagine, non ci sono più limiti. Per questo motivo la prima impressione che il lettore ha, in quanto situato necessariamente in uno spazio e in un tempo, è quella di “confusione”, una confusione che non è effettiva ma nasce dall’estrema libertà di scrittura. La mente cerca, come è abituata a fare, di inseguire, catturare e riportare ogni immagine per classificarla. Ma le immagini di Majorino scorrono veloci, con una loro indipendenza e senza un itinerario prevedibile. Nascono dalla libertà e si dissolvono nella libertà.

Nella quinta parte (parallela a Tetrallegro), Majorino “continua e cambia, continua e cambia”. Cambia la realtà esterna che si fa sempre più slogan e ripetizione, cambiano le armi del confronto poeta-mondo esterno, non cambia tuttavia il modo, sempre ardito e personale di Majorino, di “combattere dall’interno”. Il “sentito visto” si moltiplica e si estende in tutte le poesie, i sensi si allertano, insieme e veloci, per ricreare quella onnipresenza (artificiale) che rivendicano i mass media. Nascono i “versi slogan”, che ovviamente hanno dello slogan la struttura e il significante; il significato invece va ben oltre... (ma nessuno è, ciascuno fa; facciamo sempre finta ma è l’unica vita; chiunque preso a caso farebbe meglio; ciononostante studiare onora, ecc.)

Nascono le ripetizioni, non tanto per solleticare la memoria e garantire al verso l’eternità, ma per far riflettere, per ironizzare, per spostarsi da un campo all’altro, per dialogare con il nemico usando la sua stessa tecnica (o forse bisognerebbe dire “il meglio della sua stessa tecnica”!). Dunque, la ripetizione di un verso o di una parola, che in ambiti comuni sembrerebbe influire unicamente sul significante, qui si allarga anche alla sfera del significato.

stivaloni paludanti impedienti

rallentanti stringenti belli belli

belli belli belli belli belli

da mostrare tulipani canne

Questi versi per esempio sembrerebbero fatti apposta per una pubblicità di calzature (se non fosse per la geniale ironia che li pervade). Sono “stivaloni”, sono “impedienti”, “rallentanti”, “stringenti”, ma sono belli, belli, belli, belli!!!

o archivio i due

sono stanca di vederti, disse

sono proprio stanca di vederti

sono proprio stanca di vederti, disse

se la membrana cominciasse a tirare

vita rasente vita mia rasente

Qui la ripetitività invece apre un vissuto precedente, che le parole “non dicono”. E’ quello che spesso si sente definire come il “detto tra le righe”. In questi tre versi ripetuti e variati (continua e cambia, continua e cambia) la “stanchezza di vederti” acquista un suo peso, non metaforico ma fisico e reale. E’ impossibile “sorvolare”: il secondo verso colpisce, il terzo porta in profondità, il quarto priva di tutte le forze necessarie per tornare alla frivola superficie di quella frase, ormai svuotata e utilizzata fino alla noia dai film e dalla società. E la fantasia del lettore si scatena, tentando di rimettere insieme i brandelli di storia di una coppia, emersa soltanto per pochi secondi.

sono sospiri di verdura al vapore

bipede strilla, gli occhi chiuderà

stendendosi a bombola

a bambola! a bombola

Anche questo terzo esempio non si ferma alla pura ripetitività e al gioco basato sulla discretezza della lingua (bombola, bambola). Intanto la bombola e la bambola hanno affinità anche a livello di forma: messi sotto una coperta (come anche un cuscino), entrambe potrebbero verosimilmente essere scambiate per un corpo umano. La metafora quindi funziona molto bene. Un corpo, una vita, un inizio, una bambola, il simbolo eterno della gioia e felicità dei bambini, una bombola, una potenzialità pronta ad esplodere in qualsiasi momento, un accidentale strumento di morte, la fine. Il tutto in due parole.

Nella sesta ed ultima parte (che sarà l’inizio di una nuova raccolta: Gli alleati viaggiatori), da metafore, da puri accenni, da posizioni completamente laterali e marginali, gli animali dilatano il proprio regno e si espandono oltre i limiti prima assegnati. Majorino stesso ai numerosi incontri di poesia fa fatica a spiegare questa “nuova entrata”. Ultimamente lo hanno interessato molto i documentari televisivi sugli animali, le terrificanti scene che li vede prede e cacciatori, l’atmosfera confusa di vita e la linea sottile, spesso spezzata, che la divide dalla morte. Sarebbe forse questa lotta per la sopravvivenza la spiegazione di questa nuova presenza. Facciamo sempre finta ma è l’unica vita. E in questa sola chance l’uomo non deve proprio uccidere per sopravvivere, ma deve lottare per rimanere in vita. Le crudeltà e le brutalità di uno scontro sanguinoso tra un giaguaro e una gazzella fanno dimenticare le nostre lotte per il potere economico, per una prestigiosa posizione politica, per un parcheggio, per la scalata all’azienda in cui si lavora. Ci riconducono perciò a quello che è veramente importante: a chi muore a causa di queste lotte (per gli embarghi economici, per le repressioni politiche, ecc.), all’unica vita, al ricco e al povero che faranno la stessa fine, alla lotta per la sopravvivenza in un mondo dove diventa sempre più marcato il divario tra chi ha e chi non ha ed anche alla disperata battaglia di ognuno di noi contro la morte che è in agguato sotto i cespugli o dietro una roccia o dentro una grotta. E che prima o poi avrà la meglio.

Se da un lato la presenza degli animali ammonisce, ricorda e corregge la scala di valori qui in questo luogo e in questo tempo, dall’altro crea una porta per un’altra dimensione, non una via di fuga, ma una via di salvezza: un tempo nel tempo. E ogni volta che lo sguardo cade proprio lì, dietro la porta, su quei leoni che guardano immobili e fissi, il tempo si ferma, anzi si prolunga. E’ una presenza che incute paura, ma che nello stesso tempo conforta: ci dà coscienza di uno spazio-tempo che non è quello tradizionale, di una possibilità che accompagna sempre le nostre scelte in atto e che ci segue da vicino, di uno specchio che riempie lo spazio di piccole o grandi creature, di piccole o grandi gioie che vivono da sole, che vivono. Intensificano ogni istante temporale, spezzando e dividendo lo spazio vuoto che fa da contenitore. Sono piccole scintille con le quali il tempo brucia in eterno.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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