Mario Santagostini (“Istmi. Tracce di vita letteraria” a cura di E. De Signoribus, Arti Grafiche Stibu, Urbania, 1996; presente inoltre, insieme ad altri testi critici, nell’Autoantologia di Giancarlo Majorino, Garzanti 1999)

 

 

  1. Bisognerebbe rileggere l’intera poesia italiana degli anni Sessanta. Non tanto per confermare i picchi storici, quanto per visitarne i laboratori e gli intendimenti. Così, andrebbero riesaminati quei testi più trasparenti nella loro intenzione di oltrepassare i confini istituzionali della letteratura. Ricordiamo come, in quegli anni, era entrata in scena la critica strutturalistica che intendeva definire una volta per tutte quello che chiamava lo “specifico” della letteratura. E notiamo che, contemporaneamente, si tentava di andare oltre ai limiti che venivano tratteggiati. Così, gli “operatori” – spesso fusi nella figura del poeta-critico – vivevano e sfruttavano un atteggiamento insieme ambiguo e ricco di promesse: definire che cosa è la letteratura, tentare di stabilirne le coordinate di “accettabilità”. Per procedere poi al di là d’ogni normatività. Verso un ruolo sociale al quale la letteratura sembrava, in quegli anni e per alcuni, destinata.

 

  1. L’idea che la letteratura ha come obiettivo qualcosa che le sta oltre non è certo nuova. Manzoni affermava esplicitamente che il fine delle lettere è trasformarsi in una parte delle scienze morali. Rebora intuiva che dentro la poesia c’è una sorta di idea teologica seguendo la quale essa si lancerà e forse si scioglierà in un terreno più vasto: emerge dalla vita collettiva e dovrà tornare, alla fine, ad esserne parte. In ogni caso, c’è una “scuola” (ma forse è più corretto parlare di un atteggiamento) in base alla quale la poesia è destinata a rientrare in un orizzonte storico-mondano più ampio. Guarda oltre a sé. Il suo fine reale è arrivare a perdere la propria separatezza. Il che è, a ben vedere, una delle tante variazioni sulla “morte dell’arte”. La migliore, forse. Cosa c’è oltre la poesia? In verità, il problema di un mondo post-poetico ha avuto un ventaglio di risposte. Nessuna conclusiva. Finora.

 

  1. Comunque, questa “idea” sulla poesia circola parecchio, nel Novecento. E assume molte sfaccettature. Ma sempre in posizione minoritaria, perdente. Il Novecento, di fatto, è attraversato da una costellazione di idee-base ancora impressionistiche o tardosimboliste: l’opera verbale ha in se stessa e solo in se stessa le garanzie del proprio valore. I versi esemplificano stati d’animo, nei versi la (cosiddetta) realtà si esaurisce e si chiude. Ora: più che col neorealismo del secondo dopoguerra, è negli anni Sessanta che questa costellazione di certezze sembra entrare in crisi. Ed è in quegli anni che – a volte confusamente – si diffonde l’idea di una poesia mirante a farsi rappresentanza verbale di una realtà con la quale intrattiene anche un rapporto di reciproco scambio. Gli effetti di questa reimpostazione – chiamiamola così – furono molteplici e ormai consegnati alle antologie; assunzione di registri narrativi dentro il discorso lirico, ri-utilizzo in sede letteraria del parlato, uso della forma poematica. Il catalogo potrebbe continuare.

  2.  

  3. Ma l’effetto più importante si ebbe forse in sede tematica, non tecnica. Negli esiti più alti, la rinnovata sensibilità verso la realtà pre-letteraria, di fatto, portava a un’attenzione alla “vita” intesa non come il fluire astratto delle cose o come quotidianità stereotipata in reperti stilistici già desueti, tardivamente crepuscolari, ma come collettività da cui l’io singolo emerge e in cui torna a immergersi. Insomma, gli esiti più alti erano dati dall’ascolto di voce comune. Nella quale si esprimevano le pulsioni le meraviglie e le miserie di una società. O, se è lecito scriverlo, si esprimeva lo spirito di un’epoca. La forma del poema-canto sembrava, in quel momento, la più adatta a concretizzare verbalmente la voce comune.

 

  1. Non a caso, a ridosso di quegli anni vedono la luce due dichiarati poemi-canto quali La ragazza Carla di Elio Pagliarani e La capitale del nord di Giancarlo Majorino, ambedue vere e proprie “storie in versi” milanesi. Superfluo, oggi, tracciare la genesi delle differenti “strutture” dei due testi per tanti aspetti omologhi. Notiamo solo che, mentre Pagliarani si muoveva tendendo ancora ben presente la distanza tra l’ambito lirico e quello narrativo, Majorino opera invece una più convinta “carnevalizzazione” dei momenti, impastando nel testo tensione lirica, attenzione al dettaglio, indignazione morale, ironia e la metariflessione sulla poesia. Anche il verso è assai irregolare. Passa da uno sfondo di endecasillabi sciolti con battuta in prima posizione (verso epico e antilirico...):

  2. Contro il centro e soltanto qualche raro

    sabato sera in blu nei suoi ritrovi

    s’addensa l’altra razza la sicura

    nemica della pace dei signori

    alla più sofisticata e cantabile serie di settenari piani e tronchi alternati, quasi un verso “a serpentina”:

    Guardando le inserzioni

    il laureato va

    come una bella barca

    traversa la città

    fino al prosaico verso libero:

    Ma tutte le volte che aprivo il nome di Spagna

    erano ancora cartoline soltanto cartoline illustrate

     

  3. Ma forse non è neppure interessante fare il computo dei versi ed andare alla ricerca di tutte le eventuali provenienze o influenze, che per altro Majorino mostrava di assimilare con un’autonomia assolutamente sorprendente per un giovane dotato d’un “orecchio” in grado di far lievitare le varie atmosfere in un tono unitario. Quello che (ancora oggi) interessa sta soprattutto nel fatto che l’ispirazione lo conduceva sempre di nuovo a mescolare le numerose tensioni compresenti per giungere a un poema narrativo complesso, magmatico, carico di tensioni. Che precipitavano tutte in una “forma-canto” affrancata dalle canoniche censure tra poetico ed impoetico.

 

  1. In verità, La capitale del nord era un grande contenitore, un ipertesto tonale che armonizzava molteplici assoli, assemblandoli e amalgamandoli al suo interno. Come se più voci confluissero nell’unica voce possibile: quella che “musicava” una socialità poeticamente ricompattata e rappresentata nella sonorità ricapitolante. Che Majorino era in grado di intendere e trasferire verbalmente. Come pochi. Perché in quegli anni, forse, era ancora possibile ascoltare una vibrazione concorde. O i suoi echi estremi.

 

  1. Majorino (è stato detto spesso) è un poeta profondamente, eminentemente civile: nei suoi versi confluiscono voci disperse. Voci autentiche. Anche quelle dei cosiddetti umili. Si riallaccia così alla grande tradizione della poesia urbana lombarda. Majorino (forse non è stato detto) con La capitale del nord metteva insieme attraverso la forma-canto una comunità di individui in realtà slegati, in concorrenza tra di loro. Che, attraverso le loro rappresentanze verbali, entravano a far parte del canto e lì venivano armonizzati. Quasi che nella forma-canto precipitasse l’equivalente sonoro delle vite disperse. La cui solitudine era risarcita dalla presenza in un canto comune, dove il tutto conta sempre più delle parti. Dove la mia voce ha un senso perché connessa a quella altrui. Da questo punto di vista, Majorino si riallacciava allora alla cantabilità collettiva, e alle radici più profonde nascoste e lontane della poesia lombarda. All'’nnografia. Rileggendo a distanza di anni La capitale del nord, insomma, non metterei più l’accento sulle spie stilistiche tese ad evidenziarne l’intenzione realistica o epica (come l’ossessiva attenzione al dettaglio), ma su quella tensione alla coralità, su quella volontà di rendere trasparente e armonicamente sensibile lo spirito di quell’epoca. Che è scomparsa. E con essa la sua cantabilità. Non a caso, la forma-canto è un calco su cui poi nessuno si costruirà più nulla2. Eppure la poesia di Majorino dopo La capitale del nord è tutta sotterraneamente attraversata proprio dalla nostalgia per quella cantabilità3. Alla quale, politicamente, sono state tagliate le ragioni d’essere.

 

  1. “Segata via” la possibilità di assemblare le voci di un coro, restano gli assoli. Tolta la sintesi armonizzatrice, rimangono i singoli. In concorrenza e in lotta. La lotta “pura” in senso elementare, biologico è uno dei fili conduttori dei libri successivi di Majorino4. Conflitto e lotta: ecco le vere radici ultime della vita. Soprattutto della vita urbana. La città diventerà un gigantesco teatro di violenza diffusa. Metafora viva e presente di una storia fatta essenzialmente da orrori che a volte riaffiorano nel presente:

  2. Tozze case scientificamente disposte

    quasi filari alveari (non paragoni)

    zeppi di scheletri umani prima di notte saranno

    sotto le docce del gas a scavare fosse terra che poi coprirà

    le membra umane aghi pinze (...)

    (Achtung in Lotte secondarie)

     

  3. Quotidianamente, violenza e agonismo appaiono sublimate dalle cosiddette convenzioni. Questo – e non il canto – è il terreno comune che tutti accolgono e in cui tutti si riconoscono. Per chi possiede una coscienza morale “alta”, si tratta di uno squallido ripiego rispetto a valori che vorrebbe ben più forti. In ogni caso, la socialità quotidiana si fonda su esse. Questo dato ha uno stretto rapporto con la poesia, dal momento che Majorino, in Lotte secondarie, appare attento fino alla pignoleria proprio a cogliere l’attimo in cui le convenzioni incontrano un punto di cedimento e diventano più deboli. Lasciando trasparire la miseria dei rapporti reali che nascondono, il loro squallore, la loro inevitabile quota di violenza. Qui, non agisce soltanto il moralista (lombardo, cattivo e accurato). Ma una volontà demistificatoria tesa a ritrovare, sotto le convenzioni, la vita vera, pulsante. Autentica. Cupamente autentica. Nei confronti della quale però Majorino non assume l’atteggiamento straniante o irridente, “à la Karl Kraus”, ma sostiene una adesione simpatetica, tesa e a volte commossa. Sfondato il velo della socialità, si raggiunge insomma una verità umana a cui bisogna aderire. Anche se sgradevole.

 

  1. Il dettaglio che “sfonda” l’apparenza convenzionale può essere il risultato di una attenta esplorazione visiva, ma anche il portato d’una attenzione verso il linguaggio nei suoi punti di minor forza. Cosa c’è di meno convenzionale della lingua? Una parola (un lapsus, una invocazione, una sentenza) può smascherare un individuo intero o un gruppo di individui, renderli trasparenti, esporli. Vanno allora descritti in quella condizione “auratica” di radicale, ritrovata e abbagliante verità senza trasfigurazioni. “Majorino è l’unico scrittore che abbia resistito, in un latrato di fedeltà verso i vivi e i perduti, senza cadere nella trovata manieristica e autocompiacente”.5 Rompere l’apparenza significa dunque da un lato esercitare una autentica coscienza critica, dall’altro verbalizzare le cose stesse. Opporsi due volte: al feticismo e alle “fabbricazioni del bello” consolatorio o apologetico. La poesia di Majorino era (ed è) attivismo demistificatorio, tensione verso un “vero” da ottenersi cercando i momenti dove le convenzioni dell’apparire si lacerano, perché – scriveva – “continuamente vengono alla luce forme, riflessioni, atti non integrabili”. Dietro l’apparenza, dietro ai punti di vita consolidati non compare un valore socialmente riconosciuto con cui, simbolisticamente, ci si identificherà consolatoriamente, ma qualcosa di estraneo, di inquietante. Da questo punto di vista, Majorino è uno dei pochi eredi spontanei di Brecht.

 

  1. Un dato a mio avviso notevole: il “vero” per Majorino non si identificava con il sublime rovesciato, basso, crepuscolare baudelairiano. Come capitava a tanti suoi coetanei. Uno degli esiti poeticamente più alti e più originali di Lotte secondarie era costituito dal fatto che quanto veniva evidenziato dietro l’apparenza o la convenzione conservava sempre e comunque un margine di forte neutralità rispetto agli strumenti utilizzati per farlo manifestare o per definirlo. Se è la parola ciò che comunque “apre” il terreno in cui le cose e la vita reale entrano in una luce “obiettiva”, queste ultime con la parola poetica dovranno aver poco a che fare. Detto altrimenti: la poesia mi serve fino a quando farà comparire una parola non più poetica: la parola materiale, autentica, vitale. Che a qual punto rifiuta ogni sublimazione letteraria: perché è allo stato puro, pre-letterario e pre-culturale. Il “paradosso di Majorino” è tutto lì: nell’ostilità (polemica, quasi agonistica) verso la retorica. La parola materica, antilirica ed “ostile” può poi assumere un ventaglio di manifestazioni assai vasto: molto spesso è stato messo in evidenza il terreno dissociato, il magma linguistico che Majorino raggiunge e che a volte viene scambiato per il risultato d’un atteggiamento “sperimentale”. Personalmente, mi sembra che vada notato invece che forse la zona di maggior resistenza alla retorica, di più intensa ed autentica materialità è raggiunta allorché viene scoperto un parlare assolutamente anonimo, elementare. Fatto di inerti semitautologie: che tuttavia proprio per questa inerzia mantengono una sorta di durezza radicale. Le strutture frastiche alle quali non si può ormai più aggiungere niente: restano lì, irriducibili a ogni contestualizzazione e ad ogni musicalizzazione verbale. Estranee ed inquietanti. Lingua azzerata, propria (forse) di una umanità semi azzerata che si attacca ancora una gnomica stralunata prima di precipitare nell’afasia o nella balbuzie insensata.

  2. Sopra di noi e sotto di noi

    sopra e sotto vi è la continuazione di noi

    (Pianoterra)

    Questa carta da mille

    sotto il piede del vento

    sul lago sono io?

    (Disoccupato)

    Echi, frammenti. Pezzi di un discorso più ampio scomparso. O diventato inascoltabile. Forse di quel canto collettivo che dopo La capitale del nord non è più possibile.

    (Una lunga parentesi. Majorino è un poeta realista: lo si è detto spesso. Quello che si dimentica ancora di dire è che dietro l’attenzione alle cose non c’è affatto una opzione letteraria e forse nemmeno etica: c’è invece un atteggiamento preculturale di assoluto, elementare, biologico “amore” erotico per una vita che non sempre si lascia cogliere. C’è insomma la fisicissima nostalgia per i corpi vivi che stanno sotto alle maschere convenzionali. Corpi che attirano simpateticamente, sessualmente. Dietro il realista e il moralista indignato dalle convenzioni non c’è l’anarchico o l’exlege ironizzante ma un io pulsante, materico che vorrebbe incontrare la vita reale sempre e comunque, senza ostacoli. Io lanciato oltre se stesso. Costretto a un movimento semisuicida: tende a investire tutto del proprio eros, del proprio senso. Cerca dunque se stesso nelle cose. Trova la dura e inappellabile diversità. Allora l’eros è come costretto a rientrare in sé. Respinto da quella stessa vita verso la quale si trascendeva. Diventa disforico, malinconico. Perennemente disilluso. Nota le mancate appartenenze con il mondo. Nota la propria alienazione. Incontriamo a questo punto un’altra etichetta parziale: Majorino è un autore politico. Forse perché un suo libro si intitolava Lotte secondarie e compare perfino un riferimento al milazzismo? O forse perché scrive “noi di sinistra”... Probabilmente: sono tutti segnali depistanti. Cornici. La politica c’entra, ovviamente: la polis è parte della vita. Ma non ha il primato assoluto in questo pendolo tra l’euforia e la disillusione devastante.

    La politica è una delle possibili modalità d’una disforia eterna. Ancora oggi, come non riesco a vedere nella parabola malinconica di Lotte secondarie un libro interno alla koinè linguistica o tematica delle avanguardie, così non colgo alcun segnale vero di antagonismo o di opposizione politica condotta attraverso una letteratura “materialistica”. E mi sembrano due grandissimi pregi).

     

  3. Chiuso l’excursus, torniamo a rimarcare come la quota di realtà autentica che la demistificazione di Lotte secondarie individuava era elementare, poverissima. Realtà ottusa. Che non poteva essere investita di alcun senso ulteriore e che, dunque, resisteva a ogni invasione. Anche a quella della storia e della politica. In fondo, era un terreno rassicurante. Ma dopo Lotte secondarie, dopo Equilibrio in pezzi, nemmeno queste minutaglie di certezza appaiono più stabili. Perché, in fondo, il loro ritrovamento garantiva ancora un debolissimo margine di neutralità: come se la parola materiale, irriducibile e pesantemente tautologica che lì si riverberava avesse in sé una sorta di misterioso principio di autosufficienza e di resistenza al cambiamento. Uno spazio proprio che, insomma, non faceva i conti con nulla perché ad esso nulla sarebbe mai andato ad aggiungersi. Una zona di poesia “pura”, insomma. Nulla di male. Ma questo significava venire meno ad una ispirazione. Perché si correva il rischio di rimanere “più o meno impigliati nell’iconicità” dell’essenzialità, come scrisse lo stesso Majorino licenziando Provvisorio (1984). Inoltre, la tensione a spezzare le convenzioni per arrivare alle cose stesse, era, forse, l’estremo residuo di un atteggiamento volto a trovare un momento privilegiato nell’essere. Ma persa la fiducia anche in queste zone eccezionali della vita, Majorino cerca di recuperare nelle cose una sintonia modulare che le riavvicini all’io, ne abolisca la distanza. L’accesso alla vita autentica, insomma, avverrà trovando una cifra comune tra io-eros e realtà. Come se, anni dopo La capitale del nord, appaia ancora possibile perseguire il sogno di un’armonia che leghi nuovamente l’individuo-monade alla sua realtà.

 

  1. La ricerca verbale di Provvisorio è, dunque, una ricerca essenzialmente ritmica. Volta ad afferrare la metafora sonora della vita reale. Attenzione però: “sonorità” non è l’armonia astratta e sublime degli ultimi (tanti) poeti simbolisti. Al contrario, Majorino tenta di metaforizzare e trovare un punto di unificazione, un correlato fonico a tutti i dati dell’esperienza sensibile: del suono come della vista e del tatto. Del corpo inteso come totalità esogena ed espressiva: totalità erotica. La scrittura magmatica, instabile di Provvisorio ottenuta “continuando – e – cambiando modi, posizioni, ritmi, relazioni, relazioni tra ritmo, senso e metro e così via” è il terreno comune nel quale si incontrano io e realtà. Detto in maniera paradossale: quella lingua è la sonorizzazione di un luogo atopico dove tutto converge, la cifra comune che io e la mia realtà possedevamo forse prima di dividerci in due terreni diversi e lontani e nella quale ci riconosciamo ancora. Non è una lingua pulsionale, ctonia.6 Né tantomeno una lingua che risulti dalla sperimentazione che abolisce i generi e starebbe in bilico tra il lirico e il narrativo e magari qualche residuo di linguaggio settoriale o quotidiano. Semmai, è l’altra facciata del canto supercollettivo che era dato ascoltare nella Capitale del nord. Un canto che, se non lo si può più ascoltare nella sua armonia, si lascia ancora intendere in un magma di voci apparentemente sconnesse, spezzate sul nascere. Che non sanno più articolare nemmeno frasi elementari, anonime. Ma si accontentano di pezzi di parola. A volte di sillabe.

 

  1. La lingua di Provvisorio fonda fonicamente una zona di reciproca coappartenenza tra l’io-eros e il mondo. Ascoltandola o “parlandola”, io ascolto di me stesso e le cose, parlo di me stesso e delle cose. Incontro l’indice sonoro delle cose e di me stesso. In un terreno che non appartiene ancora né a me né alle cose. Molti osservatori hanno fatto notare che quella lingua apparteneva forse alle lingue cosiddette pulsionali. In realtà è vero il contrario: quella di Provvisorio era ed è una lingua assolutamente innaturale: è utopica, forse edenica. Precaria, provvisoria: non nasce da un terreno consolidato o primigenio ma dalla pura reverie sonora dell’immaginazione. Io posso configurarmi e ritrovarmi in questa lingua solo nel momento in cui la estrapolo da ogni parlante possibile, da ogni convenzione verbale, da ogni situazione concreta: la lingua che non si è ancora calata in contesti reali. Lingua dei sogni.

  2. La vastità dell’esperienza indiretta,

    tramite gli occhi in testa e ritorno, la superficie che

    non è l’opposto della profondità ma la sua vice

    (Fare, in Provvisorio)

     

  3. Majorino proponeva un linguaggio proveniente da un terreno anteriore (o posteriore) a ogni sé monadico, singolo, isolato. Indipendente dalla individuazione e dunque da ogni strategia comunicativa. La lingua di Provvisorio antecede la retorica e non è fatta per essere utilizzata. E’ unicamente proposta: possiede una sintassi e una semantica a volte estremamente sofisticate, magmatiche o sottili.. Ma manca sempre e comunque di una pragmatica. Apparentemente richiama a materiali logorati e abusati. In realtà è una lingua pura: non riesce o non vuole diventare discorso. Non ha storia o futuro: evento verbale e null’altro. Fonìa d’una corporeità ancora astratta, che viene prima di questo mio, questo tuo corpo. Curiosamente, Majorino individuava in un luogo “storico” preciso e relativamente marginale (rispetto alle grandi coordinate mediali) quale le cosiddette assemblee “del movimento”: dove c’è in apparenza la dialogicità, e dove in verità si attua caos verbale. Lì sta il luogo dove questa lingua astratta ottiene una manifestazione sensibile. In effetti, lì è dove convivono narcisismo solipsistico e comunicazione. Dove si parla di se stessi per convincere gli altri. Lì, verbalizzare il mio vissuto era fare anche azioni retoriche inconsapevolmente.

  4. (Ipotesi tutta da verificare: nella Babele assembleare vive (viveva) la contro-immagine “moderna” del canto collettivo. Quello che La capitale del nord ascoltava).

     

  5. In ogni caso: Provvisorio “dimostra” che, anche nel tempo dei grandi eventi mediali, c’è ancora una lingua minore e paradossale (o frammenti di lingua) coabitata dal mio io e dall’alterità: dalla “mia” monade e da quella degli altri. Lingua in cui si riconoscono e in cui parlano tutti. Insieme. E’ “curioso” però come Majorino non riesce mai a raggiungere una solitudine totale, una cifra lirica individuale che faccia parlare un io isolato. E’ curioso come il sé è sempre in relazione ad un “tu”. Questo sembra il dato invalicabile, intrascendibile. Che attraversa l’intera opera e ne orienta ogni sfaccettatura. Così La solitudine e gli altri (1992) è una raccolta in apparenza frammentaria che parla in una lingua astratta asciutta, purificata. Attraverso la quale è possibile riferirsi a sé e a quanto sta al di là. Forse ai cosiddetti “altri”. Che tuttavia restano un mistero che nessun eros riuscirà a raggiungere o ad impadronirsi. La lingua è, ancora una volta, pre-dialogica. E tuttavia, ora non si presenta più come l’indice riassuntivo e ricapitolante di una vocalità paradossalmente anteriore a tutto e diffusa in tutti. La sua origine è assai più remota. Come se la fonìa di Provvisorio avesse voltato le spalle alla propria origine materica, e allora rimane unicamente il suono: come un dettato verbale astratto, senza più soggetto. Dettato quasi impersonale meccanico.

La voce detta o stampata

suona da lontananze

come da autoparlante

(da La solitudine e gli altri)

E’ stato notato come qui la dimensione è quella della lirica. La misura dei versi sarebbe un buon sostegno questa tesi. Eppure, i percorsi della raccolta mostrano che, proprio dove l’io tenta di cogliersi nell’assoluta unicità, lì non può fare a meno di afferrare gli altri, non può evitare di connettersi e di riconoscersi in una alterità che lo accogli e che in qualche modo lo chiama a sé. Alterità non ben individuata, spesso semianonima, impersonale. O afferrata attraverso dettagli. Ma che proprio per questo si presenta come il dato in possesso di una evidenza dura e assoluta. Insomma: se la lirica è la manifestazione verbale del sé isolato, unico, La solitudine e gli altri è allora il libro più radicalmente antilirico di Majorino. Perché in esso, alla fine, il sé esiste (ontologicamente) solo come punto di partenza per relazioni. Che lo trascendono. Forse, la relativa serenità di questa raccolta (che si esemplifica in un verso spesso leggero, nel recupero d’una cantabilità pre-ermetica) è dovuta proprio al fatto che l’elemento ultimo non è l’isolamento della monade precaria destinata a terminare con la morte, ma un orizzonte più vasto costituito dalla intersoggettività.

(Come se infine il circolo si fosse chiuso. Tornando come per circoli che via via si allargano, al punto di partenza: la collettività. Il canto).

 

  1. Ed ora, leggiamo Tetrallegro.

 

 

Note

1 M. Cucchi, Introduzione a La capitale del nord, Edizioni dell’Arco 1994. L’edizione del 1959 di Schwarz è pressoché introvabile.

2 L’Angel di Franco Loi avvierebbe un altro discorso: sulla forma-romanzo. Ma non sulla forma-canto. Quella è stata espiantata.

3 Come la poesia di Pagliarani dopo La ragazza Carla.

4 Lo diventerà anche per altri autori. Ad esempio Antonio Porta.

5 R. Pagnanelli, Su Majorino, in: Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento, Mursia, p.147

6 Zanzotto andava, in quegli anni, in questa direzione. Majorino no.

 

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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