Claudio Risé: dibattito tra Elvio Fachinelli, Luciano Amodio, Giancarlo Majorino, Antonio Porta e Franco Catalano ("Tempo", 19 dicembre 1976)

 

 

Resurrezioni culturali/ Soppressa nel Sessantotto, la rivista "Il Corpo" ricompare ora in libreria

Allora l'editore disse: alzati e cammina

Che giudizio danno, a dieci anni di distanza, i collaboratori della rivista che combatteva la voga (assai diffusa allora come oggi) dell'<orecchiato di sinistra>? Ne discutono qui con lo storico Franco Catalano, lo psicanalista Elvio Fachinelli, il filosofo Luciano Amodio, lo scrittore Giancarlo Majorino e il poeta Antonio Porta.

 

"Il Corpo" uscì a Milano dal 1966 al 1968, raccogliendo alcuni fra i più inquieti degli intellettuali che in quella città e in quegli anni si richiamavano al marxismo: da Elvio Fachinelli a Luciano Amodio, Giancarlo Majorino, Sergio Caprioglio. Il titolo ("L'unica cosa su cui fossimo veramente d'accordo" racconta adesso Fachinelli) spiega bene la principale caratteristica della rivista: un forte richiamo alla "materialità", all'informazione precisa, magari ai testi originali, con una decisa avversione per i discorsi generici, le approssimazioni, le mode. Cessò le pubblicazioni, con senso dell'opportunità, nel giugno del 1968.

Oggi due giovani editori, Contemporanea e Moizzi, ne hanno raccolto i fascicoli in un reprint, e ripresentano "Il Corpo" dieci anni dopo. Che giudizio danno, oggi, del loro lavoro di allora i collaboratori della rivista? Perché cessarono le pubblicazioni nel 1968, ritornano in campo oggi, quando il '68 è finito da un pezzo e si dice sia in atto un pericoloso riflusso, in cultura come in politica? Pensano forse sia possibile tornare ai discorsi e agli strumenti di lavoro di dieci anni fa?

Su questi temi Franco Catalano, ordinario di storia contemporanea, ha diretto per "Tempo" un dibattito con lo psicanalista Elvio Fachinelli, lo scrittore Giancarlo Majorino, il filosofo Luciano Amodio, e il poeta Antonio Porta.

Catalano. Quando avete fondato "Il Corpo", nel 1965, si era in piena crisi economica. Si parlava, un po' come oggi, di riflusso politico, e di riflusso culturale. Come mai avete fatto la rivista?

Majorino. Ci trovavamo in quello schieramento, forse non molto ampio allora e comunque molto disperso, che si sentiva all'opposizione sia dell'ufficialità del sistema borghese, sia del Partito comunista. Era una zona ricca e molto variegata, che stentava a produrre una posizione culturale omogenea.

Fachinelli. La data di nascita non è particolarmente significativa. Già dieci anni prima era sorta l'idea di fare una rivista, che si chiamasse "Borgospesso", perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C'erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri. E c'era, telefonato, Fortini. Verso l'ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per "dare la linea", per farci sapere cosa andava, e cosa no.

Porta. Io ero un lettore del "Corpo". L'ho comprato per il titolo; e ne sono diventato lettore perché vi teneva fede. C'era allora un forte bisogno di materializzare la cultura, di farla funzionare proprio sul piano dell'informazione anche pratica. Io facevo ancora parte della neoavanguardia, mi ero formato in una rivista che agiva tra fenomenologia e illuminismo come "Il Verri". Del "Corpo" mi interessò molto l'offerta di nuovi contenuti, di nuove prese sulla realtà. L'articolo sugli armamenti internazionali con quanti carri armati avevano russi e americani, dove erano schierati e come , o quelli sui rapporti tra psicanalisi e marxismo, me li ricordo ancora oggi. Da lettore invece, proveniente dalla neoavanguardia, chiedo a Fachinelli: come mai da collaboratore del "Corpo" diventò collaboratore del "Quindici"?

Fachinelli. Non solo del "Quindici", anche di un'altra rivista molto diversa dalle idee del "Corpo", i "Quaderni piacentini". La mia crisi nei confronti del "Corpo" è molto rapida, data dal terzo numero. Perché? Mi era sembrato che il "Corpo" si fosse andando smaterializzando, che fosse cresciuta quella componente di tipo storico, critico, filosofico, in cui io non mi trovavo. Ho visto insomma apparire anche sul "Corpo" una cosa che si doveva chiarire solo in seguito, ed è quella specie di necrofilia della cultura italiana. Allora, per me fu come se il "Corpo" fosse diventato un po' un corpo morto. Non certo per le cose che ci scriveva Amodio sulla Luxemburg, che secondo me erano già '68 (anche se il '68 non ne tenne conto), ma perché l'atteggiamento verso questo tipo di cose era come guardare una specie di lezione del passato, con una forte prevalenza del passato sul corpo vivente. Ecco perché me ne uscii...

Catalano. Molti dei temi del "Corpo", la critica all'economicismo di Althusser, la "Crisi dei partiti comunisti" di Lukacs, il contatto tra marxismo e psicanalisi, la posizione sullo strumentalismo, furono poi ripresi nel 1968, quando voi avevate sospeso le pubblicazioni. Qual è la vostra posizione di fronte a questa vita ulteriore, che il "Corpo" ha avuto quando era già morto?

Majorino. Noi avevamo presentato dei testi per combattere questa voga (paurosa già allora anche se meno di oggi), dell'orecchiato di sinistra. Come dire: "Invece di citare di seconda o di terza mano delle posizioni, leggetevi i testi originali, eccoli". Certo alcuni di questi testi ebbero successo...

Catalano. Anche perché fare una rivista nel '67, era già come essere nel '68. L'aria la respiravate anche voi.

Amodio. Ma la interpretavamo in un altro modo. Lukacs per esempio: cominciò è vero dall'estremismo di sinistra, nel '18-'19, con l'utopismo, ma finì nel '26 recuperando Marx in quanto storicista, liquidatore dei battaglioni di sinistra. E anche la Luxemburg non so quanto c'entri in realtà con il '68.

Fachinelli. Va ricordato che non eravamo affatto d'accordo, tra i collaboratori del "Corpo", su quanto accadde nel '68, e dopo. Ecco perché, arrivato al '68, il "Corpo" si disarticolò. Ed ecco perché vederlo riemergere ora mi fa una certa impressione, come una riesumazione. Questa operazione non riesce a sfuggire a una certa ambiguità...

Porta. Quando si parla del '68 si ha sempre l'impressione che questa data abbia significato una sospensione dei lavori. Riproporre oggi una rivista, che si chiude nel '68 e che ha moltissime ragioni di attualità, anche nel metodo di informazione, potrebbe dunque significare: adesso ci rimettiamo a andare fino in fondo, basta con le semplificazioni e mistificazioni.

Fachinelli. Ma io non sono affatto d'accordo con il '68 come "sospensione dei lavori". E' stato piuttosto uno spostamento di campo, un salto. Ma, nel complesso, fu un momento fortemente liberatorio, con un grosso sforzo di ricerca. Durante il quale certo, si è sentita la mancanza di qualche strumento, che poteva chiamarsi "Il Corpo" o qualunque altra cosa, che fornisse indicazioni pertinenti. Io ricordo di aver detto a Amodio: la Luxemburg è uno degli elementi centrali di questa situazione...

Majorino. Ma Amodio aveva ritirato tutta la sua Luxemburg...

Amodio. Il '68 non rientrava nei quadri del marxismo classico, né di tipo social-democratico né di tipo comunista. Sì, c'era stato qualcosa nei "Manoscritti", o nel Lukacs di "Storia e coscienza di classe" con il saggio sulla disalienazione. Ma poi basta.

Fachinelli. C'era stata la rivoluzione d'ottobre...

Amodio. La rivoluzione d'ottobre equivale alla fine del '68. Il periodo '68 del 1917 va da febbraio a ottobre. Poi la festa è finita.

Fachinelli. Può darsi che il marxismo "classico", tranne Lukacs, ignorasse il '68. Ma questo è il marxismo della cattedra: nel marxismo vivente, invece, il '68 aveva avuto dei precedenti. Se noi siamo stati sorpresi da questo fenomeno, è perché in effetti il marxismo era diventato una specie di cattedra armata o di burocrazia del castello, sennò non avremmo fatto fatica a riconoscere quel movimento per un processo rivoluzionario in atto.

Amodio. Per noi la rivoluzione marxista è la rivoluzione del produttore, di chi finalmente lavora creativamente, in proprio, ma lavora. Ecco perché di fronte al '68 avevo il problema: ma dopo come funziona la produzione? Come si producono le merci?

Majorino. Adesso comunque il '68 è finito da un pezzo. Ha lasciato un antagonismo molto marcato, tra "sistema borghese" e forze anticapitalistiche, ma ci ha anche insegnato la grande forza e complessità della borghesia, che l'ha resa capace di una efficace tenuta. Ora il problema è di innestare la complessità in questo campo antagonistico. Se ci si sottrae a quest'operazione , o si lavora a ruota libera in un proliferare di iniziative ininterrotte, o si fondano partiti di sinistra che sono già arretrati nel momento stesso che si costituiscono.

Fachinelli. Un momento. Più che d'accordo sulla complessità, ma non sull'<innesto> di cui parla Majorino! Qui, mi pare, si profila un'operazione dall'alto, di stampo illuministico. La complessità è già nel reale: si tratta solo di ritrovarla. Anche il comportamento più banale, sia individuale che di massa, ha in sé una complessità, uno spessore di piani diversi che solo standoci dentro possiamo individuare e nominare. Solo in questo modo eviteremo ogni, anche involontaria, "Restaurazione".

Catalano. Calarsi nel reale dunque. Tenendo d'occhio l'abilità della borghesia nel recuperare le posizioni perdute nel '68. Da questo punto di vista, certo, la generazione che è partita sulle ceneri del "Corpo", quella appunto del '68, si può considerare sconfitta. Ma la nostra storia, dall'Ottocento ad oggi, è piena di generazioni sconfitte: sconfitti quelli del '48, quelli della Comune di Parigi, sconfitta la generazione del primo Novecento, i Gobetti, Gramsci, Rosselli, sconfitta la generazione degli anni Quaranta, i Colorni e i Ginzburg. Tutti sconfitti. Eppure è quello che queste generazioni sconfitte ci hanno lasciato che ci consente di continuare a sperare di poter vivere in un mondo migliore.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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