Antonino Pennisi (Messina)

 

Creatività e paranoia:

un tipico problema di filosofia del linguaggio

 

 

"E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della ragione.

Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni.

E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli.

Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia" (G. Leopardi, Zibaldone, 103-4).

 

 

0. Che cos'è la creatività linguistica? Può essere spiegata guardando all'interno del linguaggio stesso? Inerisce, cioè, ai meccanismi formali di generazione delle frasi? allo statuto della combinabilità sintattica? alla naturale enantiosemìa della morfologia e del lessico? all'onniformatività dei piani del contenuto e dell'espressione?

E da cosa si può giudicare la creatività di un atto linguistico? quando giudichiamo creativi un'espressione o un comportamento verbale? devono suscitare spiazzamento, sorpresa, meraviglia? farci riflettere sulle modalità di applicazione, violazione o trasformazione delle regole? favorire una captazione immaginativa del senso, produrre una zampata fantastica del significato? Insomma devono suggerirci soluzioni divergenti, economiche, acute, nel senso "ingenioso" del termine? porci sotto gli occhi la moltiplicazione indefinita delle associazioni, delle analogie? amplificare ed estendere illimitatamente la capacità di connessione tra le idee?

Ed infine: che tipo di facoltà mentale è la creatività linguistica? A quale area della cognitività va attribuita? È un prodotto della ratio, dell'intuizione, dell'enciclopedia ? È specie-specifica o la si può ritrovare in altre specie animali o nelle macchine ? È comune, diffusa, democratica pratica di tutti i soggetti parlanti o è speciale, rara, aristocratica prerogativa di intelligenze superiori?

Pur formulate in così rapida e irrituale successione mi sembrano queste le domande cruciali a cui a quasi trent'anni dalleSyntactic Structures di N. Chomsky, venti da Linguaggi, macchine e formalizzazioni di F. Lo Piparo, quindici dalla Minisemantica di T. De Mauro, i filosofi del linguaggio non hanno ancora risposto, lasciando all'attuale "scienziato cognitivo" la prerogativa, e quasi l'esclusiva, di dettare formule, ricette e soluzioni.

In questo lavoro si vuol tentare una risposta esauriente ma negativa, a partire da un problema inedito. Esauriente perché vorrebbe soddisfare globalmente le domande poste; negativa perché potrà solo escludere definizioni e soluzioni positive; inedito, infine, è il problema della psicopatologia del linguaggio, e, in particolare, delle sue manifestazioni paranoiche: almeno per i linguisti e, appunto, i filosofi del linguaggio1. In che modo una riflessione sulla psicopatologia possa aiutarci a rispondere alle questioni poste dalla ricerca di uno statuto per la creatività linguistica lo si può dedurre dal fatto che capire la natura dei meccanismi deliranti è sempre stato uno dei principali problemi dello studio della creatività schizofrenica. In un certo senso si può dire che rispondere alla domanda se e in che modo le regole del delirio sono creative equivale a fornire una soluzione anche al problema della creatività linguistica. L'aspetto più singolare di questo gemellaggio è che se la psichiatria, nel giudicare questo problema, dovesse adottare i criteri teorici della linguistica novecentesca sarebbe obbligata a concludere che la schizofrenia, e in particolare tutti gli stati paranoidi o deliranti, con le loro infinite fenomenologie, costruiscono altrettanti meccanismi generatori di perfetti congegni creativi.

1. In qualsiasi modo si intenda la creatività linguistica, la sua prima, elementare proprietà consiste nella facoltà generativa intesa nel duplice senso di: a) attitudine a produrre espressioni articolate; b) capacità di produrre infinite frasi "ben formate". Senza bisogno di inoltrarsi in approfondimenti tecnici, si può intendere con la prima accezione la semplice abilitazione all'esercizio controllato degli organi psico-fisici preposti alla vocalizzazione, e, con la seconda, la facoltà di connettere in un indefinito numero di modi i diversi elementi lessicali secondo l'applicazione di limitate regole sintattiche. È chiaro che senza la prima accezione non potrebbe sussistere neppure la seconda: solamente chi riesce ad articolare (beninteso, in senso generale, in un qualsiasi codice semiotico-espressivo, anche se, in questo caso, intendiamo proprio nel linguaggio verbale), può, poi, secondo la formula humboldtiano-chomskiana, "fare un uso infinito di mezzi finiti".

Che questa doppia abilità non sia affatto scontata lo possiamo immediatamente constatare perché, a parte le patologie fisio-psichiche del linguaggio (come la sordità, il mutismo, l'afasia), anche molti stati psicopatologici impediscono o, comunque, inibiscono fortemente, l'articolazione della parola o la corretta applicazione delle regole sintattiche. Diversamente da quanto non possa essere detto di quest'ultimo tipo di malattie mentali - demenza, melancolia, certe forme di "autismo povero" (Minkowski, 1966) come la catatonia ed altre varietà della schizofrenia - gli stati paranoidi (paranoia pura, schizofrenia paranoide, forme paranoidi in generale) sono sempre accompagnati da una sovrabbondante produzione linguistica sia parlata, sia, ancor più, scritta.

La paranoia non conosce né il "mutacismo", né la "schizofasia", né, più in generale, forme fortemente alterate di linguaggio. Il paranoico parla, scrive, ragiona. Anzi è verboso e grafomane, una sorta di professionista della parola, cui dedica buona parte della propria vita. Di più: tra gli esempi clinici più citati dalla letteratura si annoverano gli autori di molti scritti diventati, a loro volta, oggetto di analisi testuale da parte di psicologi, psichiatri, filosofi, linguisti. Basterà qui ricordare i casi Wagner, Schreber, Aimée, studiati da Gaupp, Freud, Niederland, Lacan. Accanto agli scritti di questi "paranoici celebri" - su cui torneremo - si collocano poi una quantità praticamente indeterminabile di lettere, autobiografie, diari, trattati, monografie ed altri manufatti letterari raccolti da psichiatri di qualsiasi parte del mondo2. La paranoia, insomma, è uno stato mentale che non solo non inibisce ma sembra favorire la capacità generativa.

Allo stesso modo ciò che differenzia i paranoici da molti altri alienati mentali è che è inutile cercare nella loro produzione linguistica "errori di grammatica". All'incespicante sintassi dei melancolici, alla difficoltà di coordinazione dei dementi, persino alla tormentata costruzione delle frasi di alcuni schizofrenici, fa riscontro una rapidità, una precisione ed un'elaborazione del piano frasale paranoico del tutto sbalorditiva: il paranoico è un superdotato della sintassi3.

 

2. Salendo di un livello, si può giudicare essenziale alla creatività linguistica la proprietà, sottolineata dalla tradizione razionalistica, dell'indipendenza dagli stimoli e dell'appropriatezza alle situazioni.

Anche in questo caso sarebbe azzardato sottovalutare l'importanza di queste abilità cognitive da cui sono esclusi - totalmente o parzialmente - non solo gli animali e gli "automi" (nel senso cartesiano del termine), ma anche una buona parte di soggetti con deficit organici e/o puramente psichici. Tralasciando ancora una volta i soggetti colpiti nell'apparato sensoriale o cerebrale, non c'è dubbio che soggetti melancolici, dementi, catatonici, ebefrenici, e persino maniaci e nevrotici (fobici, isterici, coattivi, etc...) possono non essere in grado non solo di percepire l'insieme dei fattori interni ed esterni ad ogni situazione comunicativa, e produrre, quindi, risposte inappropriate o apparentemente incoerenti, ma addirittura di liberarsi dai condizionamenti che rendono indipendente l'atto linguistico dal contesto. Si può anzi dire che buona parte di queste psicopatologie, comprese quelle giudicate "minori", si contraddistinguono per la tendenza ad imporre ai soggetti che ne soffrono una serie di automatismi comportamentali a volte invincibili e che la loro stessa "autoterapia" diventa spesso una successione di riti controritualistici.

Più si avanza nella scala della gravità psicopatologica più i soggetti colpiti diventano capaci di manifestare queste caratteristiche che la linguistica antica e moderna ha attribuito - a torto o a ragione - alla creatività. Gli schizofrenici "puri" (non catatonici e non stereotipati) possono ben dirsi "indipendenti dagli stimoli", tanto indipendenti da cadere nell'autismo. Non parlano solo per comunicare, anzi la comunicazione con gli altri è quasi secondaria nel loro progetto discorsivo. Esplorano altre direzioni della funzione linguistica: parlano con sé stessi, giocano con le parole, provano a smontare e rimontare nei modi più bizzarri i tessuti testuali, navigano persino tra i livelli metalinguistici della "faculté de langage"4: agli albori della moderna psicoterapia, alla fine del XVIII secolo, gli schizofrenici venivano curati relegandoli in celle buie e "mortalmente silenziose" perché potessero assecondare il bisogno di far funzionare "da solo" il loro linguaggio5. Non si può affatto dire, tuttavia, che obbediscano all'appropriatezza pragmatica. La semantica schizofrenica appare anzi, da quasi tutti i punti di vista, permanentemente spiazzata e spiazzante: lo schizofrenico è, per eccellenza, il malato di mente più deviante, più "strambo", più derangé 6.

Rispetto agli schizofrenici "puri", il paranoico è anch'egli, certamente, "indipendente dagli stimoli", ma non manifesta - se non eccezionalmente - neppure anomalie semantiche: pochissimi o nessun neologismo, rari i paralogismi, scarse anche le estensioni analogiche dei campi semantici7: in un certo senso il discorso paranoico non è, come quello schizofrenico, un discorso chiuso, oscuro, ambivalente, negativista, non è un "idioletto"8. Inutile cercare nel paranoico il fascino perverso del linguaggio schizofrenico. La sua semantica è sempre trasparente, "pubblica". Egli si adatta perfettamente a tutte le situazioni comunicative, le controlla freddamente, le soppesa e le calcola. Nell'innumerevole quantità di lettere che i paranoidi inviavano dai manicomi è davvero difficilissimo distinguere il vero dal falso: scrivono con un certo stile argomentativo alla madre, con altro al direttore dell'ospedale, con altro ancora all'avvocato9. Manovrano le possibilità retoriche con grande abilità e adeguatezza funzionale. Bisogna leggere decine e decine di lettere di uno stesso soggetto per arrivare a cogliere il punto in cui si incrina la simulazione. E spesso si tratta di un particolare minuscolo, di un indizio tagliente ma perfettamente camuffato dall'apparato intenzionale spiegato in tutta la sua potenza.

 

3. Né "privato" né "deprivato", quindi. Almeno per ciò che abbiamo sinora visto, formalmente creativo perché produttivo, generativo, "ben formato", sintatticamente corretto, indipendente dal contesto, perfettamente appropriato a tutte le situazioni comunicative, sempre intenzionale: il linguaggio della paranoia è un miracolo al contrario: tecnicamente perfetto ma, come vedremo, totalmente "pazzesco".

È forse questo il motivo per cui sin dall'antichità la paranoia è stata individuata come la forma più tipica della follia. Nella scuola ippocratica - che è la prima ad aver adottato il termine - paranoia è sinonimo di follia. Per molti secoli questa identificazione resta poco esplorata. È con Kraepelin, nel secondo ottocento, che la paranoia assume uno statuto del tutto peculiare fra le perturbazioni della razionalità. La sua definizione è il punto di partenza per tutta la psichiatria contemporanea: "la paranoia è lo sviluppo insidioso, dipendente da cause interne e ad evoluzione continua, di un sistema delirante duraturo e incrollabile, che si stabilisce assieme ad una totale conservazione della chiarezza e dell'ordine nel pensiero, nel volere e nell'azione" (1899).

Di questa definizione, nel tormentato sviluppo della nozione sino ai giorni nostri, sono state precisate alcune connotazioni: le cause, ad esempio, ricondotte ai più svariati motori eziologici, gli stadi evolutivi, le fisionomie tassonomiche rispetto ad altre configurazioni cliniche, etc... Ciò che è tuttavia rimasto invariato - e che ha del sorprendente se si guarda all'instabilità cronica delle definizioni psichiatriche - è la natura "intellettuale", "razionale", "logica" di questa spaventosa malattia mentale. Anche prima di Kraepelin, d'altrocanto, i fondatori della psicopatologia moderna, avevano chiamato "monomania intellettuale" (Esquirol, 1838), "folie lucide" (Trélat, 1839), "folie raisonnante" (Lasègue, 1884, Sérieux e Capgras, 1909), la tendenza del ragionamento a svilupparsi coerentemente a partire da presupposti deliranti. Il problema del delirio paranoico - diverso dagli altri tipi di delirio perché privo di allucinazioni verbali, uditive o sensoriali, "disturbo specifico della sintesi psichica" (Lacan, 1975: 9), è solo quello, per usare una formula che appartiene storicamente a Dromard (1910) ma che era stata intuita già da Locke e Kant10, di compiere un'inferenza "da un percetto esatto a un concetto errato". In altri termini diremmo che il ragionamento paranoico deriva non da un errore nel procedimento formale che connette i vari termini primitivi di cui è composta un'enunciazione, un discorso, un testo, ma dalla non corrispondenza tra i significati primitivi e i loro valori di verità. I più raffinati ed elaborati sistemi deliranti paranoici sarebbero quindi costituiti da gigantesche catene di inferenze formalmente esatte (cioè rigorosamente rispettose delle regole del calcolo) invalidate dal fatto che il loro assunto di base è falso11.

Ancora una volta, tuttavia, ci troviamo di fronte a una formulazione che certamente non è di natura formale. Non pertiene infatti neppure alla più semplice procedura della logica degli enunciati l'attribuzione dei valori di verità agli enunciati atomici. E non pertiene neppure alla semantica. Anche se ne accettiamo la sua accezione più semplice e identifichiamo il "percetto esatto" col concetto-referente, restiamo fuori da un ambito di pertinenza formale. Già in un indimenticato saggio del 1974, Franco Lo Piparo aveva dimostrato che qualsiasi semantica referenzialista - logica o linguistica, più o meno formalmente raffinata - non può che cadere in contraddizione se presuppone la coincidenza tra significato e valore di verità. Inutile parlare poi delle semantiche non-referenzialiste (sul cui ruolo torneremo) che portano inscritta già nella loro struttura cromosomica l'indefinibilità stessa della positivistica nozione di "percetto esatto". Nessuna teoria logica o semantica, rigorosamente o blandamente formalizzata, insomma, può ammettere che il proprio compito sia quello di occuparsi delle convinzioni dei soggetti che compiono operazioni di calcolo. Che il problema della paranoia consista esclusivamente nel suo fondamentalismo cognitivo12, nella sua "certezza divorante" (Minkowski, 1966: 48), può essere dimostrato soltanto uscendo fuori dal piano delle forme del discorso ed entrare in quello rischiosissimo delle sue fenomenologie.

 

4. Un interessante osservatorio di partenza può essere costituito dai più celebri casi clinici. Cominceremo dall'"uomo dei resti" di Minkowski (1968) e faremo via via riferimento ad altri casi nel prosieguo del lavoro.

L'"uomo dei resti" è un paranoico afflitto dall'idea persecutoria secondo la quale il sistema sociale francese attorno agli anni venti, per punirlo di presunti crimini politici commessi in gioventù, abbia elaborato una particolare "politica dei resti" consistente nell'accumulare tutte le specie di detriti prodotti dalle attività umane (fiammiferi, mozziconi di sigarette, resti di bevande, carte, vetro, spaghi, spilli, etc...) per poi introdurglieli, per vie diverse, nel ventre. Un caso abbastanza comune, ma che evidenzia alcune costanti del ragionamento paranoico assai rivelative. Ne elenchiamo prima le tre principali, e torneremo poi sulle altre che ne derivano logicamente.

La prima è che qualsiasi evento semiotico trova posto nel quadro finalistico della fissazione delirante: i capelli che il barbiere gli taglia, gli oggetti metallici che gli si presentano davanti, tutti i mozziconi di sigaretta che vengono gettati per terra, lo sterco che i cavalli depongono sotto le sue finestre: nulla sta lì per caso, tutto finirà nel suo ventre. Sebbene sul piano della rappresentazione i singoli significanti conservino il loro rapporto "pubblico" coi significati, sul piano ermeneutico ognuno di essi, e l'intero insieme che avviluppa gli eventi, individuano interpretazioni del tutto "private". È il governo che colloca quegli oggetti sulla sua strada, è la società politica che lo pone continuamente dinnanzi a uno sterminato numero di trappole simboliche. La semantica del paranoico neutralizza la casualità, la sospende, la abolisce. Ogni segno, riconosciuto dalla comunità sia sul piano della materia che su quello del contenuto, è parte di un sistema di valori racchiuso finalisticamente (e quindi solo per questa via decodificabile) all'interno dell'enciclopedia delirante.

La seconda costante è che il discorso paranoide è un costrutto logico deterministico e infalsificabile. Per restare al nostro esempio è chiaro che mentre il ragionamento normale tende ad affidarsi "irrazionalmente" all'induzione, quindi a trarre da segni empiricamente "regolari" una norma comportamentale stabile, nel caso analizzato abbiamo a che fare con una specie di "paziente humiano" allo stato puro. Egli, ad esempio, fissava periodicamente la data della "grande abbuffata", ovvero il momento in cui il governo gli avrebbe fatto ingurgitare tutto in una volta ciò che aveva accumulato nel corso degli anni. Allo psichiatria che gli faceva notare l'infondatezza di quella strana idea dato che nel giorno da lui previsto non era in realtà accaduto nulla, "l'ammetto - rispondeva - finora ha avuto sempre ragione, ma ciò non vuol dire che abbia ragione domani" (Minkowski, 1968: 191). La tortura dell'"ingozzamento" non è accaduta ma accadrà, accadrà sicuramente, e non c'è alcun avvenimento, alcuna "prova" che possa convincerlo del contrario. In altre parole l'"uomo dei resti" funziona esclusivamente per via deduttivo-analitica ("dato che ho commesso i miei crimini, certamente pagherò"), impermeabile a qualsiasi meccanismo di adattamento omeostatico alla realtà empirica che comporterebbe un conflitto con gli assiomi del sistema delirante.

La terza costante del discorso paranoico può essere sintetizzata nella tendenza all'illimitatezza del campo noetico. Il paziente di Minkowski, ad esempio, proietta continuamente tutti i singoli, concreti fatti che gli accadono sul piano di una successione astratta e sconfinata di eventi immaginati, "slitta via, fugge verso l'infinito" (Minkowski, 1968: 196). La fascetta del quotidiano che gli arriva sul tavolo e che è, ovviamente, destinata ad essere cacciata dentro il suo stomaco, gli fa subito venire alla mente le fascette di tutti gli esemplari di quel quotidiano, poi di tutti i quotidiani francesi, poi di tutti i quotidiani del mondo; lo sputo di un familiare con la bronchite è subito moltiplicato per tutti gli sputi di tutti i tubercolosari, poi di tutti i rifiuti di tutti gli ospedali; i peli della barba fanno correre la sua immaginazione verso i peli di tutti i soldati delle caserme, poi di tutto l'esercito, poi ... La distorsione delirante è qui rivolta all'indefinita superfetazione di spazi e di tempi che offusca la capacità di circoscrivere e definire, limitare e fissare nella singola esperienza i fatti reali. E ciò costituisce il fondamento della personalità delirante in generale. Attraverso l'abolizione di un'attività limitatrice si forma la classica sindrome persecutoria di ogni paranoico: prima è il vicino di casa che sparla di lui con la moglie, poi tutto il palazzo, poi tutto il quartiere, poi tutto il paese. Cambia ambiente (tipica soluzione paranoica ai problemi di adeguamento, che si concretizza nei trasferimenti di lavoro, o nei viaggi frequenti, nella necessità di fuggire dalla continuità che avanza), ma ben presta ricostruisce l'infinita rete di presupposizioni sui maldicenti. Nel giro di poco tempo ricomincia a tracciare cerchi sempre più ampi, scatole cinesi sempre più incassate l'una dentro l'altra, e senza fine. Tutto il mondo finisce col conoscere i suoi vizi segreti e le soluzioni si restringono: scappare ancora, esplodere: è la perfetta parabola di Ernst Wagner - altro celebre caso di paranoico - che dopo aver girovagato per tutta la Germania in cerca di luoghi in cui gli abitanti non fossero mai venuti a conoscenza dei suoi giovanili peccati sodomitici, uccide la moglie, i figli, brucia fattorie e villaggi, spara a tutti i maschi che incontra sul suo cammino13.

La "folie lucide" è quindi una costruzione cognitiva fondata su un finalismo assoluto, su un infalsificabile determinismo, sull'aspirazione all'indeterminato, all'illimitato, all'infinito. Essa è applicabile a qualsiasi contenuto: persecuzione, grandezza, gelosia. Tutto può diventare nocciolo di un calcolo preciso e senza fine il cui risultato assolutamente logico può essere anche la violenza cieca. Il fondamentalismo paranoico è infatti la fonte più generosa dell'affollarsi dei manicomi criminali.

5. Finalismo, determinismo, illimitatezza. Sul piano della creatività questa triade cognitiva comporta paradossali conseguenze. Pur consentendo, anzi consentendo eccessivamente, con le regole collettive dei procedimenti calcolistici, il paranoico amplia a dismisura la rete delle possibili connessioni. Egli può collegare fatti e segni che in realtà non lo sono, ma che, dal punto di vista puramente formale, potrebbero esserlo. I tempi e i modi in cui avvengono questi improvvisi insights relazionali non sono predeterminabili. Avvengono con le stesse regole-non-regole con cui avvengono le più grandi scoperte della scienza o i più usuali procedimenti ideativi, le soluzioni improvvise che balzano nella testa di grandi artisti, scienziati, pensatori ed anche di comuni mortali che si trovano a dover riparare un guasto elettrico, un sistema di tubi, un giocattolo, a indovinare il finale di un giallo, a ricostruire tutti i passi fatti per la strada prima di aver perso le chiavi dell'auto.

Alfredo G. - uno dei tanti paranoici di cui si conservano nell'archivio dell'ex-manicomio "Mandalari" di Messina decine e decine di lettere composte nel corso di un lungo ricovero14 - dopo quasi un anno di missive assolutamente giudiziose e dalle quali non traspare mai un sospetto sulla ragionevolezza dei ragionamenti, scrive ad uno dei dottori che lo aveva assunto in cura raccontando il modo in cui si accorse di essere perseguitato nel sanatorio in cui aveva consumato la prima reclusione:

 

"non ricordo se ero al secondo o al terzo anno di internamento. La mia corrispondenza era intensa con parenti, amici, avvocati e anche con mia moglie. Scrivevo anche a mio suocero. [...]. Ricordo di avergli spedito una lettera di quaranta fogli o poco meno. Con mia moglie polemizzavo e spiegavo. Cercavo di rasserenare mia madre e mio fratello. Davo spiegazioni agli avvocati. Più o meno le cose si svolgevano con questo indirizzo, quando un agente di custodia mi domandò se sentivo spesso la radio. [...]. Risposi che no. Tornò poi più volte a domandarmelo " consigliandomi " di ascoltarla. [...]. Il suggerimento venne pertanto accettato. Con mia sorpresa notai che nei programmi musicali ricorreva frequentemente musica di un mio quasi omonimo, musicista del Settecento veneto. E una domenica, in una rubrica per militari [...] venne presentato addirittura un mio omonimo. Curiosità, stranezze, casi. Dicevo tra me. [...] [Poi] dovetti essere invitato ancora a prestare particolare attenzione a certe trasmissioni. Allora mi accorsi che spesso venivano ora confutate, ora accettate, certe mie idee su argomenti vari che io esprimevo nelle lettere a mia moglie e a mia madre. Alto fu il mio stupore. Talvolta le mie idee venivano non solo accettate ma elogiate. Non mi raccapezzavo: cosa c'entravo io con la radio, o meglio la radio con me? Mah! Cercai di curiosare con l'agente di custodia che mi aveva dato il suggerimento di ascoltare la radio ma ottenni in risposta vaghi, molto vaghi responsi. Gli chiesi, tra l'altro, chi era che poteva disporre di tanto. Ebbi in risposta un sorrisino. Uno o due giorni dopo, venni, poi, invitato dallo stesso ad ascoltare la trasmissione " Sei personaggi in cerca di autore " di Pirandello. E la chiusura del lavoro venne architettata in modo che divenisse oggetto di polemica tra attori e regista. Ad un certo punto intervenne una voce quasi perentoria che scelse una soluzione, soluzione che gli attori commentavano diversamente, quando il regista chiuse la discussione dicendo di fare come diceva la " voce ", come diceva Lui. Sapete chi è lui? Sapete chi è Lui? Lui è il Direttore, perciò fate come dice Lui. Ed una voce " a solo ", molto chiaramente rivolse questo interrogativo: " Capito? Capito chi è Lui?". Avevo capito benissimo e mi domandavo che razza di enigma stavo vivendo. Io non lo conoscevo, avevo solo sentito il suo nome perché segretario di un onorevole delle mie parti. [...]. Non sapevo del suo incarico [n.b.: cioè direttore della trasmissione] e, pur sapendolo, non avrei certamente potuto spiegare il perché del suo interesse a me, alle mie cose e alle mie idee. La spiegazione venne [...] quando mi si parlò in un modo piuttosto contorto da cui si poteva dedurre che fra lui e mia moglie vi fosse stata una relazione"

 

Nel nocciolo delirante che aveva scatenato la follia per cui era stato recluso (il tradimento della moglie) convergono qui una folla eterogenea di indizi: l'agente di custodia, la radio, gli omonimi, la voce fuori campo del regista della tragedia pirandelliana, il nome suggerito che viene accostato ad un conoscente ed infine la relazione adulterina di sua moglie con quest'ultimo! Lungi dal costituire un'eccezione, questo traghettare tra piani discorsivi diversi (il codice-agente, il codice-radio), tra analogie certamente "reali" (le omonimie), tra stati interni e stati esterni (le proprie allucinazioni uditive e le "voci" della chiusa dei Sei personaggi), che balza d'improvviso dall'accumulo delle informazione alla rivelazione folgorante ("avevo capito benissimo"), è prassi comune, tessitura ordinaria della "creatività" paranoica che unifica tutti i casi clinici, grandi o piccoli che siano.

Sebbene non sia certamente possibile tracciare linee di demarcazione nette tra le psicopatologie, si può dire che, rispetto al linguaggio della schizofrenia "pura" - la cui (presunta) creatività è orientata verso gli aspetti semantico-lessicali, e metalinguistici in senso stretto, privilegiando la singola parola, il singolo segno - nel linguaggio paranoico prevale una creatività "fredda", orientata sul versante ermeneutico, sul sorprendente concatenamento dell'insieme dei segni, dei testi, sul "delirio di interpretazione" (Sérieux-Capgras, 1910).

 

6. Anche il ruolo e l'effetto dell'illimitatezza - pur motivati da una comune condanna "creativa" ad estendere all'infinito le possibilità indiziarie dei segni - si esplica diversamente negli schizofrenici e nei paranoici. In conseguenza del fatto che nella psiche schizofrenica "tutto è in rapporto col tutto" (Jung, 1907: 34), l'uno non è più definibile. Così Renée, giovane paziente della psichiatra francese M. Secheaye, e autrice di un celebre scritto autobiografico - Diario di una schizofrenica (1957) - raccontando di un'amica, diceva di vedere "le parti del suo viso separate, indipendenti fra loro, prima c'erano i denti, poi il naso e le guance, poi un occhio, poi l'altro, e per questa indipendenza delle parti avevo paura e non riuscivo più a riconoscerla, sempre sapendo che era lei" (p. 27)15. Il "sentimento di irrealtà"16 che pervadeva l'"infinità" della sua nozione di spazio e di tempo, la sua percezione sensoriale e il divenire incessante dei processi circostanti, aveva causato la perdita del potere limitante del linguaggio, la dissoluzione dei nomi, l'agnosia delle pertinenze:

 

"se guardavo ad esempio una sedia o un vaso, non pensavo alla funzione che giustificava la loro presenza; non era più un vaso per contenere l'acqua o una sedia per sedersi, no! avevano perduto il loro nome, il loro significato, la loro funzione. Erano divenuti cose [...] D'un tratto si animavano sotto i miei occhi: c'era quel vaso di creta a fiori blu [...] che mi scherniva con la sua sola presenza [...] una sedia, un tavolo che erano lì e si manifestavano esistendo. Cercavo di sottrarmi al loro dominio pronunciando il loro nome: sedia, vaso, tavolo. 'Questa è una sedia', ma la parola era un suono privo di senso, aveva abbandonato il suo oggetto, si era separata da lui in modo così totale che da una parte vi era 'la cosa viva e beffarda' e dall'altra il suo nome, privo di senso come un guscio vuoto" (id.: 31-2).

 

Nella paranoia, intesa nel senso più "puro" di "delirio senza allucinazioni" (Falret, 1864; Magnan), non c'è, in genere, alcuna perversione della sensorialità, alcuna alterazione spazio-temporale. Eppure si conserva la stessa tendenza alla frantumazione atomistica dei segni: per l'"uomo dei resti" un orologio a pendolo è un insieme di lancette, ruote, pesi, molle; un mazzo di rose un ammasso di foglie, petali, spine, gambi (Minkowski, 1968: 196-7). Ma in questo caso non si manifesta più il distacco dalla realtà che caratterizza l'autismo schizofrenico. L'atomismo paranoico è, ancora una volta, freddamente intellettuale, lucidamente finalizzato al rigore logico della fissazione delirante: "questa bilancia non è che un insieme di pezzi di legno e di ferro e tutto mi sarà messo nel ventre" (ib.). Forse ancor più gravemente che nello schizofrenico, in cui la realtà perde di senso, non è più compresa, è rifiutata con la mente e con il corpo, nel paranoico, che è solo mente, non c'è l'ammissione, la coscienza di una realtà esterna che è "altra" da lui. Egli assume che il delirio in cui vive costituisce l'orizzonte semiotico comune a tutti: non la "sua realtà" ma la realtà tout-court.

Così, anche da un punto di vista fenomenologico, la creatività linguistica del paranoico, che si manifesta non tanto nella creazione di nuovi e imprevisti significanti e significati, di nuove, coerenti ma spiazzanti combinazioni di segni, quanto nella sbalorditiva organizzazione formale di interpretazioni finalizzate al suo mondo possibile costruito attorno al, e a protezione del nucleo delirante, si rivela un fatale strumento di impoverimento e riduzione del senso: "il campo dei significati risulta così esteso oltre ogni misura. Non esiste più la contingenza. Infatti se nella vita i significati hanno un posto importante, ciò accade solo a condizione che non si estendano a tutto; essi sono fatti per mettere in risalto certi fatti e certi oggetti, per dar loro il rilievo che meritano, e ciò su uno sfondo più neutro [...] che non richiama in modo particolare la nostra attenzione. In tali condizioni l'estensione del campo dei significati dovrà per forza essere un impoverimento, un restringimento, un'immobilizzazione, una livellazione verso il basso" (Minkowski, 1966: 367).

 

7. La vaghezza e indeterminatezza referenziale delle lingue, la pluriplanarità e l'illimitatezza del loro campo noetico, l'onniformatività semantica spinta sino all'autonimicità, l'onnipotenza semiotica e la connaturata enantiosemìa del lessico, sono sempre state considerate le più rilevanti caratteristiche della creatività linguistica dai teorici delle semantiche non-referenzialiste. Logici, linguisti e filosofi del linguaggio quali Tarski, Hjelmslev, Prieto, Chomsky, De Mauro, per fermarci ai maggiori, pur divergendo - talvolta in maniera radicale - nei presupposti teorici della loro ricerca, hanno sempre concordato su un punto: l'insieme della lingua è un sistema aperto, di cui è forse possibile catturare le regole endogene, di formalizzazione interna, ma di cui è impossibile definire i rapporti esogeni, le referenze e le implicazioni con la realtà esterna, se non nei limiti di un'informale funzione di adattamento comunicativo.

Da un capo all'altro delle scuole linguistiche echeggia, quindi, uno scetticismo epistemologico che assume come centro di gravità proprio la nozione di "creatività".

Così per Chomsky: "quando abbiamo a che fare con strutture cognitive, sia in uno stadio maturo della conoscenza e delle credenze, sia nello stato iniziale, affrontiamo dei problemi, non dei misteri. [...] Ciò che ho chiamato l'aspetto creativo del linguaggio, rimane per noi un mistero" (1981a: 128); "si conosce qualcosa dei principi della grammatica, ma non esiste un approccio promettente al normale uso creativo della lingua [...]: l'uso creativo del linguaggio è un mistero che elude la nostra capacità di comprensione" (1981b: 207).

E De Mauro, nella sua Minisemantica, dopo aver individuato e teorizzato per tutto il libro la creatività linguistica come tratto specifico della semantica dei linguaggi storico-naturali, conclude: "non vi è problema a delineare la semantica di ogni altro codice semiologico diverso dalla lingua. [...] Una lingua, con la sua indefinita estensibilità e flessibilità, ci fornirà sempre tutti i materiali adeguati a dare conto della genesi, della struttura e del funzionamento semantico di altri linguaggi, dai semplici [...] a segni limitati, alle combinatorie finite e infinite, ai calcoli e linguaggi formali più raffinati. Ma la lingua stessa fa problema alla semantica. Ed è un problema che, se non erriamo, va definito non resolubile" (Min.: 163).

Questo strano paradosso, per cui tutto è possibile studiare di una lingua tranne ciò che la rende diversa da ogni altro sistema semiotico, è assai simile a quello che abbiamo visto emergere dalla psicopatologia paranoica e che consiste in una forma di compromissione radicale dell'"essenza" della ragione, pur all'interno di una cognitività che mostra inalterate le capacità di rappresentazione semantico-simbolica e di calcolo logico-sintattico.

Queste singolari concordanze possono d'altrocanto sposarsi con l'epistemologia delle scienze cognitive: il modello computazionale dell'intelligenza rappresenta l'incarnazione più realistica di questa situazione di stallo. Il computer come macchina capace di incorporare uno statuto semantico convenzionale a procedure sintattiche ricorsive, può produrre una perfetta simulazione di testualità creativa a partire da qualsiasi tipo di attribuzione "esterna" di valori di verità, veri o falsi che siano.

In altri termini, se dovessimo applicare coerentemente sia gli schemi della rule-governed creativity, sia quelli della rule-changing creativity , dovremmo arrivare alla conclusione che uomini, paranoici e macchine o sono tutti insieme capaci o sono tutti insieme incapaci di creatività linguistica.

 

8. Anche l'antireferenzialismo psichiatrico più radicale si è posto esplicitamente il problema della creatività psicopatologica. In particolare se l'è posto la tradizione esistenzialista e fenomenologica. L. Binswanger, ad esempio, analizzando il caso di Aline - una paziente affetta da una forma paranoide di schizofrenia che la portava a sviluppare un delirio di persecuzione cosmico ricco di suggestive fantasie - come, ad esempio, il sentirsi "magnetizzata" da un "congegno elettrico" posto sulla sua nuca, l'aver subito la "cloroformizzazione del cervelletto", l'aver depositato tutti i suoi pensieri in un "astuccio" chiuso "ermeticamente" capace, sotto interrogazione, di "far parlare" le persone che vogliono servirsene per conoscere i segreti altrui, l'essere soggetta alla captazione telepatica dei suoi "raggi pensanti e parlanti" da parte dei propri persecutori, l'esser ridotto il suo cervello a una "macchina fotografica" che può mostrare i suoi pensieri, voci, sogni, etc... - si chiedeva "se abbiamo a che fare con il 'rigoglio della fantasia', che supera di gran lunga la 'fantasia' dei sani o piuttosto la sua totale mancanza [...], se nella distruzione dell'esperienza delirante si assista a un restringimento o a un approfondimento dell'immaginazione" (1965: 56). Più in generale, dopo un periodo in cui, senza precisi orientamenti filosofici, la psichiatria organicistica aveva accumulato un enorme repertorio di sintomi "creativi" ed aveva persino supposto un nesso preciso tra la schizofrenia e la produttività artistica "senza regole", il pensiero antropofenomenologico ha ribaltato i termini del problema: è proprio l'eccessiva libertà delle possibilità immaginative svelate dai "sintomi creativi" del soggetto psicopatologico che ci rivela la povertà del suo stato cognitivo, la sua "esistenza mancata", il fallimento della sua "possibilità di mondo", che pure, come per tutti gli uomini, costituisce l'asse portante dell'esperienza umana17.

Certo - ed è questa la più grande conquista della psichiatria fenomenologica - "anche quando è in delirio [...] l'uomo progetta un mondo" (id.: 11), ma è come se il suo "congegno filtrante" (id.: 58) fosse incapace, sia percettivamente che cognitivamente, di elaborare intuizioni nel senso di "istruzioni per l'impiego del delirio" ricondotte al "vincolo reale del contesto consequenziale e imperativo" (id.: 21). In altre parole è come se l'illimitatezza del campo noetico del soggetto malato gli impedisse di percepire la sua immaginazione come una "scelta" tra possibili vincolati da altri possibili e, viceversa, lo condannasse a procedere, senza mai potersi fermare, in una spirale di rinvii non vincolati, infiniti, del senso, nei quali viene persa l'opportunità di domandarsi, confutare, "aggiustare" il significato. Diversamente che nell'esperienza "naturale", nella quale la "regola" matura col suo farsi, si adatta pragmaticamente a tutto ciò che viene percepito come ostacolo o problema capace di trasformare gli stessi termini con cui si pone alla coscienza, liberando in tal modo la modificazione della coscienza stessa sino al punto da rendere possibile persino il suo ribaltamento enantiosemico, nell'esperienza delirante il circolo delle deduzioni è quantitativamente infinito ma qualitativamente unitario: l'ingenium schizofrenico "in unum dissita, diversa coniungendi" (Vico, OF: 117).

Ciò che è particolarmente importante nell'impostazione fenomenologico-esistenzialista del problema della creatività psicopatologica è questo suo rifiutarsi di considerare il malato un soggetto che utilizza procedure cognitive diverse da quelle dell'uomo sano18. L'immagine vichiana che abbiamo prima evocato si riferisce, infatti, alla fisiologia dell'associazione mentale, all'ordinario svolgimento dell'immaginazione. Diventa, tuttavia, esclusivo della schizofrenia quando abbandona il terreno della "langue" e si isola in una "parole" perpetuamente privata. Tale "parole" ha un suo senso, è integrata nel mondo monodimensionale del delirante, così come la parola ordinaria è integrata anche nel nostro mondo individuale, ma uscendone fuori appare immediatamente una violazione della regola, apparentemente creativa, ma in realtà incompatibile con l'altra dimensione della parola ordinaria: quella sociale, interazionale. L'antropoanalisi - come in un certo senso anche la psicoanalisi - gioca semanticamente su quest'alternanza di piani: il pubblico e il privato, la langue e la parole, il conscio e l'inconscio. Di più: ne trae un metodo e una terapia. Rispetto all'organicismo sentenziante, che dice cosa il malato deve o non deve fare sino alla soluzione elettroshoccante, antropo e psico-analisi, predicano l'ascolto. Mettersi in sintonia col paziente significa ricostruire il mondo possibile del suo privato, rivelare l'orditura cosciente dei suoi impulsi inconsci attraverso la decodifica "oggettiva" del suo linguaggio.

Sul piano creativo, quindi, restiamo, con la schizofrenia, di fronte ad un'accezione dell'illimitatezza che oltrepassa la "coscienza universalmente riconosciuta del significato" (Binswanger, 1965: 38). E oltrepassa anche la nozione kantiano-husserliana di indeterminabilità dell'intuizione. Nello schema fenomenologico, infatti, qualsiasi noema "racchiude in sé una regola per la possibilità ideale del suo perfezionamento" (Husserl, 1950-52: 332). Quest'ultimo avviene nell'ambito di una sconfinata libertà di pertinentizzazione non solo di "proprietà e variazioni di proprietà" (id.: 333) come ben vede la "fenomenologia pura", ma anche di scivolamento tra i piani metalinguistici e progressivo allontanamento dal linguaggio oggetto, come precisa oggi l'analisi logico-semantica dei linguaggi verbali. E, tuttavia, "completamente liberi non siamo" (ib.) perché frenati non solo dall'uso sociale dei segni ma, soprattutto, dalla vocazione pubblica delle regole dell'argomentazione. L'infinito intuitivo diventa allora una "progressiva illimitatezza di visioni concordanti" (ib.) nella quale non è mai perso, anche se continuamente spostato di posto, quel confine tra sfondo e figura, tra "progresso" del senso e sua identità comunicativa da cui lo schizofrenico si è invece svincolato.

Nel caso della paranoia, tuttavia, questo schema non può essere applicato, tanto che persino le correnti fenomonologiche e psicoanalitiche si vedono impotenti nell'applicazione di metodi di cura. Anche praticandoli nel più assoluto rispetto delle norme del colloquio terapeutico, nel caso del delirio puro "si può pervenire a un'intesa comunicativa, Verständigung in senso antropoanalitico, ma non si può mai giungere a un'intesa comunicativa oggettiva" (Binswanger, 1965: 21). La creatività paranoica, infatti, ha perso (quasi) totalmente lo scoperto esibizionismo della parole schizofrenica. È molto più difficile, nel suo caso, capire cosa dovrebbe essere decodificato, visto che i suoi sono sempre "segni pubblici", che il suo infinito semiotico continua ad essere regolato dalla stessa "progressiva illimitatezza di visioni concordanti" che distingue - come si diceva nel Settecento - l'"estro" dalla "fantasia". Il paranoico si fa capire sempre anche quando instilla dubbi sottili, enuncia improbabili congiure, immagina discriminazioni e persecuzioni inesistenti. Non può essere frainteso: è solo che non siamo d'accordo con lui.

 

9. Certo anche nel paranoico la creatività discorsiva nasconde l'impoverimento più drastico delle possibilità di scelta cognitiva, anzi più che in tutti gli altri malati mentali è come se il suo "campo della coscienza" fosse "ridotto, ma unificatissimo e completamente riempito dallo sviluppo di una sola tendenza" (Janet, 1903: 546). E, tuttavia, neppure la psichiatria più avanzata può misurarlo con metodi semantico-linguistici. Così come il possente armamentario della linguistica e delle scienze cognitive sono costretti ad arrestarsi dinnanzi alla misurazione formale dell'ideologicità di un discorso.

Resta allora da battere un'ultima strada, un ultimo paradosso. Chiedersi se anche la natura ideologica del linguaggio in sé e delle stesse scienze che cercano di studiarne la struttura e i fondamenti, non derivi proprio dall'essere un oggetto "ridotto, ma unificatissimo e completamente riempito dallo sviluppo di una sola tendenza". Cercheremo di esplicitare, nei paragrafi finali, questo paradosso.

Ciò che emerge globalmente come dato comune da tutte le discipline e da tutti gli orientamenti o scuole o tradizioni di cui abbiamo dato cenno in questo lavoro è la consapevolezza che la creatività linguistica, così come la creatività cognitiva tout-court, non è configurabile in positivo. Non basta parlare, formulare frasi corrette, esprimersi in assoluta libertà da stimoli esterni e in maniera appropriata agli interlocutori e alle situazioni, connettere logicamente i propri discorsi, promuovere intenzionalmente la comunicazione. E non basta neppure esser capaci di violare le regole, di associare in modo nuovo segni e idee, di manipolare onnipotentemente l'illimitata materia della significazione. Non basta, infine, nemmeno la capacità di essere comprensibili e persino compresi. Correttezza, coerenza, decifrabilità, libertà, possono essere attributi di qualsiasi macchina. Anzi la macchina sempre corretta, coerente, decifrabile, libera, sarà anche la meno creativa e, come abbiamo visto, la più paranoica.

Proviamo allora ad invertire i termini del problema. Si può intravedere creatività quando gli attributi della meccanicità - che pure è essenziale alla cognitività - si manifestano "ad intermittenza", cioè a dire quando non c'è una risposta per tutto, quando non c'è un segno definitivo, quando la libertà di interpretazione si scontra contro un vincolo, quando si percepiscono "errori" nel procedere del pensiero e della parola. La "pausa" cognitiva, l'interruzione del circuito operazionale, sono i momenti in cui l'azione interrompe i circoli chiusi delle corrispondenze, della comunicazione, configurando i nostri atti come tentativi, come domande, come prove. La percezione e la valorizzazione di tutto ciò che limita le possibilità cognitive e ci sprona a superare in nuove e più ampie "regole", nel recupero di un'idea dinamica della coscienza, composta da domini e piani metalinguistici di natura diversa e interagenti, è il primo passo per far emergere una fisionomia della creatività capace di distinguere la razionalità meccanica da quella umana, la paranoia dal ragionamento.

Nella storia del pensiero pochi sono i filosofi che hanno percepito il ruolo costitutivo dell'azione, del movimento, come specificità del linguaggio. Azione non solo come conflitto con l'inopia corporale, cioè come integrazione e superamento nella e della costituzione biologica dell'uomo, ma anche come confronto dialogico, cioè come tensione tra omologazione e trascendenza rispetto all'enciclopedia condivisa, al discorso consensuale. Così in Aristotele, Vico, Bergson, "articolare" la parola è il primo "agire" del pensiero; argomentare, confutarsi e "ritrarsi" nella "prudentia" il secondo. Il linguaggio, e tutte le sue forme creative, sussistono solo in virtù di questi equilibri storico-naturali che permettono di entrare ed uscire a piacimento dal piano del corpo a quello della mente, dall'idealizzazione alla referenza, dal linguaggio oggetto al metalinguaggio: e viceversa.

Ora è proprio questa capacità "creativa" di interrompere con l'azione il fluire infinito dei circoli ideologico-mentali che viene a mancare nella costituzione paranoide. È un'invalidità che avvolge non le semplici forme della comunicazione ma la globalità del linguaggio in quanto forma di vita, concrezione di tutte le stratificazioni sensoriali, emozionali, passionali, ideologiche che circoscrivono la fonction du reél (Janet, 1903)19. Proprio perché così avvolgente e pervasiva, quest'idea di lingua, che - a dispetto dell'epoché fenomenologica - è l'unica a poterci rivelare la differenza tra la fisiologia e la patologia, tra l'uomo normale e il paranoico, non può manifestarsi dall'interno delle forme stesse del linguaggio: non si può coglierla nei processi rappresentativi ma solo nella sua "costituzione ontologica". Certo essa, proprio perché "sta" dappertutto, coinvolge - come abbiamo visto - le strutture cognitivo-discorsive del paranoico: le "finalizza", le rende infalsificabili, le ingrigisce nell'illimitatezza noetica che priva di contorni condivisibili le "intuizioni" deliranti. Ma anche la peculiarità di queste "operazioni" intellettuali non possono fornirci la "prova finale". Bisogna cercare altrove, negli indizi esistenziali più lontani dalla mente, nelle procedure in cui la creatività è più direttamente connessa alla corporeità, all'affettività, alla natura reificante dell'azione. Se anche lì ritrovassimo la "macchina" del delirio paranoico potremo finalmente afferrare il senso ultimo della deprivazione, dell'impoverimento creativo, della riduzione della molteplicità dei possibili e incerti "progetti di mondo" che contraddistingue, fuori dall'ambito delle forme, la "cognizione fisiologica", all'eleatica unità della "divorante certezza", segno ultimo dell'inguaribilità patologica.

 

 

10. Nulla più del tema della "catastrofe" può chiarire quest'ultimo punto. Non si tratta di uno dei tanti stati sintomatologici che possono caratterizzare la malattia mentale. Il luogo "catastrofico" si configura in tutte le psicosi come la porta d'accesso alla "cognizione del dolore", ovvero allo stato di permanente angoscia in cui vivrà per sempre il soggetto raggiunto dalla follia. Nella letteratura clinica esso è descritto in molti modi: senso del "tremendo", appressarsi del "terrore", attesa del "terribile" (Binswanger, 1957c: 47 e ss.). Non è affatto necessario - anche se molte volte si verifica - che l'inizio di una drammatica, perpetua esposizione al tormento, abbia inizio con un evento traumatico realmente accaduto: la morte di un congiunto, l'ineluttabilità di una malattia, la perdita di un affetto, la fine di un amore. La rottura catastrofica può erompere anche dal protrarsi di indecisioni interiori, dal sommarsi di indizi deliranti, dall'"angoscia del nulla" o dall'apparire all'orizzonte di situazioni senza vie d'uscita, oggettivamente motivate o del tutto immaginate. Ciò che è importante nella svolta catastrofica è che da quel momento non sarà più possibile tornare indietro, che l'esistenza psicopatologica sarà interamente permeata dall'incipiente sentimento di una fine attesa: per quanto, in che modi, con quali strategie aggirare o affrontare la ragnatela del dolore detterà le fenomenologie dei diversi stati psicotici.

La centralità degli stati catastrofici, e la loro importanza fenomenologica, è stata sempre un oggetto di analisi privilegiato dalla psichiatria di tutti gli orientamenti. Organicisti, psicanalisti, fenomenologi, antropo-analisti, hanno concordemente rilevato che questo sentimento di "morte annunciata" estende il proprio influsso devastante su tutti gli aspetti della personalità e, in particolare, su quelli più "orientati al corpo": sensorialità, emozionalità, passionalità, affettività. Esso, inoltre, determina una svolta egocentrica, la sensazione che, dal momento catastrofico, tutto ruoti attorno all'io aggredito (Binswanger, 1965: 40 e ss.). "Catastrofe" è anche "anastrophé" e "appresentazione" (ib.), cioè proiezione del sé - come unità bio-psichica, corporea e mentale - al centro dell'universo delirante. Tutta la inafferrabile complessità della sofferenza nella malattia mentale è contenuta in questa formula e tutte le forme che la psicopatologia può assumere sono ad essa riconducibili. Si può persino affermare che da come e quanto soffra un malato mentale è possibile conoscere e forse finanche classificare la gravità del suo stato e soprattutto la natura della sua alterazione cognitiva.

Quest'ultima affermazione esige, tuttavia un chiarimento. Il semplice criterio della sofferenza, e, soprattutto delle modalità con cui il paziente riesce a conviverci, non è raffigurabile come una scala di livelli progressivi: più sofferenza non indica maggiore gravità, almeno nel senso neutrale di "maggior alterazione cognitiva" o "coscienziale". Chi più soffre non è più "anormale", non è più diverso o distante dall'individuo sano. Per un ennesimo paradosso psicopatologico, è, forse, il contrario. La quantità e, soprattutto, il modo di soffrire - cioè la vera misurazione dell'alterità bio-psichica - è inversamente proporzionale al grado di cognitività residua.

Nel mondo dell'anancastico (von Gebsattel, 1938), per esempio, il grado di sofferenza è molto alto. Chi vive una nevrosi coattiva è tormentato a tal punto dal senso di fobia che gli trasmettono certe situazioni angosciose che non può fare a meno di reagire attraverso una batteria di atti "controcoattivi" (id.: 77) non meno invalidanti della stessa sindrome ossessiva: chi ha paura dei germi può arrivare a lavarsi centinaia di volte al giorno, chi ha fobia dei numeri può sviluppare una "coazione secondaria" che lo costringe a contare senza interruzione per ore o giorni, chi vuole evitare un ricordo "catastrofico" può esorcizzarlo costruendo manieristici e complicatissimi rituali. Coloro che, come Binder, Gebsattel, Janet, hanno studiato le sindromi da automatismo psichico, hanno tuttavia fatto rilevare che nel "mondo possibile" dell'anancastico ciò che si configura come "psichismo di difesa" è ancora un atto positivo, un segno di sopravvivenza, a volte anche fortissima, di quella struttura "motoria" dell'"agire" che contraddistingue - come abbiamo accennato nel §. 9 - il pensiero "intermittente". La circolarità della struttura "calcolistica" dell'io non è affatto completata, l'individuo è ancora recuperabile all'errore: la sua creatività psicopatologica (lo sbalorditivo polimorfismo delle reazioni contro-coattive) è ancora un potente segno di vita psichica.

L'individuazione di un principio dualistico che agisce all'interno di ogni patologia, è merito della cultura neuropsicologica evoluzionista. Prima ancora di Janet è stato J.H. Jackson che, ispirandosi a Spencer, sul finire del XIX secolo, aveva interpretato gli errori degli afasici come "l'effetto delle attività di riadattamento nervoso che sono scampate al danno" (1879-80: 154-55). In tal modo egli apriva la strada all'afasiologia olistica che negava il rigido schema deterministico dei localizzazionisti e anticipava le più moderne discussioni neurolinguistiche sulla "plasticità" del cervello in relazione alle funzioni intellettuali superiori. Al di là delle considerazioni specifiche sulla questione dell'afasia, che in questa sede non ci riguardano, è importante rilevare che il dualismo jacksoniano per cui tutto ciò che nella patologia appare negativo può essere interpretato come il versante positivo dell'"agire" cognitivo, evidenzia il paradosso, vivissimo nelle psicopatologie, che anche il più strambo e "pazzesco" comportamento di un individuo affetto da malattia mentale possa essere funzionalizzato alla sopravvivenza di una razionalità "attiva", "creativa" sino alla mostruosità.

Il caso della melancolia, cioè dello stato più prostrante della depressione psicotica, ne è l'esempio più sconvolgente. A differenza di quello degli anancastici, il mondo dei melancolici è apparentemente privo di qualsiasi "attività". L'angoscia della psicosi melancolica è la quintessenza della sofferenza: chiunque osservi questi soggetti o studi i casi più famosi, può rendersi conto dell'assenza di ogni tendenza all'azione. Anoressico, immobile sino alla catatonia, mutacico, il depresso nel suo stato finale concepisce una sola soluzione: il suicidio. Nelle statistiche cliniche, infatti, i casi di suicidio più frequenti sono attribuiti proprio agli stadi depressivi più profondi. Al di là dei dati quantitativi, il suicidio appare, tuttavia, come l'ultimo atto "positivo" della cognitività "agente", la reazione estrema al circolo catastrofico in cui è stata gettata l'esistenza dell'individuo melancolico. Il melancolico, che non si è mai sottratto alla "fonction du reél", che non si è mai creato un "altro mondo", un "altra ragione", "interrompe" volontariamente con l'agire suicida l'illimitatezza del dolore, l'appresentazione egocentrica della sofferenza.

È con la schizofrenia e la paranoia che lo statuto esistenziale della sofferenza cambia natura. Lo schizofrenico e, ancor più, il paranoico reagiscono al dolore della catastrofe in un modo strutturalmente diverso dagli altri malati di mente. Nonostante le importanti differenze che si possono riscontrare nelle due tipologie - d'altro canto quasi mai completamente scisse nella pratica clinica - manifestano entrambi un indizio psicopatologico decisivo: il masochismo del delirio.

Che i deliri di persecuzione, grandezza, gelosia - le forme più frequenti in tutti gli stati paranoidi - siano sistematicamente associati non solo a fantasie ma anche a vere e proprie strutture esistenziali o costituzioni masochistiche, è un osservazione costante dell'esperienza clinica20. Il rapporto fra un angoscioso senso di colpa originario - origine della catastrofe - e un meccanismo psico-reattivo che carica su sé stessi o sui più cari congiunti l'espiazione del peccato, genera le più orride proiezioni masochistiche. Così Suzanne Urban - uno dei più celebri casi studiati da Binswanger (1957a/b) - immagina che i membri della sua famiglia sono nutriti con del pane pieno di vermi, sono immersi interamente nel fango "con nasi, orecchie, labbra, mani e piedi tagliati, denti spezzati", sono sottoposti dalla polizia all'estirpazione degli occhi e dei genitali, che si sia versato su essi della pece e del piombo fuso. Analogamente la schizo-paranoide Renée si sente tormentata dal "sistema" che controlla con "congegni elettrici" installati nel cervello - similmente alla Aline di Binswanger, prima citata - tutti i suoi pensieri, sino a giungere alla determinazione di collocare la propria mano su un braciere ardente. Ed ancora l'"uomo dei resti" si sbizzarrisce ad ipotizzare i supplizi più impensabili: cadaveri fatti a pezzi, urine e feci, vetri conficcati nelle unghie, tutto ciò che di più umiliante e degradante possa essere concepito viene amabilmente e quasi cinicamente, freddamente relazionato allo psichiatra che lo ascolta.

In questa galleria degli orrori più diversi e bizzarri esiste tuttavia una costante che si dispone su una linea continua perfettamente individuabile dagli stati schizofrenici più allucinati o degenerati (con coinvolgimento della sensorialità e della corporeità) a quelli gelidi della paranoia pura (in cui non si arriva mai all'automutilazione e si sviluppa sistematicamente ciò che Kraft-Ebing chiamò un "masochismo ideale" o "morale"): la sofferenza non è un processo lineare che corre progressivamente verso uno sbocco fatale (il suicidio), ma è un ritrovato per perpetuare all'infinito la circolarità del delirio sistematico. Diversamente dal soggetto melancolico in cui l'insopportabile pathos dell'offesa si risolve spesso nell'atto finale che sancisce con l'azione la cessazione del dolore, negli stati paranoidi non c'è mai l'intenzione di interrompere il loop infinito del tormento. Nella paranoia pura, nello stato freddo della folie lucide, esso è fonte di cinico compiacimento mentale, di sostegno ad un "istinto di conservazione" (Kraft-Ebing, 1906) ormai del tutto intellettualizzato e garante dell'autonomia dell'unico, vero, "oggettivo" mondo scampato alla catastrofe.

Quando anche gli istinti primari, quelli più prossimi all'animalità, all'urgenza di "dipendere dal contesto", mostrano - come nel masochismo paranoico inteso nel senso di estenuazione del sistema delirante, prolungamento infinito di uno stato cognitivo che non vuol risolversi all'azione - la trama di una cristallizzazione artificiale della ragione "naturale", la degenerazione del rapporto fra mente e corpo del linguaggio, tra "rappresentazione" e "significato" dell'esistenza nella sua globalità, è giunto al suo stato terminale.

È qui - lontanissimo dal riempimento di matrici e schemi semiotici, dal gioco delle corrispondenze con le strutture formali della sintassi, dall'alterazione delle funzioni rappresentative e dei valori semantici inscritti nella langue - che va ricercata la natura ontologica della "creatività linguistica".

Chi, come il paranoico, la perde può, spesso più di chi la conserva, generare all'infinito frasi corrette, sviluppare discorsi coerenti, sorprendere per le analogie più bizzarre o per le configurazioni discorsive più serrate21. Ma il mondo a cui fa riferimento la crosta del suo linguaggio è ormai del tutto intellettualizzato, il suo vissuto è ossificato e artificiale, la sua enciclopedia astratta e meccanica. Persino la sua sofferenza non è più "angoscia" nel senso kierkegaardiano: non è più "possibilità" del dolore ma conversione in struttura del ragionamento.

È solo "un computer con un unico programma, abbandonato a se stesso, che non riceve più comandi da parte di un'intelligenza" (Binswanger, 1965: 58)22.

 

 

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

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NOTE

1 Tra i pochi filosofi del linguaggio interessati al problema c'è Delacroix (1924: 469-96). Per una discussione più recente sul rapporto fra psicopatologia e filosofia del linguaggio mi permetto di rinviare a Pennisi (1994). L'importanza del riaccostamento tra psichiatria e filosofia del linguaggio, già sottolineata da Piro (1967), è stato ribadita da Beneduce (1990: 7 e sgg.). Per i lavori dei linguisti cfr. la recente rassegna di Reiber (1994).

2 Manca, purtroppo, un'attività di raccolta sistematica e di organizzazione dei testi prodotti negli istituti psichiatrici dai soggetti colpiti da malattia mentale. Un lavoro di tal genere, a cura della cattedra di "Filosofia del Linguaggio" della Facoltà di "Scienze della Formazione" dell'Università di Messina, si sta svolgendo attualmente all'ex manicomio Mandalari di Messina - diretto dal Dott. Camillo Martelli - che conserva un corpus di circa quarantamila cartelle cliniche dove sono conservati gli scritti dei malati. Il progetto è stato descritto in Famiani-Torre-Catanzaro-Pennisi (1994).

3 Cfr. Séglas (1892: parte I e II), Lacan (1975: 333-56), Irigaray (1985).

4 Cfr. Pfersdorff (1935), Cossio (1955), Piro (1967), Pennisi (1994).

5 L'esperienza è di J. Ch. Reil (considerato uno dei fondatori settecenteschi della psicologia razionale e direttore di diversi sanatori psichiatrici) ed è riferita da Zilboorg-Henry (1941: 251).

6 Cfr. il fondamentale Binswanger (1955).

7 Tra le molte analisi tecniche del linguaggio parlato e scritto dei paranoici a confronto di quello di altri alienati mentali, cfr. almeno Séglas (1892: parte I e II), Morselli (1894: 275-558), Kussmaul (1884: 54-8), Lacan (1975: 333-56). Vastissimo il settore degli studi sul linguaggio schizofrenico e psicotico in generale (stati paranoidi compresi). Tra gli altri, oltre quelli già citati, vedi: Esquirol (1838: v.II.: 496, 538, 605 e sgg.), Tissot (1877: 217-41), Tanzi (1889-90, 1905: 218-34 e vari cenni in tutte le sezioni sulle diverse sindromi, Tanzi-Lugaro, 1914, v.I.: 450-500), Kraepelin (1899: cenni sparsi - ma importantissimi - nello "storico" cap. quinto sulla dementia praecox, pp. 137 e sgg.), Bleuler (1911: 141-52, ma considerazioni importanti sono sparse in tutto il libro), Chaslin (1912), Pfersdorff (1935), Cossio (1955), Bobon (1952, 1962), Arieti (1955), Maccagnani (1964, 1966), Critchley (1964), Lawson et alii (1964). La fase moderna della riflessione sulla psicopatologia del linguaggio comincia con l'affermarsi della psichiatria esistenzialista, strutturalista e antropo-fenomenologica. Anche se non espressamente dedicati alle questioni linguistiche, risultano fondamentali per la comprensione del problema semantico i lavori di Janet, Minkowski, von Gebsattel e, soprattutto, Binswanger, che si ispirano alla filosofia di Bergson, Jaspers, Husserl e Heidegger e che citeremo nel corso del lavoro. Un punto di riferimento è anche la tradizione fenomenologica italiana, che, con il fondamentale lavoro di Piro (1967, dove si trova un'enorme bibliografia storica e teorica sino agli anni sessanta) ha esplicitamente affrontato il problema del linguaggio schizofrenico. L'evoluzione delle posizioni di Piro è stata continua come dimostrano i suoi più recenti lavori (oltre a una sterminata quantità di saggi sparsi, cfr. i volumi del 1992 e, soprattutto, 1993). Oltre i lavori di Barison, Borgna (1988), Galimberti (1979) e Cargnello, che citeremo in seguito, sulla scia di Piro si collocano i lavori della più recente generazione: un ottimo esempio sono i volumi collettanei curati da Beneduce (1990) e Valent (1991). Di impostazione più linguistica, anche se in chiave psicoanalitica, i lavori della Irigaray (1985). Un approccio organo-dinamicistico in Werner e Kaplan (1984). È d'obbligo, infine, un riferimento alle tendenze del cognitivismo nell'ambito della psicopatologia del linguaggio. Esso è diviso tra una corrente neuro-biologica che ripropone un punto di vista sostanzialmente neo-organicista secondo il quale non si deve parlare di disturbi linguistici negli schizofrenici ma di disturbi dell'elaborazione delle informazioni ("information processing" e difetti di genere diverso nei circuiti neurobiologici che trasportano informazioni) e una corrente psicologico-terapeutica che tende a considerare il linguaggio psicotico come una manifestazione a-semantica, in cui il deficit non è "definibile nei termini della verità/falsità delle sue costruzioni, né da una loro migliore o peggiore adeguatezza/vicinanza rispetto al mondo ontologico" bensì dalla "maggiore o minore capacità di accogliere l'invalidazione [...] , e di un maggiore o minore equilibrio interno (maggiore o minore presenza di contraddizioni e incoerenze all'interno del sistema che portino a costruire lo stesso evento con significati diversi e contraddittori" (Cionini, Psicoterapia cognitiva, Roma, 1993: 63). Per il primo orientamento cfr. Tucker e Rosenberg (1975), Braff e Saccuzzo (1985), Braff et alii (1977), Saccuzzo et alii (1974, 1981), Adler et alii (1982), Asarnow e Watkins (1982), Freedman et alii (1983), Patterson, et alii (1986), Frith (1992) con bibliografia recente. Per l'indirizzo psicologico-terapeutico cfr. Freeman-Cameron-McGhie (1958: 51), Steffy (1993), Cionini (1993), Granholm (1994), Steffi (1993) e Dobson e Kendall (1993). Una tradizione parzialmente deviante dal cognitivismo è quella del neo-comportamentismo. Cfr., al proposito, Chaika (1977), Durbin e Martin (1977), Andreasen (1979), Andreasen e Powers (1974), Andreasen e Grove (1985 e 1986), Schwartz (1982).

8 Col termine "negativismo", usato da Kraepelin, si intende una maniera di parlare (e di comportarsi) che da un lato afferma e dall'altro nega ciò che dice. Anche nei celebri casi Wagner e Schreber siamo in presenza di forme di linguaggio paranoico altamente elaborato ma perfettamente comprensibile. Al di fuori dei suoi lavori teatrali (ma anche in quelli) Wagner "mostrava una voluta ricercatezza: usava un tedesco forbito, particolarmente corretto, libero da inflessione dialettale, sì da apparire eccentrico e manierato" (Cargnello, 1984: 13). Schreber battezza, addirittura, una nuova lingua o Grundsprache (lingua fondamentale o radicale), che fa anche uso di neologismi ma tutti riconducibili a elementi conosciuti. Essa è "individuale" solo nel senso che risulta "intessuta di opinioni personali, politiche e religiose, di speculazioni filosofiche e di esperienze allucinatorie" (Niederland, 1975: 23).

9 Un esempio nella lettera citata più avanti al §. 6.

10 "I pazzi mettono assieme le idee sbagliate ottenendo proposizioni sbagliate, ma discutono e ragionano rettamente a partire da esse" (Locke, 1690: 198, ma cfr. tutto il cap. XI del secondo libro). Kant individua nella pregiudiziale "ideologica" la natura della follia: "l'uomo alienato giudica tutto secondo sensu proprio e non riesce a prendere in considerazione nulla dal punto di vista del sensus communis; egli consulta sempre ed esclusivamente il proprio privato senso per ogni oggetto altrui" (1798: 111). Egli torna più volte, soprattutto nell'Antropologia, sulla follia. In Manganaro (1989) sono raccolti tutti i testi più significativi.

11 Kretschmer (1918) parla di "delirio di rapporto sistematico". Sérieux e Capgras di "délire de signification" (1909). Jaspers (1913) insiste sulla nozione di "processo psichico" senza disgregazione della vita mentale. Per Ey (1973) la paranoia "è un processo essenzialmente discorsivo [...] un lavoro del pensiero di cui l'interpretazione è la chiave di volta" (Ey, v.II: 802); "l'evoluzione generale del delirio si fa secondo le regole di una costruzione che tende a perfezionarsi e completarsi. Soprattutto a chiudersi. E in effetti i deliri, che spesso si costruiscono durante molti anni, somigliano a una specie di capolavoro di architettura, a un romanzo di cappa e spada, o nero, o poliziesco, o di spionaggio. Quando il delirio è arrivato ad organizzarsi secondo un ordine interiore che dispone tutti i suoi significanti in funzione del suo significato ideo-affettivo centrale o della sua 'key experience', si completa, allora, come una perfetta tela di ragno" (id.: 817, ma vedi, più ampiamente, sulle nozioni-base di "sistematicità" e "finalismo discorsivo" le pp. 801-28).

12 Per Dromard (1911), addirittura, "la paranoia non è, invero, un episodio morboso: è la fioritura naturale e, in un certo senso, fatale di una costituzione. Intendo dire che, a parità di tutte le altre circostanze, gli avvenimenti si verificano secondo l'ordine che presiederebbe al loro sviluppo in un cervello normale" (p. 293). Così anche nell'autodiagnosi che Wagner propone nel suo Delirio : "proprio in questo consiste la malattia, la follia: non c'è nessun motivo, nessun ragionevole motivo, nessun motivo che risulti evidente per una persona normale. Ma per il malato di mente l'immaginazione folle ha altrettanta realtà della realtà più reale; aleggia su di lui la costrizione. Ossessionanti sentimenti lo gravano, e il sentimento costringe il pensiero, e il pensiero costringe la volontà. Ed eccolo posto in catene dal suo stesso spirito" (1921: 185).

13 Sul caso Wagner cfr. Cargnello (1984).

14 Cfr. la nota n. 2.

15 Così nel "caso Ilse", uno dei primi casi schizofrenia studiato da Binswanger (1957b: 238-44), "non si perviene ad alcuna coordinazione o sintesi delle percezioni coscienti del mondo di un'esperienza unitaria, ma solo a 'brandelli di esperienza'" (1965: 37).

16 "Per me, la follia era un regno opposto a quello della realtà, dominato da una luce implacabile, senza ombre, accecante. Era un'immensità senza limiti, desolata e squallida; un paese minerale, lunare, gelido come le steppe del nord. In questo paese tutto è immutabile, esanime e cristallizzato. Gli oggetti sono sparsi qua e là come cubi geometrici abbandonati o quinte di teatro private del loro scopo. Le persone si agitano in modo bizzarro facendo gesti, movimenti inutili; sono fantasmi che vagano in questa landa, senza confini, sfiniti da una luce senza misericordia" (Secheaye, 1957: 21-2).

17 È da notare, tuttavia, che questa importante, e da noi condivisa conclusione di Binswanger, non è affatto estensibile a tutta la psichiatria. Oltre alle dispute sul rapporto fra psicopatologia e creatività artistica in voga sino agli anni settanta (cfr., ad es., Morselli, 1945 e 1948, Barison, 1948 e 1964, le rassegne di Bobon, 1962, Maccagnani, 1964 e 1966, riassunte e discusse da Piro, 1967: 187-218, Arieti (1979), o i tentativi di misurazioni sperimentali della "scrittura creativa" (Andreasen, 1975), la tendenza ad interpretare l'esperienza schizofrenica e delirante come "qualcosa di significativo e di creativo [...], l'instaurarsi di una diversa articolazione dialogica e di una diversa fondazione intersoggettiva" per cui "la connotazione positiva (creativa) del delirare e dell'allucinare riscatta e oltrepassa l'in-sensatezza apparente delle realtà psicotiche" (Borgna, 1990: 65), è diffusa soprattutto nella tradizione fenomenologica. Binswanger si allontana decisamente da questa tentazione della psichiatria fenomenologica a partire da una concezione della creatività che si colloca in un rapporto di equidistanza fra scienza e poesia. E, molto significativamente, le vede lontanissime entrambe dalla natura dell'attività delirante: "là nella scienza, una trascendenza spontanea, ma anche ricettiva, nel senso di un vincolo eidetico rigorosissimo, della più rigorosa oggettività e del più vigoroso realismo; nella poesia una trascendenza spontanea nel senso della più libera e geniale scioltezza e della possibilità da parte di determinate regioni eidetiche di vincolarsi produttivamente a nuove, potenti, figure eidetiche; qui, nel delirio, una trascendenza estremamente manchevole fin quasi all'estinguimento di ogni spontaneità, un decadimento della capacità di trascendenza alle condizioni di una registrazione meramente ricettiva" (1965: 50).

18 Intendiamo qui per "procedure cognitive" le operazioni logico-intellettuali del comportamento ordinario.

19 Di formazione filosofica, allievo prediletto di Charcot, Pierre Janet dedica molte pagine alla definizione di questa formula. Per lui la "fonction du reél", che coincide con la nozione bergsoniana di "presentificazione", è la capacità di agire sugli oggetti esterni, di cambiare la realtà, di essere in sintonia ("attenti") con le percezioni esterne e interne (pensieri e idee personali, cfr. 1903: 433). Concetti analoghi vengono espressi da H. Bergson ("l'attenzione alla vita" di Materia e Memoria ) ed E. Minkowski che definisce la schizofrenia "perdita del contatto vitale con la realtà" (1968: 281).

20 Non altrettanto attenta è stata, tuttavia, l'interpretazione di queste osservazioni. Solo Nunberg (1948) e, soprattutto, Bak (1946) hanno conferito all'indizio masochistico un grande valore euristico. Bak ha addirittura ridefinito la nozione di "reazione paranoide" come un "masochismo delirante".

21 Un panorama affascinante delle possibilità creative della paranoia in Siegel (1994).

22 La frase è parafrasata da Binswanger dalla Introduzione alla fenomenologia di Husserl dello psichiatra ungherese Szilasi (suo maestro ed amico).

 

 

 

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