Antonino Pennisi (Università di Messina)

 

 

L’ingenium e i segni muti

 

0. Se volessimo fissare una data di inizio del dibattito sull’ingenium nella linguistica vichiana, potremmo considerare il 1984: anno di due importanti convegni sulla storiografia linguistica, dedicati in Sicilia ad A. Pagliaro, in cui la figura di Vico risultò preminente (cfr. PSL). Già da allora sembravano emergere tre concezioni principali della dottrina dell’ ingenium:

1) come fondamento retorico-umanistico dell’estetica vichiana; (tesi crociana ripresa in Di Cesare, 1986 e 1988);

2) come fondamento psicologico della sua metafisica; (tesi del Vico anti-cognitivista, sostenuta da Verene, 1981 e ripresa da Danesi, 1993);

3) come fondamento semiotico di un’antropologia politico-sociale dei segni, che ha indagato soprattutto sulle basi materialistiche dell’ingenium.

Quest’ultima accezione si regge su due proposizioni autonome ma collegate: a) l’ingenium è una facoltà mentale rigorosamente circoscritta dai fondamenti biologici del linguaggio (Lo Piparo 1987, Pennisi, 1986, 1987 e 1995); b) l’ingenium è la prima condizione della comunicazione sociale, quella che garantisce la permeabilità fra le diverse stratificazioni storico-giuridico-istituzionali (Bobbio, 1979 e Giarrizzo, 1981, Agrimi, 1984).

Questo mio intervento si propone di approfondire solo questa terza accezione poichè è quella che, a mio modo di vedere, costituisca la parte più viva di Vico, ciò che, per usare le parole di Pagliaro è "da valutare per sé" (1961: 299). Naturalmente cercherò di dimostrare la mia tesi limitandomi a una questione circoscritta: quella dell’origine del linguaggio articolato a partire da quel complesso costrutto teorico che Vico chiamava "le lingue mutole".

1. Si tratta di una questione rilevante su cui gravano diverse perplessità. Tra esse ne considererò solo due.

La prima è di Pagliaro che riponeva il valore vichiano "in sè" in un’originale teoria della creatività linguistica della parole. In tal modo cozzava proprio contro le tesi sull’origine del linguaggio articolato. In particolare nei §§. 28-29/51-53 di Lingua e poesia secondo Vico (1961), egli spiegava come uno spiacevole incidente il ricorso vichiano alle spiegazioni fisiologiche (il monosillabismo, l’onomatopea, l’ipotesi di una fase mutola, il ricorso agli esempi patologici, etc.) che mal si armonizzavano con una ricostruzione idealistica di Vico.

La seconda è di Trabant (1994). Egli ritiene che la specificità di Vico consista nella sua attenzione verso i segni, più che verso il linguaggio verbale. Sarebbe insomma più vicino a Peirce o a Eco, che a linguisti veri e propri (86): "i caratteri poetici dei primordi sono [...] qualcosa che ha a che fare con l’occhio e con la mano, e non ha invece nulla a che fare con la bocca e con l’orecchio" (43). Partendo da questa prospettiva Trabant giudica come "la parte più debole della teoria vichiana dei segni [...] la sua teoria delle origini della parola" (84). Secondo Trabant, infatti, "Vico non possiede un’idea sviluppata dell’articolazione linguistica" (85) poichè per Vico il termine "articolato" signica "solo prodotto foneticamente dalla voce" (ib.).

Queste due prospettive in apparenza così diverse, sono quindi unificate da un’implicita critica: la diminutio del ruolo dell’ingenium a meccanismo generatore dell’articolazione vocale. L’articolazione vocale sarebbe una limitazione di libertà alla facoltà ingeniosa. Nel primo caso ostacolerebbe il pieno dispiegarsi del carattere creativo e poetico del pensiero linguistico. Nel secondo l’originaria, iconica, faculté du langage, compressa dalla necessità di realizzarsi in suoni meccanici.

2. Probabilmente sia Pagliaro che Trabant hanno ragione: il sorgere dell’articolazione vocale è un ostacolo alla libertà ingeniosa, così come viene descritta nelle opere giovanili, precedenti alla Scienza Nuova. Si tratta di vedere come e perchè, passando dall’estetica, dalla psicologia e dalla metafisica, all’antropologia storico-sociale della lingue tale ostacolo sia divenuto l’irrinunciabile fulcro della linguistica vichiana. È in questa chiave che il tema delle "lingue mutole", pur difficile e intricato, può diventare centrale. Proviamo ad analizzarlo più da vicino nelle sue componenti teoriche.

Le "lingue mutole" sono innanzitutto, nella Scienza Nuova, le assenze di lingua, la penuria di parlari, la mancanza di voci, che caratterizzano la fase delle origini delle lingue. In questa fase i portatori di lingue mute sono i bestioni della neonata gentilità. L’espressione "lingue mutole" ha quindi, innanzitutto, un valore filogenetico.

Torneremo in seguito su questo punto, ma osserviamo subito che da "lingue mutole", o da stadi di penuria linguistica, partono anche i fanciulli nati nelle epoche di "somma copia di voci". L’apprendimento del linguaggio nell’individuo ci riporta allo stadio genetico primario in cui matura l’av—ventura semiotica dei bestioni. In questo caso i portatori di "lingue mutole" sono i neonati e i bambini di tutte le epoche. L’espressione ha così anche un valore ontogenetico.

Sino a questo punto restiamo nell’ambito di una tradizione occidentale che ha sempre scorto rapporti più o meno fantasiosi tra l’evoluzione della specie e quella dell’individuo. Ma le "lingue mutole" sono, per Vico, anche lo stadio, a volte permanente, a volte no, dei deprivati linguistici. I "mutoli", i balbuzienti ("scilinguati"), gli afasici – come "quell’uomo onesto, tócco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto dimenticato de’ verbi" (S.N.II: 453) – e i parkinsoniani con alterazione del ritmo articolatorio ("la qual perturbazione affretta l’idee e le voci più tosto che le ritarda", id: 463). Coloro, insomma, che vivono la tensione fisio-psichica di una difficoltosa comunicazione, rinnovano la stessa lotta tra "povertà di lingua e necessità di farsi comprendere" (id.: 456) che attiva i fanciulli e i bestioni. I portatori di "lingue mutole" sono in questo caso i soggetti patologici, e l’espressione assume qui un valore morfogenetico.

La fase mutola delle lingue è quindi una permanente condizione della triplice genesi del linguaggio: nella fase della sua formazione, del suo apprendimento e del suo riappropiamento o sviluppo. Essa può essere attraversata dalla specie, da tutti gli individui o da una particolare classi di essi. Infine è sempre caratterizzata da un travaglio fisio-psichico profondo che attraverso l’"arte" raggiunge faticosamente una facoltà non data a priori.

Ma non è finita. Il concetto di "lingue mutole" sconfina dai limiti della genesi della funzione per allargarsi alla storia delle lingue. In alcuni noti passi della Scienza Nuova, come in tardi scritti minori, Vico, infatti, prospetta l’idea che lo stadio mutolo delle origini possa ritornare nell’evoluzione dei singoli idiomi storici. Ad es. nel 485 della Logica poetica della S.N.: "ne’ tempi barbari ritornati le nazioni ritornarono a divenir mutole di favella volgare". Oppure nella Firenze dantesca nella quale: "dovette tra gl’italiani ritornare la lingua muta [...] delle prime nazioni gentili, con cui i loro autori [...] dovettero spiegarsi a guisa di mutoli per atti o corpi aventino naturali rapporti alle idee" (L. a G. degli Angioli: 181).

Torneremo sulle cause che riducono le lingue volgari al silenzio. Per adesso è opportuno sottolineare che il riaffacciarsi storico delle "lingue mutole" è connesso con la perdita di identificazione politico-culturale che si realizza in un "co—mune sentimento" della lingua. Ciò complica la nozione stessa di "lingua mutola". Essa riguarda ora, oltrechè le specie e le classi di individui generali e particolari, anche le società e le etnìe: è filogenesi, ontogenesi, morfogenesi della funzione linguistica, ma anche sociogenesi delle lingue nazionali

3. Concetto, quindi, centrale, quello delle "lingue mutole" perchè configura il primato di un profilo "basso" o "grado zero" dell’ingenium – in questo caso il rapporto tra povertà o assenza di mezzi espressivi e necessità di comunicare – posto, tuttavia alla base della produzione e della ricezione del linguaggio, sia in senso individuale che in quello collettivo. Analizziamo in dettaglio ognuno di questi singoli problemi, cominciando da quello della produzione.

Qui non si può non partire dal gruppo di degnità "elementari" della nuova scienza vichiana (LVII-LX, 57/60):

"i mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare"

"i mutoli mandano fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati, pur cantando, spediscono la lingua a prononziare"

"le lingue debbono aver incominciato da voci monosillabe".

Si tratta per Vico del principio del "parlar naturale", di cui si sente autentico scopritore. Tale principio, infatti, corrisponde a quello che Platone e Giamblico "dissero indovinando" (S.N. II: 400), cioè senza coscienza di aver toccato il cuore del problema. La conseguenza di quest’inconsapevolezza è che il parlar per segni che hanno "naturali rapporti all’idee" non fu (come appunto per Platone e Giamblico) "un parlare secondo la natura di esse cose", quindi una pura duplicazione della realtà, bensì una sua trasfigurazione: "un parlare fantastico per sostanze animate" (ib.).

Il passo è noto e molto citato. La tradizione idealistica e semiotica vi hanno giustamente scorto il ruolo attivo che già la sola sensorialità svolge nell’elaborare gli stimoli esterni. Ciò che non collima più con queste prospettive è che il "parlare fantastico per sostanze animate"non prescinde mai in Vico dalla fisiologia del linguaggio, di cui (e qui non concordo con Trabant) dimostra di avere profonda conoscenza.

Cos’hanno infatti in comune bestioni, muti e bambini? Certamente l’assenza di astrazione e la presenza di forte memoria, ingegno, fantasia e passione. Ma, ancor prima, un apparato fisiologico non predisposto all’articolazione fonetica. La sostanza fisica dei suoni è, infatti, per Vico, in diretto rapporto con la costituzione anatomica. Emettere vocali richiede solo la fuoriuscita dell’aria dai polmoni. I suoni consonantici richiedono già le vocali: quindi, nella articolazione fonetica umana, essi non esistono allo stato puro, ma solo in versione sillabica. Ciò comporta due conseguenze. In primo luogo non si possono isolare i suoni consonantici ed è indispensabile, per pronunziarli, la presenza di una catena parlata la cui entità minima è il monosillabo. In secondo luogo, per reggersi gli uni con gli altri, i monosillabi devono essere dotati di proprietà tonali e metriche, cioè devono assumere lo statuto del "canto" o del "verso".

Siamo di fronte a uno dei passi cruciali dellaLogica poetica (il 461) proprio quello in cui Pagliaro vede condensati tutti gli errori di Vico. Qui appunto, si riprendono le degnità principali degli "Elementi":

"del canto e del verso si sono proposte quelle dignità: che dimostrata l’origine degli uomini mutoli, dovettero dapprima, come fanno i mutoli, mandar fuori le vocali cantando; dipoi, come fanno gli scilinguati, dovettero pur cantando mandar fuori l’articolate di consonanti" .

Canto e verso sono le prime manifestazioni linguistiche perchè, come dimostrano i mutoli, le vocali sono i primi suoni che essi riescono a pronunziare attraverso il canto, e, come dimostrano i balbuzienti, le consonanti sono pronunciabili solo in associazione ritmica con le vocali. Così il canto è innanzitutto l’emissione continua di vocali, e il verso la composizione di entità sillabiche in rapida sequenza. La successione canto-verso dell’origine del linguaggio non è pertanto determinata né dalle caratteristiche psichiche dei soggetti, né dalla storia culturale dei popoli, bensì dalla duplice limitazione del piano della sostanza: nel senso della fisica del suono e in quello della struttura fisiologica degli organi.

Questi ultimi inoltre, per sviluppare tutta la propria potenza, devono raggiungere un certo grado di evoluzione morfogenetica, sia in riferimento all’individuo che alla specie. Per questo i fanciulli "quantunque abbiano mollissime le fibre dell’istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano" (231). E se ciò accade per i bambini "molto più si dee stimare de’ primi uomini delle genti, i quali (l’) avevano (le fibre dell’articolazione) durissime, né avevano udito ancor voce umana" (454. Cfr. anche 461).

Il principio strettamente fisiologico del monosillabismo condiziona poi tutte le strutture della lingua. Così è inutile cercare nella logica o nella psicologia il significato delle classi grammaticali. La successione diacronica pronomi - preposizioni-particelle-nomi-verbi è da attribuire alla legge fisiologica del monosillabismo originario. La pratica secolare della grammatica rafforza poi la natura intelettuale di quel principio fisiologico. Così c’è una progressione naturale del pensiero che parte dalla concretezza dei pronomi per giungere all’astrazione dei verbi "i quali portano l’innanzi e il dopo, che sono misurati dall’indivisibile del presente, difficilissimo da intendersi dagli stessi filosofi" (453). Questo continuum dal concreto all’astratto è regolato dalle stesse leggi articolatorie che ritroviamo nell’osservazione empirica dell’afasia:

"ed è un osservazione fisica che di molto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uomo onesto, tócco da gravissima apoplessia, il quale mentova nomi e si è affatto dimenticato dei verbi" (ib.).

Se vogliamo dare quindi una prima risposta priva di qualsiasi "sapienza riposta" al problema della produzione linguistica, diremmo che il proprio del "parlar fantastico per sostanze animate", dal punto di vista generativo, si risolve innanzitutto nella conquista dell’articolazione fonetica.

4. E veniamo ora alla questione della ricezione. Contrariamente al barone von Kempelen, un ingegnere settecentesco che aveva cercato di costruire macchine parlanti sulla scorta delle sue conoscenze del dibattito sui sordomuti, Vico non è un meccanicista e non ritiene che "un pò d’aria compressa dai polmoni [...] lo stretto sentiero della glottide [...] i molteplici ostacoli che la lingua, i denti e le labbra oppongono a quest’aria vibrante [...] [esauriscano]tutta la grande arte della parola, questo dono inestimabile del Creatore, il principale legame della società" (1791: 27).

Alla centralità della fisiologia articolatoria Vico associa l’attività psichica della mente. Il "parlare fantastico per sostanze animate" è articolazione fonetica ma, contemporaneamente, trasposizione fantastica. Anche in questo caso, tuttavia, l’accezione più "bassa" dell’ingenium interviene come base di una teoria empirica della ricezione del linguaggio.

Essa parte dall’ipotesi onomatopeistica che giustamente, dal loro punto di vista, viene attaccata sia da Pagliaro che vi scorge un ricorso al fattore di "minore libertà del linguaggio" (1961: 380), sia da Trabant che la giudica, assieme alla interiezione, "problematica" (1994: 85). Perchè, allora, Vico la adotta?

La raffigurazione dell’umanità gentile post-diluviana ci dà una prima risposta. I discendenti della razza di Noè vagarono a lungo nelle selve del dopo-diluvio. Inseguivano le prede e le donne "selvagge, ritrose e schive" (SN, II: 369). Per ragioni di necessità di sopravvivenza esse furono pessime madri e

"abbandonando i loro figliuoli, questi dovettero tratto tratto crescere senza udire voce umana [...] onde andarono in uno stato affatto bestiale e ferino" (ib.).

La ragione filogenetica del primato onomatopeico trova così un suo principio di "inopia" nella mancata esposizione alla voce articolata dei primi enfants sauvages. Per spezzare un circolo senza fine – assenza di ricezione / assenza di produzione / assenza di ricezione ... – la fantasia viene allora applicata ai suoni naturali. Essi, come già ricordato, non sono "naturali" nel senso di: "secondo la natura di esse cose", poichè tali cose non hanno "natura" in sé. L’onomatopea vichiana è in questo senso molto diversa da quella platonica. I suoni naturali non hanno infatti proprietà intrinseche, come nel fonosimbolismo platonico. Costituiscono solo sollecitazioni sensoriali che rendono liberi di provocare risposte il cui unico vincolo è quello di doversi conformare alla logica universale della mente che recita: "l’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo".

L’onomatopea, quindi, provoca risposte conformi alla logica universale della mente quando, in assenza di una proprietà intrinseca direttamente conoscibile (che manca al suono naturale), sostituisce una proprietà ricavata dalla somiglianza con ciò che l’uomo conosce di sé stesso. Da qui la trasposizione metaforica delle parti del corpo, il significato poetico dei tropi, il principio che "homo non intelligendo fit omnia", la conversione del vero col fatto, etc... Tutti temi ampiamente analizzati nell’esegetica vichiana, da Croce in poi.

Ciò che qui possiamo aggiungere è che, in contrapposizione alle idee di Pagliaro, è proprio la fondazione onomatopeica dell’articolazione a permettere di liberare la principale legge della metafisica vichiana, il "primo difetto della mente umana": la facoltà di creare, ri-facendole dall’interno con la propria materia, senza conoscerle in anticipo come Dio, tutte le parti di cui le cose sono fatte (405). Se si escludesse il fondamento onomatopeico del linguaggio, cioè se si escludesse che l’uomo sia partito da una fase mutola in cui, mancando le voci umane, restavano solo quelle naturali, cadremmo inavvertitamente nel convenzionalismo.

Ancora una volta, infatti, il principio della specie è applicato all’ontogenesi: "parimente [...] con l’onomatopea osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli" (447); e alla morfogenesi dei soggetti patologici, che per la mancata esposizione alla voce umana articolata, reagiscono col principio del linguaggio naturale: "l’inopia di parlari [...] fà i mutoli naturalmente ingegnosi, i quali si spiegano per cose ed atti che abbiano naturali rapporti all’idee che vogliono essi significare" S.N.I.: L. III, c. I., p. 257).

Dal punto di vista civile, poi, la mancata esposizione alla voce umana di bestioni e sordomuti corrisponde all’estinzione del "senso comune" degli idiomi volgari. La sociogenesi delle "lingue mutole" comincia con "le guerre fra nazioni di voci articolate diverse e in conseguenza mute tra loro" (S.N. II: 487). La rottura del circuito comunicativo tra le nazioni è quindi la proiezione politica dell’assenza di udito dei sordomuti e della solitudine originaria deglienfant sauvages. Anche le nazioni, insomma, possono essere "sordomute".

5. Questa parziale ricostruzione del ruolo giocato da una concezione minimale dell’ingenium nel passaggio dalle lingue mutole a quelle articolate, impone un duplice ordine di considerazioni: storico-filologiche e teoriche.

Cominciamo dalle prime: le fonti filosofiche o retoriche non possono spiegare come sorga l’intreccio plurigenetico fra bestioni, fanciulli e soggetti patologici che caratterizza l’antropologia storico-naturale vichiana. Bisognerebbe quindi guardare a fonti diverse, collegate alla natura "facitrice" e "fisiologica" dell’ingenium. È, ad esempio, un fatto ancora poco conosciuto che nel Seicento fiorisce, per la prima volta, un’ampia letteratura sulle patologie linguistiche destinata a divenire sempre più importante nella cultura semiotica settecentesca in cui Vico si forma. In particolare il XVII secolo si apre e si chiude con due fondamentali opere sui metodi per la riabilitazione dei sordomuti : la Reduccion de las letras y arte para enseñar a hablar a los mudos, di Juan Pablo Bonet (Madrid, 1620) e il celebre Surdus loquens sive Dissertatio de loquela di Johann Conrad Amman (Amsterdam, 1692). Entrambe le opere vengono più volte ristampate e tradotte in tutte le lingue europee, italiano compreso. Inoltre, come in Spagna, Olanda e Germania, anche nella cultura inglese si producono importanti opere sui sordomuti quali quelle di William Holder (1669) e di John Wallis (1652).

Di questi lavori non sappiamo se Vico abbia avuto conoscenza diretta. In precedenti contributi (Pennisi, 1988 e 1994) ho cercato, tuttavia, di tracciare una mappa delle fonti che certamente hanno fornito a Vico informazioni su molti di questi testi. Per non inoltrarci in dettagli filologici, basterà dire che tra queste fonti la più sicura è G.D. Morhof, che, secondo Paolo Rossi, è un punto di riferimento di Vico, citato nella Scienza Nuova, ed autore di un mastodontico Polyhistor literarius, philosophicus et practicus, pubblicato a Lubecca nel 1682 e ristampato molte volte, in cui decine di pagine sono dedicate alle ricerche sui sordomuti. Morhof, d’altrocanto, era uno specialista del tema, che aveva affrontato in una specifica dissertazione del 1676.

Nei trattati seicenteschi sui sordomuti possiamo trovare molte delle risposte sul linguaggio che Vico ha cercato, spesso invano, nei filosofi. Il modo di porsi dei rieducatori di sordomuti di fronte al problema del linguaggio è infatti lontanissimo da raffinate concezioni "riposte". Essi si occupano solo di due concreti problemi: come far capire ai sordi dai movimenti delle labbra la successione dei suoni, e come farglieli ri-fare con le mani o con la bocca.

Bonet, ad es., affrontando il piano della sostanza nella sua nudità, riscopre l’importanza della sillabicità dei suoni, e sfugge in tal modo, per necessità, ad una tradizione fonetico-convenzionalista secolare fondata sul primato della scrittura.

Amman si spinge oltre. Egli parte dall’idea che non tutti i suoni si possono "vedere": per chi "ascolta" con i soli occhi, la sillaba "bi" e la sillaba "pi" sono uguali. Associa allora al metodo della lettura labiale quello tattile. La mano del sordo viene poggiata sulla gola del maestro mentre pronuncia: in tal modo l’immagine viene rafforzata dalla vibrazione tattile. Il sordo si rende conto allora della differenza dei suoni e, con sforzi articolatori delle "mollissime fibre", è in grado di rifare artificialmente le sillabe. Nasce con Amman l’oralismo, il metodo fondato sulla riacquisizione della voce.

La scoperta della possibilità di riappropriazione della voce da parte dei sordi, non è, tuttavia, solo un fatto tecnico. Il metodo di Amman ha dei risvolti teorici e filosofici profondi. La sua psicolinguistica, ad es., scopre il ruolo della "fase di latenza" nell’apprendimento del linguaggio. In essa il bambino, che capisce facilmente il significato di molte parole ma non riesce a pronunziarle, si concentra nell’affinare meccanicamente gli organi articolatori imitando i suoni ascoltati. Paradossalmente il momento culminante dell’evoluzione cognitiva non è più il big-bang dei significati ma quello dei significanti. La verifica non consiste più, come nel convenzionalismo semantico, nel riconoscimento dell’oggetto nominato e già noto, ma nella coincidenza dei suoni uditi con quelli finalmente pronunciat: cioè ri-fatti con lo stesso procedimento dei "parlari fantastici per sostanze animate".

Filosoficamente le dottrine di Amman riscoprono, poi, il rapporto fra la voce e il "conoscere col cuore" raccomandato da Vico a G. Degli Angioli:

"non esiste nessuna facoltà interna che porta un carattere di vita più marcato di quanto non sia la facoltà della parola. [...] È nella voce che risiede principalmente lo spirito di vita che ci anima e di cui essa permette l’espressione esterna: la voce è l’interprete del cuore, il segno delle passioni e della concupiscenza " (Amman, 1700: 233).

Il processo che porta dal basso all’alto del linguaggio, è, quindi, identico a quello dell’ingenium che porta dal basso all’alto della conoscenza: dar vita all’immaginazione senza mediazioni intellettuali. Esattamente come disse la cieco-sorda Helen Keller passando dai segni compitati alla parola parlata:

"poter esprimersi in parole rapide, come alate, che non reclamano alcuna interpretazione, non è un dono inestimabile ? Così mentre parlavo mi sembrava che vibrassero nelle mie parole dei pensieri felici che le mie dita non avrebbero mai potuto esprimere" (1902: 87).

7. E veniamo al secondo ordine di conclusioni, di tipo teorico. Se Vico, infatti, vive e si forma in un periodo di grande attenzione verso le patologie del linguaggio, è poi anche in grado di trasformare i frammenti di una microstoria di linguistiche applicate, in un grande affresco di filosofia linguistica. Se prendessimo il termine nel senso crociano, potremmo dire che Vico riannoda fili sparsi della cultura in cui vive per diventare precursore. Ma non è certo necessario ricorrere a questo termine per rilevare l’attuale validità "di per sè" della glottogonia vichiana.

Un esempio per tutti è quello di Ph. Lieberman, che ha ricostruito di recente la storia evolutiva di quel ramo dell’uomo di Cro-Magnon che portò alla comparsa dell’ Homo Sapiens. La sua è una glottogonìa moderna, ormai non più filosofica. Anche per Lieberman, tuttavia, i bestioni delle origini non dovettero essere tutti uguali. Alcuni di essi, forse i "giganti nobili" che alzarono il volto al cielo all’esplodere del tuono, cominciarono a servirsi di una parte del proprio corpo, normalmente usata per respirare e nutrirsi, per emettere suoni. Comunicazione ed emissione di suoni modificarono la struttura di quegli organi. Le "dure fibre" articolatorie cominciarono a "rammollirsi". Col passare dei millenni quegli organi si specializzarono sempre più. Si formò il tratto vocale sopralaringeo che permise a quel ramo dei primati di modulare sempre più finemente l’articolazione vocale e la sua interazione con l’udito. Nelle mappe neurocerebrali sono rimasti fissati i programmi che permettono l’utilizzazione automatica di queste sinergie ormai incoscienti, tanto da permettere la liberazione del linguaggio dal contesto e renderci creatori di produzioni semantiche e sintattiche sempre nuove.

Ma ogni nuovo nato somiglia al nostro antenato. La struttura del suo apparato fonatorio, così come del suo cervello, non è, alla nascita, uguale a quello dell’esemplare adulto della specie. La sua evoluzione fisiologica e spirituale non è scontata. I bambini sordi, se non sono addestrati, resteranno senza lingua come gli enfants sauvages. In un certo senso l’essere in un mondo "dalla somma copia di voci" non basta al nuovo nato per attivare il miracolo del linguaggio. Allora dovrà ripercorrere la stessa strada dei bestioni: "rifare" entro sé stesso il percorso fisio-psichico dell’apprendimento meccanico della lingua per attivare "il parlar fantastico per sostanze animate".

Vogliamo con questo sostenere che Vico sia un "precursore" dell’evoluzionismo linguistico moderno?

No, certamente. L’approccio che abbiamo qui tentato per affrontare l’aggrovigliata questione delle "lingue mutole" è semmai diretto a dimostrare che l’unica continuità della storia del pensiero linguistico è quella dei "problemi": in un certo senso le "favole vere" secondo cui Vico fu un isolato, un precursore, o una fonte inesauribile di ogni originalità, perdono di senso di fronte alle sue capacità di manipolare frammenti del dibattito del suo tempo per indirizzarli verso un problema davvero infinitamente universale: il rapporto tra "corpo" e "mente" del linguaggio o tra naturalità e storicità delle scienze che intendano spiegarlo.

 

 

 

 

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

 

 

AA.VV. TPL Teorie e pratiche linguistiche nell'Italia del Settecento, a cura di Lia Formigari, Bologna, Il Mulino, 1984.

VB Le vie di Babele. Percorsi di storiografia linguistica, a cura di D.Di Cesare e S. Gensini, Torino, Marietti, 1987.

PSL Prospettive di storia della linguistica, a cura di Lia Formigari e Franco Lo Piparo, Roma, Editori Riuniti, 1987.

Agrimi, M. 1984 Ontologia storica del linguaggio in Vico, in TPL pp. 37-60

Amman , J.K. 1700 Dissertatio de loquela, Lugduni Batavorum, Joannem Delbeek (tr. fr.Dissertation sur la paro le, a cura di M. Beauvais de Préau, Orléans, 1778).

Bobbio, N. 1979 Vico e la teoria delle forme di governo, "Bollettino del centro di studi vichiani", 1979, pp.5-27

Danesi, T. 1968 Vico, Metaphor and the Origin of Language, Bloomington, Indiana, UP, 1993.

Di Cesare, D. 1986 Sul concetto di metafora in G.B. Vico, "Boll. del centro studi vichiani", XVI, 1986, pp. 325-34.

1988 De Tropis Funktion und relevanz der Tropen in Vicoa Sprachphilosophie, "Kodika/Code", XI, 1988, 1-2, pp. 7-22.

Gensini, S. 1995 Ancora sulla teoria vichiana del linguaggio. In margine ad alcune recenti pubblicazioni, "Studi filosofici", XVIII, 1995, pp. 271-998.

Giarrizzo, G. 1981 Vico. La politica e la storia, Napoli,, Guida, 1981

Keller, H., 1902 Histoire de ma vie. Sourde, muette, auvegle, Paris, Payot, 1915).

Kempelen, W., von, 1791, Le mécanisme de la parole, suivi de la description d’une machine parlante, et enrichi de XXVII planches, Vienne, Bauer, 1791.

Lieberman, P. 1975 On the Origins of Language: an Introduction to the Evolution of Human Speech, New York, 1975.

Lo Piparo, F. 1987 Due paradigmi linguistici a confronto, in AA.VV (VB, pp. 1-10).

Morhof , D. G. H. POL Polyhstor literarius, philosophicus et practicus, Lubecca, 1732 (I ed. 1687)

Pagliaro, A. 1961 Lingua e poesia secondo G.B. Vico, in Id., Altri saggi di critica semantica, Messina-Firenze, D’Anna, 1971, pp. 297-444.

 

Pennisi, A. 1986 "Calcolo" vs. "Ingenium" in G.B Vico: per una filosofia politica della lingua, "Bollettino del centro di studi vichiani", XVI, 1986, pp. 345-65 (ora anche in
AA,VV, PSL, pp.191-213)

1987 La linguistica dei mercatanti. Filosofia linguistica e filosofia civile da Vico a Cuoco, Napoli, Guida, 1987.

1994 Le lingue mutole: le patologie del linguaggio fra teoria e storia, La Nuova Italia Scientifica, Ro ma, 1994.

1988 Ingenium e patologie del linguaggio: su alcune fonti della linguistica vichiana, in La linguistique entre mythe et histoire, a cura di D. Droixhe e Ch. Grell, Münster, 1993, pp. 111-143.

 

1995 Vico e i segni muti, in J. Trabant, Vico und die Zeichen, Gunter-Narr
Verlag, Tübingen, 1995, pp. 179-195.

Trabant, J. 1994 La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Bari, Laterza, 1994.

Verene, D.P. 1981 Vico’s Sciences of Imagination, Ithaca e London, 1981 .

Vico, G.B. SNP Princìpi di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i princìpi di altro sistema del diritto naturale delle genti, in Vico OF, pp. 169-339.

SN Princìpi di una Scienza Nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni (ed.1744) , in Vico OF., pp.377-703.

CART. L'Autobiografia, il carteggio e l e poesie varie, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1929.

AUT Autobiografia e lettere, a cura di M. Fubini, Torino, Einaudi, 1970.

OF Opere filosofiche, a cura di N. Badaloni, Firenze, 1971.