Intervista al poeta G. Majorino

 

Barbara Pietroni: Se ogni momento e ogni persona diventano centrali, allora inizio a spiegarmi questa tua particolarissima "accensione d'entusiasmo derivante dall'apparizione di più esseri"...

 

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Giancarlo Majorino: Se dovessi dire la radice di quel mio atteggiamento su ciascuno come singolo di molti e sull’importanza dell’unica vita, dovrei probabilmente risalire all’infanzia, a quando cioè arrivava mia madre e mi toglieva dal buio, dalla paura, da ogni tipo di immaginazione brutta. Però insieme a mia madre arrivavano tanti altri, cioè mio padre, parenti e amici. La casa di mia madre era una casa sempre affollatissima. Forse è lì la vera radice. C'è un'altra radice che conosco meglio, diciamo: sono sempre stato entusiasta di ogni persona, perché mi vedo simile-dissimile. Probabilmente è una forma egoistica rovesciata, una forma di narcisismo, forse il fatto che dicono che sono simpatico, cioè faccio abbastanza in fretta a mettermi in rapporto con le persone. Ogni persona mi accende d’entusiasmo. Ma a volte non riesco ancora a capire come mai, mi sembra un’idiozia. Cioè vedo un negoziante, vado dentro e vedo una cosa che mi entusiasma, gli salterei addosso, lo sbaciucchierei.

 

 

 

 

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Barbara Pietroni: Ti entusiasma il negoziante, non le cose esposte...

 

 

 

 

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Giancarlo Majorino: (ride) Sì, il negoziante; delle cose me ne frego sempre completamente. Le persone. Tu per esempio sei davanti a me. Metti, questi occhi, gli occhi che sono il tunnel tra l’interno e l’esterno. Io, intanto che ti guardo, immagino, non solo come pensano tutti i maschi-caschi, che ti porto a letto, che ti sto insieme, ecc. ma... -(ride) i maschi-caschi fanno sempre così- ma tutto quello che sei, che pensi. Facciamo finta che non ti abbia mai conosciuto, sono qui che immagino con chi sei, con chi vai, che cosa hai fatto la sera prima. Per ognuno io ho questo entusiasmo, come davanti, non so... (pensa) ai bambini, per la maggior parte della gente. E' un esempio però che non vale per me: io per i bambini non ho questo entusiasmo, nel senso che mi sembra che lì sopravvengano idealizzazioni. Perché i bambini sono singoli di poco, capisci perché non mi interessano? Possono essere graziosissimi, ma non hanno quel vissuto che mi appassiona, un vissuto di storia, di esperienze, di rapporti. 

Io ho trovato una cosa del genere in Joyce. Lui le chiamava “epifanie” ed erano eccitazioni, entusiasmi. Solo che per lui non erano solo le persone, ma anche le situazioni. E in questo ho trovato nel mio amico, Luciano Amodio, una cosa non identica, perché lui poi si appassionava di molte cose, anche lui, anch’io in fondo leggo volentieri, scrivo molto, però i viventi mi sembrano ancora più degni di simpateticità, di ardore conoscitivo. Questa è anche la ragione per cui mi piace insegnare. Quando ho smesso, ne sentivo un po’ la mancanza. 

Quando ero piccolo mi dicevano: “Ti metto in una strada dove non passa nessuno”: sembrava una condanna eterna. L’Enrica dice che me l’ha detto lei, secondo me invece me l’ha detto mia madre, me l’ha detto da piccolo. Invece, come dice uno dei miei libri importanti: "La solitudine e gli altri". Cioè la libertà per me consiste nel poter essere solo e poter essere con gli altri, tutti e due. Per questo che Milano non la lascerei mai, perché è una città: semmai per una città ancora più grande. A me piacciono le città, perché hai questo continuo di possibilità, d’incontro, d’incrocio, anche solo vedendo le persone. A volte vado sul metrò e sono contento. Pazzia. Tutti dicono: “Che caldo, che puzza, che brutto!”, io invece sono contento, perché sto tra "similidisimili", ci facciamo compagnia.

 

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SEZIONE: intervista   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: dal 4/2003 al 2/2004

 

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