Il mio-di lei silenzio in camera da letto 

di Paola Cusumano

("Il Manifesto", 22 febbraio 1979)

 

L'altra sera sono andata in via Montesanto 8, a Milano, all'Out-Off. C'era Paolo Bessegato che interpretava un testo di Giancarlo Majorino, Uccellino meschino. Sul manifesto ne ha già scritto Parazzoli, l'8 di questo mese. Ne scrivo anch'io, per raccontare cosa ho visto e capito, cosa mi è venuto in mente dopo, pensandoci e parlandone con altri e altre.

L'azione avviene in una camera da letto, dalla quale si entra e si esce. Fuori si è per strada, in auto o sul tram. Sempre solo, dentro e fuori, sempre perplesso e desideroso, Majorino entra ed esce, si interroga, afferma, si agita, aspetta. C'è entrato davvero in quella camera da letto, e chi c'è lì dentro, lui e l'amata, lui da solo, tutta la famiglia, lui lei e lui, ammiratori sostenitori e spettatori? Non starà facendo l'amore solo? E fuori, nel movimento incessante del proprio corpo isolato, chi non gli parla e non lo guarda, chi lo costringe a fare tutto da solo? E cos'è quel rumore che non gli fa sentire l'altra lì sotto, chi grida sopra la sua testa, chi guarda lei alle sue spalle? Io mi chiedo: non starà dialogando con la morte? O magari combattendo, adesso che fa tanta fatica a compiere il coito, o la sfugge, sempre solo, fuori e dentro, piuttosto frenetico. Mi vien da ridere anche, qui non si decidono le sorti del mondo, questa è poesia, perdio, e se per un momento lo spirito mortale mi ha legato i denti (tutti zitti infatti, alcuni coi capelli ritti in sala), adesso c'è leggerezza, la superficie -crosta allegra del mondo. Fondo di durezza e sopra d'ironia, tutt'e due qui, nel luogo comune della conoscenza comune, dove ci siamo tutti: Majorino che ha scritto, Bessegato che interpreta, io che ascolto e altri.

Bessegato è l'interprete, il corpo e la voce del testo di Majorino: qui dentro (l'orribile Out-Off), né camera da letto né tram, luogo non vero, né fuori né interno, prestato o presunzione di realtà. Paolo fa una storia di Giancarlo, aumenta la perplessità, i dubbi di Giancarlo sono anche i dubbi di Paolo, poi Paolo ne ha per conto suo; ma in più: lui ha un corpo e allude, le funzioni del corpo; quelle false-alluse funzioni sono un fuori rispetto alla voce che dice l'unico vero oggetto nel luogo: le parole della poesia. Attraverso Majorino-Bessegato-Majorino la storia si moltiplica: in quel letto su quel tram c'ero anch'io, anche se non l'ho mai visto, l'oggetto è sconosciuto.

Bessegato è molto bravo: sembra Majorino, Totò, Randone, mio padre quella volta e Paolo Bessegato, suda distinto ondula allusivo, accelera la salivazione in sperma, ma sempre lì con gli occhi al foglio dattiloscritto, rigorosamente solo e trattenuto, non dimostra nulla.

Poi ci sono io -donna seduta. Come sempre zitta, guardo ascolto, penso. Lì, ma anche sgusciata fuori, più in qui per pensare meglio. "Noi non ci siamo, la donna è assente, non c'è", dice Marisa al mio fianco. Porca miseria, è vero, ma lo davo per scontato, non me ne sono accorta. C'è il mio silenzio, che ci riguarda, e non è un brusio di sottofondo: lui vede l'album di famiglia, lei il soffitto o il lenzuolo, a tua scelta. Dopo lui ha fretta di uscire. Penso che a me piacerebbe trattenerlo, stare a parlare. Quella storia mi interessa, mi guarda, parla con me per fortuna. Il mio silenzio non è perplesso come quello di Paolo che contorna le parole di Giancarlo, non è la parola mancata; non gronda silenzi di altri costretti, non circonda non è atmosfera, è distanza forse assenza. Qui o altrove mi agito ma non parlo. Lui dice che se ne sta sempre solo, in tram o in camera da letto: io so che lei gira zitta tra il letto disfatto e i bicchieri da lavare e parla al telefono o con l'aspirapolvere. Il suo silenzio non è popolato di fantasmi, ma vuoto perché lui se n'è andato, o zitto a leggere, o parla da solo. Il mio-suo-di lei silenzio è popolato di frullini e bambini, e quando arriva quello vero, il tuo, ha paura di altri fantasmi, quelli che ci fanno sole-senza.

Le tazzine nell'acquaio non ci permettono di ascoltare il telegiornale. In camera da letto il silenzio è la sua assenza, stanza in attesa: non ha ancora detto che ci ama.

Non va bene così, a me, a Majorino o a Bessegato. E allora, non pacificata, ascolto Bessegato che dice Majorino. Mancano un sacco di cose in quella storia: manco io, e lui quand'è diverso, ci sono buchi di cose non capite, non ci sono arrivati, o cose ancora difficili da dire, o che dovrebbe dire un altro-altra. C'è fatica, la difficoltà e la fretta, la comunicazione al galoppo, gli inciampi, una cassa di risonanza intensificata della nostra vita quotidiana. Meno male che non mi racconta tutto, non si spiega come sta il mondo che va così male, non si lamenta anche per me, non fa il tragico e non si colpevolizza. Così capisco qualcosa anch'io, ho tempo di pensare, sorridere se la so più lunga, non sono costretta ad accorrere al suo scrittoio a consolarlo e ammirarlo, così colpevole ma così totale.

 

 

Poesia. L' <uccellino meschino>, 

composizione per soli uomini. 

di Vittorio Parazzoli 

("Il Manifesto", 8 febbraio 1979)

 

 

MILANO. "Uccellino meschino" è l'ultima composizione di Giancarlo Majorino, presentata, in una versione che sta fra la lettura e la drammatizzazione, da Paolo Bessegato nel quadro della rassegna "Sex poetry" in corso all'Out-Off di Milano.

L'uccellino è, fuor di metafora, un piccolo leopardiano animale che vola. Non è certo l'impenitente "lui" di Moravia, anche se i nidi su cui va a posarsi sono pur sempre gli stessi; proprio per questo si sente "meschino". Majorino sa che le cose sono solo i limiti dell'uomo, ma, giustamente, ha paura di farsi trasportare dai venti dell'irrazionale. Egli stesso si è definito, in una sua poesia, "Diffidente e Artista" nello stesso tempo. Un'ironia boudelairiana, che oggi però è sconvolta da una realtà sempre più fangosa e, dall'altra parte, dal prospettarsi di soluzioni che esulano dalla dialettica di un'analisi ragionata. La domanda che si pone Majorino è se, in questa situazione, sia possibile recuperare l'uomo. Ritornando alla metafora, i due poli possono essere individuati nell'impotenza e nell'orgasmo, in mezzo ai quali sempre più sembra esserci il nulla, o una normale schizofrenia.

Il poeta decide allora di calarsi da queste due vette, seguendo un percorso parallelo, per operare una continua coraggiosa presa di coscienza o con il fine costruttivo di rovesciare l'esistente per criticarlo dall'interno o per poi risalire a ristabilire un sistema di valori, forse non pretenzioso, ma sicuramente integro, onesto. Ma gli ostacoli sono numerosi e agguerriti: tanto per iniziare, come si può fare l'amore con un altro che ti guarda e di più, senza sapere chi esso sia? Potrebbe essere uno speaker della tv lasciata accesa, o solo lo scherzo di uno specchio, o veramente, perché no, un altro che lascia il letto caldo e se ne va. La nostra cattiva coscienza ci perseguita anche in questi momenti. Sul versante pubblico, sociale, niente di meglio: è un reciproco continuo beccarsi, tanto per credersi un po' meno impotenti degli altri: "io sono esperto di teatro" e "io sono più bello"; "io non sono stupida... sono ricca" e "Sono un intellettuale"; e così via. (...)

Giunto a queste constatazioni Majorino si ferma (per la cronaca, il finale è una surreale pioggia di fuoco): perché il suo è un lavoro in progresso, per ora senza fine, proprio perché c'è ancora un'oggettiva impossibilità anche solo di azzardare una soluzione, ma con un suggerimento molto importante: che la poesia si può fare strumento di analisi e che giustamente rivendica questa sua utilità.

 

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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