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Opera di Pasquina Chiatti

(Diritti d’autore riservati all’autrice - vietata qualsiasi riproduzione)

Passione libertina

di

Pasquina Chiatti

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PRIMA PARTE

1

In  Rue Sant Denis,  la via più alla moda di Parigi ,   abitava la signora Anna Marie  Picardeaux con la giovane figlia Berenice. La donna, di squisita eleganza e indiscussa bellezza, trentaquattro anni sui documenti, venticinque sul volto, trascorreva gran parte delle giornate rispettando un rigido programma: cadenzato da appuntamenti sociali, da com­plesse tolette e dalla fitta corrispondenza da smaltire.

La Picardeaux valutava come prima cosa il numero delle buste che riceveva, poi con attenzione gli inviti a cene, ai tè pomeri­di­ani, alle cerimonie ufficiali, quante le dichiarazioni d’a­more. Poteva ancora considerarsi ben inserita in società e nessuna ombra offuscare la sua persona agli occhi del mondo. Nessuna debolezza o  fragilità, nessun errore le era permesso dalla sua ferrea de­terminazione a mantenere custodito con grande attenzione il suo segreto.

 

Eva, la cameriera della signora Picardeaux, a passo svelto attraversò Rue Sant Denis, varcò l’antico portale ad arco della  palazzina, con  l’aria di portare una lettera per la padrona. Il guardaporta richiuse i battenti con la cura di chi ha ordine di rispettare una ferrea riservatezza e un mar­cato distacco con la gente di strada. 

 La signora Anna Marie, con aria pensierosa, si allungò sulla poltrona della sua stanza, con la lettera portata da Eva tra le mani. Carta pregiata, profumo di mirra e fermata da una singolare ceralacca azzurra. Per Anna Marie il mittente era inconfondibile, si trattava del Divin Barone .

 

Intanto la figlia diciottenne, Berenice, in chemisier a fiorellini, in un angolo del salotto, suonava l’arpa sotto la vigile osservanza dell’anziano Victor, istitutore e maestro, che aveva il compito di non lasciarla mai sola.

Madre e figlia erano del tutto simili in fatto di bellezza, ma opposte nello sguardo, di ghiaccio quello della madre, fiammante quello della ragazza . Se la madre era compassata, impenetrabile e misteriosa, al contrario la giovane era manifesta, aperta, dichiarata e non nascondeva mai il vulcano che si agitava in lei.

In salotto arpa e Berenice  facevano corpo unico, nell’abbraccio dello strumento   il movimento delle dita si confondeva con la vibrazione delle corde. La musica che ne usciva era zucchero e pepe, tempesta e calma piatta.

L’amica Rose la accompagnava al clavicembalo. Rose era  bretone, di un anno più piccola. Passavano tutto l’anno insieme: d’ inverno a Parigi, d’estate nelle campagne di Bretagna. Le due ragazze crescevano come due sorelle, e come spesso avviene tra due sorelle, tra loro era un continuo battibecco.

Rose  ripeteva pochi accordi, la musica non le entrava in testa.  Victor sul principio si era incaponito  con lei, ma poi vi aveva rinun­ciato, dedicandosi esclusivamente a Berenice  che mostrava una promettente capacità.

Poco più in là sedeva Orsola, la governante, che  rica­mava a testa bassa tenendo un suo ritmo con il piede.

La fiamma del camino ardeva, strana primavera quell’anno, e  Victor con il capo dava il tempo a Berenice, che suonava anche per ore, per pomeriggi interi.

Che le liberasse la mente sarebbe stato  palese ad ogni attento osservatore, ma per la ragazza era qualcosa di più: un momento d’assoluta libertà per sognare e vivere una vita tutta sua, perché lo stare chiusa in quelle quattro mura le era diventato intollerabile.

Berenice  odiava quella casa. Ci restava segregata  tutti gli inverni. Si stupiva di come Rose accettasse di buon grado quella situazione, al contrario lei si sentiva impazzire d’in­quietudine. Quando l’inquietudine aumentava allora  suonava, suonava fino allo sfinimento.

 Victor non perdeva una sola delle sue note, ma Berenice  sapeva che nel giro di poco sarebbe riuscita a farlo assopire, e mag­ari anche Orsola si sa­rebbe accasciata in avanti sul ricamo.  Era l’unico modo per liberarsi della loro sorveglianza: suonare ninne nanne fino ad indurli al sonno.

 

La musica arrivava fino alla stanza della madre di Berenice che ancora non aveva aperta quella lettera   dalla ceralacca azzurra e dall’incon­fondibile profumo del barone  Raymond  La Chaussée.

Quando sentì la figlia smettere di suonare la aprì. La lesse. Ridendo commentò con Eva —Il Divin Barone fa il misterioso. Dice di volermi onorare nei prossimi giorni della presentazione di un ricco propri­etario di provincia suo amico.—

Eva sbirciò il foglio —Che modi! E’ pazzo a parlarvi così— 

—Pazzo quello? Troppo calcolatore per sbagliare nei modi. Non fa mai nulla a caso. Sarà una delle sue trovate per incontrarmi. Presume   che io non indietreggi all'affronto. Ed ha ragione, ma so io cosa fare.—

 

“Caro Raymond, mi spiace non potervi accontentare ma il mio carnet per il mercoledì, giorno in cui ricevo, è com­pleto per ogni quarto di ora. E il Duca Eraldo Séchelles, come saprete non mi lascia un momento di libertà, allietan­domi con le sue in­numerevoli gentilezze.”

 

Immediatamente Eva si occupò di recapitarla a Rue Vieille du Temple, casa del Barone La chaussée.

 

 

2

Nella rigida primavera francese del 1789 l’avvenente Marchese Michel D’Euverney, lasciava il suo castello di Caen per la capitale. Finalmente poteva trasferirsi a Parigi e coronare il suo desiderio di fare la bella vita. La morte del padre lo aveva liberato dalla storica sobrietà del suo casato.  Thomas lo seguiva per mantenere fede ad una promessa. Il marchese padre aveva lasciato all’unico figlio le proprietà e al segretario personale Thomas il compito morale di seguire il figlio, nonché una ricompensa.  Dai finestrini della lussuosa berlina del marchese, con lo stemma sulle fiancate, sfilavano paesaggi di campagna, luccicanti di gelo mattutino. L’inverno era trascorso glaciale come non si ricordava da decenni, devastando la Francia in lungo e in largo. Ora la bella stagione non poteva tardare.

D’Euverney,  in un elegante completo da viaggio,  sfogliava pi­gramente una pila di giornali.  Dirimpetto a lui sedeva Thomas, con l’aria di voler tornare subito a casa, che poco conciliava con l’espressione deliziata del giovane. Ai loro piedi ardeva il caldano di rame, tanto che, nell’imbottita vettura, il clima era decisamente confortevole da non obbligare alla redingote e l’alito non con­densava.

—Uguaglianza fiscale…— lesse con derisione il  mar­chese—Questo Necker ha una concezione troppo alta di sé! Pubblica le spese di corte come fossero un romanzo.Che irriverenza! Ha l'appoggio di alcuni nobili per permettersi simile libertà.   Ma il parlamento non ac­cetterà mai le sue riforme.  Cosa ne pensi, Thomas?— chiese infine il marchese, più per ammazzare il tempo che per la  volontà d’imbastire una conversazione politica.

—Leggete voi i giornali, signore.—

—Prendi pure. Informati— affermò, puntando i giornali contro il segretario con mansione anche di cameriere —Mio padre era dalla parte di questi  volgari direttori di Finanze intenzionati ad eliminare i fasti di corte…io invece …— Incrociò le braccia ed emise un ghigno .

D’Euverney  agitava la gamba accavallata, scrutando fuori del finestrino, affatto in collera verso il padre, tutt’al più incredulo di quel perdere tempo in politica, quando certi divertimenti avrebbero meritato molta più dedizione.

—Ritengo, signore— intervenne Thomas —che vostro padre possedesse il pregio della lungimiranza nel rite­nere necessaria l’abolizione di vecchi privilegi feudali e nel dare piena libertà al commercio.—

—Con il suo atteggiamento ho ottenuto d’essere tra gli esclusi dai salotti di corte!—

—Permettete che vi legga qualche cifra. La Francia non parla d’altro— disse rispettoso il cameriere nel suo impettito abito blu scuro. Estrasse un foglio dal Journal e sintetizzò —32 milioni e 740 mila per i divertimenti, i palazzi, le ville, mance, regali e pensioni ai cortigiani. E sono numerosi i comizi rivoluzionari che vorrebbero le loro teste.—

—Non saranno pochi volgari  faci­norosi a sottomettere la raffinata superiorità dei modi aristocratici, come del mio amico il barone  La Chaussée. Non voglio sentire questi discorsi .—

—Signore, vi mischiate ai quattromila nulla facenti di Parigi!—

Si permise di insistere Thomas nel disperato tentativo di un ravvedimento e, nel rispetto della promessa fatta al defunto marchese, di allontanarlo dalle tentazioni di Parigi, malgrado si trovassero già prossimi a Faubourg S.t Antoine e i corrieri del  barone  La Chaussée affiancavano la carrozza.

 Dimore di bella foggia avevano sostituito legnaie, botteghe e segherie, ma avanti a loro, leggermente sulla sinistra, tanto quanto bastava perché Michel se la vedesse comparire davanti, stava ancora la brutta Bastiglia.

Ne fu subito scosso da brutti presentimenti. Certamente informe, scura, di volgari mattoni, goffa negli otto torrioni,  una massiccia costruzione senza eleganza in cima ad un bastione, ma ritenne ingiustificabile la sensazione di disagio che gli pro­curava. 

 Lasciata la Bastiglia alle spalle, comparve la piccola e deli­ziosa chiesa di Sante Marie. Sui gradini ospitava un gruppo di fanciulle dell’omonimo collegio, accompagnate da un plotone di monache che non riuscivano ad arginare le loro maliziose risa.  Michel stava entrando nella città delle meraviglie: moda, poesia, bellezza, fanciulle in fiore.

All’incrocio con Rue du Petit Musc un piccolo mercato rionale fece rallentare la berlina, sebbene i battistrada impo­nessero di fare largo.  L’ortolana con guance e labbra arrossate, e la venditrice di frittelle formosa e sorridente, poi  le signore che sceglievano le rape migliori, ancheggiando vanitose su alti zoccoli. Il marchese non resistette alla tentazione di  sporgersi dal finestrino.   Con la testa all’a­ria e la bionda capigliatura scomposta dal vento, sentì un impa­reggiabile vigore al lin­guine, come un folle desiderio di possederle tutte. Erano parigine dopo tutto.

—Rientrate, signore. Vi raffredderete— gli disse con tono disperato Thomas, mentre cercava di raggiungerlo per siste­margli i capelli saltati via dalla legatura sulla nuca—Proprio voi che te­nete tanto all’aspetto. Mi farete impazzire!—

—Sono ebbro fino alla cima della testa!—

—Marchese io non vi capisco, scusate, non che lo pre­tenda, ma cosa ci trovate di tanto eccitante da scomporvi a questo modo— commentò Thomas, mentre in cuor suo di certo avrebbe desiderato che il padre del giovanotto fosse lì —Siete in età di pren­dere moglie e animare il vostro castello di prole, tornate a casa, siete in tempo. Avete abbandonato i vostri possedimenti in  mano a Deventer …—— brontolò Thomas.

Il giovane marchese aveva tutt’altro per la testa, per­ché mai avrebbe dovuto occuparsene lui dei terreni, c’era l’amministra­tore Deventer per quello. Lui era nato per fare il gaudente anche per volere divino, dal momento che era stato dotato di un bell’aspetto.

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Totale pagine 250

 

 

pasquina.chiatti@tiscali.it

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