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Le vicende dello scartamento ridotto italiano possono essere suddivise in due grandi fasi: prima lo sviluppo dal 1880 fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, poi un lungo tramonto legato a limiti strutturali come a precise scelte politiche.

Quasi tutte le regioni italiane hanno avuto una propria ferrovia a scartamento ridotto: un mondo “minore”, non privo però di carattere e di fascino, sia dal punto di vista tecnico che umano, che ci apprestiamo a ricostruire precisando innanzi tutto il labile confine fra ferrovia e tranvia.

 

Le ragioni di una scelta

La nascita e lo sviluppo delle ferrovie a scartamento ridotto (s.r.) avvenne, in Italia come in Europa, quando, definita la rete ferroviaria fondamentale, occorreva costruire quella complementare e secondaria.

La limitata disponibilità di risorse imponeva di ridurre al minimo gli investimenti dove, per le caratteristiche del territorio, non si potevano prevedere che modesti volumi di traffico: in questo caso l’adozione dello s.r. consentiva una riduzione dei costi di costruzione in media intorno al 30%.

La resistenza al moto dei veicoli ferroviari alle basse velocità dipende principalmente dalle pendenze altimetriche e dalle curve; per un dato valore del raggio essa si abbassa al diminuire dello scartamento: pertanto l’adozione di quello ridotto, in luogo del normale, permette di realizzare tracciati che, nel rispetto delle caratteristiche dinamiche dei veicoli, seguano il più possibile l’andamento del terreno, con conseguente abbattimento del numero e dell’importanza delle opere d’arte; la riduzione della larghezza del nastro stradale determina inoltre superfici di occupazione più modeste e quindi costi di esproprio più bassi e limitati movimenti di terra nella costruzione.

Per contro l’elevata tortuosità e le forti pendenze, introdotte per seguire più strettamente le curve di livello del terreno, rendono assai basse le velocità commerciali; l’adozione dello s.r. determina inoltre, sia per i viaggiatori che per le merci, la necessità di trasbordo presso le stazioni di corrispondenza. Al tempo della costruzione di tali ferrovie questi ed altri limiti erano tuttavia tollerati in quanto, generalmente, non esistevano alternative alla strada ferrata per la velocizzazione del trasporto: le prestazioni offerte dalle piccole ferrovie, oggi assolutamente anacronistiche, risultavano allora decisamente significative.

Con la legge Baccarini nº 5002 del 25 luglio 1879 giunse in porto il travagliato processo di definizione della rete ferroviaria complementare, da realizzare con la costruzione di 6.000 km di linee ferroviarie, suddivise in quattro categorie, in base all’ampiezza del relativo bacino di interesse.

Per le linee di seconda, terza e quarta categoria la legge ammetteva l’utilizzazione dello s.r. proponendo i valori di 1000 e 750 mm, già adottati in molti paesi dell’Europa continentale.

In Italia in quegli anni lo scartamento veniva però misurato in mezzeria alle rotaie e non tra le loro facce interne, in modo che a quello ordinario corrispondesse il valore tondo di 1500 mm.

Valutando secondo questa convenzione gli scartamenti previsti dal legislatore, essi si riducevano, fra le facce interne delle rotaie, rispettivamente a 950 e 700 mm, valori del tutto sconosciuti fuori dai confini italiani. Se i 700 mm non trovarono in pratica alcuna applicazione, i 950 mm vennero impiegati in molte nuove realizzazioni, tanto da ricevere l’appellativo di “scartamento ridotto italiano”.

In ogni caso, trovarono utilizzo anche gli scartamenti di 1000 mm, 1100 mm (tipico di molte tranvie ed impiegato sulle tratte ferroviarie collegate a queste), 850 mm, 760 mm (per le linee di costruzione austriaca) e 750 mm.

 

Ferrovie o Tranvie?

Le caratteristiche degli impianti e l’utilizzo talora ampio di tratte in sede stradale rendeva spesso assai difficile distinguere molte ferrovie a s.r. da più semplici tranvie extraurbane.

La differenza fondamentale fra tranvie e ferrovie consiste intuitivamente nell’utilizzo della sede stradale per le prime e di una sede propria ad esse esclusivamente riservata per le seconde: questa distinzione, recepita dalle prime leggi emanate in materia nel nostro Paese, venne poi parzialmente a cadere con le successive, all’inizio del secolo: mentre infatti veniva ammesso, per le tranvie, l’utilizzo della sede propria fino ad un quarto dello sviluppo (un terzo per percorsi in montagna), alle ferrovie secondarie era concesso l’uso pressochè illimitato delle strade pubbliche, con l’obbligo della separazione della sede ferroviaria dalla carreggiata (derogabile eccezionalmente per brevi tratti corrispondenti al massimo ad un terzo della linea) e del mantenimento di una larghezza utile per la circolazione dei veicoli stradali non inferiore a 4 m.

Gli elementi di maggiore differenza riguardavano dunque non le caratteristiche del tracciato, quanto piuttosto la modalità di concessione, gli obblighi per il concessionario, le sovvenzioni governative, le tariffe dei trasporti e la sorveglianza dell’esercizio, punti oggetto di numerose modifiche nel corso degli anni.

In questa sede vengono prese in considerazione solo le relazioni per servizio pubblico classificate ufficialmente come ferrovie per almeno una parte, dal momento che, talora, lungo una stessa linea si susseguivano tratte classificate come tranviarie e ferroviarie: ad esempio la tratta da Varese a Luino era considerata tranvia fino a Bettole di Luino, quindi ferrovia fino a Luino stazione, infine nuovamente tranvia fino al capolinea sul lago.

 

Le prime linee

Le prime opere in Italia risalgono al decennio 1880-90; alcune delle linee realizzate erano brevi, a servizio di centri di rilevante importanza economica, come la rete delle Ferrovie Provinciali Modenesi, il tronco Torrebelvicino-Rocchette-Arsiero, le Ferrovie Economiche Biellesi, la Reggio-Ventoso (convertita allo s.o. nel 1891), la Napoli-Nola-Baiano, le due linee da Napoli a Sarno via Pompei (a trazione elettrica) e S. Giuseppe Vesuviano, che realizzavano il periplo del Vesuvio, interessate subito da notevole traffico. Altre, di maggiore estensione, erano a servizio di territori più ampi ma economicamente meno vivaci e privi di strade degne di tale nome, come la Ferrovia dell’Appennino Centrale, da Arezzo a Fossato, la Circumetnea, la Palermo-Corleone, prolungata nel 1903 fino a S. Carlo.

Trovarono spazio pure ferrovie a vocazione prettamente turistica, alcune delle quali a cremagliera, come quelle di Vallombrosa, la Stresa-Mottarone, elettrificata con materiale svizzero e quasi subito riclassificata tranvia, la Pugliano-Funicolare del Vesuvio, a trazione elettrica; nel collegamento multimodale Luino-Ponte Tresa-Porlezza-Menaggio, dall’insolito scartamento di 850 mm, il tratto centrale sul lago di Lugano era coperto dai battelli.

I progetti presentati in quegli anni furono comunque numerosissimi: oltre a linee isolate, venivano proposte vere e proprie reti a s.r., da costruire nelle zone più povere di collegamenti stradali e orograficamente difficili, in modo da realizzare un sistema diffuso per favorire la mobilità a livello locale: era infatti allora opinione comune che il miglioramento dei collegamenti avrebbe naturalmente innescato un processo di sviluppo del territorio; pertanto la realizzazione di tali  reti nell’Italia meridionale ed insulare era ritenuto politicamente un elemento indispensabile per riscattare dall’arretratezza e dalla miseria le zone più povere del nostro paese. Per questa ragione vennero presentati progetti articolati ed ambiziosi, comprendenti linee che, in relazione all’importanza dei centri toccati, non trovavano altra giustificazione che quella di sottrarre gli stessi ad un isolamento plurisecolare, ma che sarebbero state comunque interessate da traffici estremamente contenuti.

Mentre in Sardegna i lavori di costruzione procedettero rapidamente, tanto che agli inizi del secolo lo s.r. aveva raggiunto 594 km di sviluppo, la burocrazia ed il campanilismo dei vari comuni, che rivendicavano diritti spesso assurdi ed irragionevoli, ritardarono fino al decennio 1910 l’avvio dei lavori per le ferrovie in Calabria, Lucania e Sicilia.

Alla nazionalizzazione delle ferrovie nel 1905, le linee a s.r., tutte esercite dall’industria privata, erano complessivamente 32 per uno sviluppo totale di 1345 km.

Da questa data fino alla Prima Guerra Mondiale vennero alla luce altri progetti, con caratteristiche assai eterogenee: nel 1905 e 1906 entrarono in servizio la Chieti Scalo-Chieti Città e la Castelraimondo-Camerino, a trazione elettrica, dalle evidenti caratteristiche tranviarie, tanto nel tracciato che nel materiale rotabile; la seconda, curiosamente, adottava quale deposito una chiesa sconsacrata.

Nel 1908 le Ferrovie Adriatico Appennino, su progetto dell’Ing. Besenzanica, inauguravano la linea da Porto S. Giorgio ad Amandola e la diramazione per Fermo Città (1909), ove le elevate pendenze (70 per mille) imposero l’utilizzo della frenatura a pattini; da segnalare l’impiego delle automotrici a vapore Ganz, che non diedero i risultati sperati, e l’installazione del blocco a bastone pilota sulla tratta Porto S. Giorgio-Fermo, percorsa da numerose coppie di treni.

Dai progetti dello stesso Besenzanica derivarono successivamente la ferrovia Sangritana e la  Montepulciano Stazione-Montepulciano Città, dalla vita breve e stentata.

La trazione elettrica monofase, che all’estero trovava ampi consensi, venne applicata alla Civitacastellana-Viterbo (prolungamento in sede propria della tranvia da Roma) e nel tratto Napoli-Capua alla ferrovia Alifana, che utilizzava la trazione a vapore da S. Maria Capua Vetere a Piedimonte d’Alife.

La Società Veneta realizzò nel 1910 la Rocchette-Asiago, comprendente tratte a cremagliera Strub, mentre le Ferrovie Padane inauguravano la Ostellato-Magnavacca (1000 mm), sviluppata quasi interamente in sede stradale separata; intanto nell’Appennino centrale nasceva la Agnone-Pescolanciano, a trazione elettrica.

 

Nel meridione, intanto...

Negli stessi anni trovarono finalmente attuazione i progetti per le Ferrovie Calabro Lucane e Siciliane: con la legge n. 580 del 21 luglio 1910 venne concessa alla Società Italiana per le Strade Ferrate del Mediterraneo la realizzazione e l’esercizio di 1271 km di ferrovie. Dall’inaugurazione del primo collegamento, Bari-Altamura, nel 1915, la costruzione proseguì per due decenni, anche se il progetto iniziale di collegare fra loro i versanti adriatico, ionico e tirrenico della penisola rimase in gran parte disatteso; all’apertura dell’ultimo tronco nel 1934, infatti, le mutate condizioni economiche e sociali e la mancanza di capitali imposero una completa rivisitazione del disegno iniziale: del resto l’attuazione dei progetti del secolo precedente aveva condotto ad opere superate, in quanto la lontananza delle stazioni dai paesi e le bassissime velocità ammesse rendevano fin da allora la ferrovia poco competitiva con l’autoservizio nascente; sospesa pertanto qualunque nuova costruzione, molti tronchi rimasero isolati tra loro, pur mancando solo qualche decina di chilometri per il loro collegamento (es. fra Cinquefrondi e Mammola), venendo così meno qualunque ragione economica per la loro esistenza. Nel 1934 la rete FCL comprendeva 12 linee, per 760 km, di cui 8 a cremagliera e 13 in comune con le FS.

In Sicilia, dopo l’apertura nel 1910 dei primi tratti a s.r., il cui esercizio fu subito affidato alle FS, il progetto della rete complementare venne attuato quasi nella sua interezza, concludendosi nel 1935; a quella data, considerato il riscatto della Palermo-S. Carlo avvenuto nel 1918, lo Stato  gestiva complessivamente 560 km di ferrovie a s.r., suddivise in 10 linee, di cui 5 ad aderenza mista, comprendenti ben 19 tratti a cremagliera Strub. Tracciate in gran parte per il trasporto dello zolfo dalle miniere al mare, vennero dotate di impianti e mezzi rilevatisi sovrabbondanti: molti rotabili vennero presto trasferiti nelle colonie o venduti ed alcune stazioni furono presto ridotte a fermate impresenziate.

In Sardegna la Società per le Ferrovie Complementari Sarde inaugurava nel 1915 la linea Isili-Villacidro e la diramazione Ales-Villamar; questa società, nel 1921, riscattò dal precedente concessionario, la Società per le Ferrovie Secondarie Sarde, tutti i tronchi a s.r. esistenti nell’isola, costituendo così una rete di ben 651 km.

Altrettanto significativo risultò il complesso della Roma-Fiuggi-Frosinone e diramazioni per Frascati e Guarcino, dovuto all’Ing. Clementi, caratterizzato da un notevole servizio tranviario ai capilinea e dotato di tratti a doppio binario, anche brevemente interallacciati, cioè due binari che, per ragioni di ingombro, entrano uno dentro l’altro, a formare un complesso a 4 rotaie, in cui la circolazione si svolge come per le tratte a semplice binario.

 

Le linee del triveneto

Le conquiste territoriali del triveneto e dell’Istria avevano portato sotto il controllo italiano varie ferrovie, costruite sotto il dominio asburgico: la Ora-Predazzo e Chiusa-Plan, realizzate per il trasporto dei materiali al fronte e convertite all’uso civile, passarono sotto il controllo delle FS, al pari della più lunga Trieste-Parenzo, mentre venne confermata la concessione per la Mori-Riva del Garda, prolungata nel 1925 a Rovereto; questo gruppo di linee adottava lo scartamento bosniaco di 760 mm.

La Calalzo-Dobbiaco, nata dal congiungimento di due linee militari, venne ricostruita, adottando lo s.r. italiano, nel 1920, ed affidata in concessione.

I tronchi Cividale-Caporetto e Villa Santina-Comeglians, nati durante la guerra come ferrovie da campo a scartamento 750 mm ed incapaci per le loro caratteristiche di interagire con il resto della rete ferroviaria, sopravvissero per poco più di un decennio.

Fra le linee a scartamento metrico inaugurate sotto il dominio asburgico, tutte a trazione elettrica, la Dermulo-Mendola e la ferrovia del Renon (parzialmente a cremagliera con spintori), vennero confermate agli originari concessionari; la Trento-Malè, inizialmente esercita dalle FS, fu affidata ai privati nel 1936 e riclassificata tranvia.

La domanda di trasporto allora esistente non era neanche lontanamente paragonabile a quella degli anni del boom economico, nè tanto meno a quella attuale, sia per entità (assai minore dell’attuale), sia per distanza media di trasporto (assai contenuta); gran parte delle relazioni era servita da tre coppie di treni, valore caratteristico considerato adeguato alle esigenze del tempo; per di più, in molti casi, il limitato traffico merci veniva svolto promiscuamente a quello viaggiatori, mediante l’effettuazione dei treni misti; sulla maggior parte delle linee a s.r. siciliane e sarde, statali ed in concessione, erano in orario due sole coppie di misti, ridotte talora ad una sola o addirittura del tutto sospese nei festivi.

Esistevano comunque numerose eccezioni, laddove una maggiore vivacità della domanda trovava corrispondenza in un servizio più complesso ed articolato: talora la quantità delle merci movimentata imponeva l’effettuazione di appositi treni, evitando l’impiego dei convogli misti; analogamente, su alcune relazioni a breve raggio o a carattere metropolitano si svolgeva un servizio a maggiore frequenza, con numerose coppie di treni: tale era la situazione nel Biellese, nel Napoletano, a Fermo, Lanciano, Bolzano, Chieti e Camerino.

 

 

Il massimo splendore fra le due guerre

Tra il 1922 e ’23 furono emanate due leggi a favore dell’elettrificazione delle ferrovie e tranvie in concessione: l’estensione della trazione elettrica sulle linee a s.r. raggiunse 736 km nel 1927 e 988 km nel 1930; a questi totali contribuirono linee di nuova realizzazione (Genova-Casella, Intra-Premeno, Pescara-Penne, con prolungamento tranviario fino alla Pineta di Pescara, Pracchia-Mammiano, Domodossola-Confine Svizzero, con proseguimento per Locarno, Spoleto-Norcia, Rimini-S. Marino).

Quanto a quelle esistenti, il filo di contatto venne posato pure nel biellese, a Fermo, a Lanciano, a Cortina, sulla Ora-Predazzo, ceduta in concessione e trasformata a scartamento metrico, e sulla Luino-Ponte Tresa, convertita a 1100 mm.

L’elettrificazione era accompagnata, quasi ovunque, da importanti incrementi dell’offerta: alla vigilia degli anni ’30, sulla maggior parte delle linee erano in orario almeno cinque coppie di treni viaggiatori, affiancate talora da una di merci ordinari.

Non mancavano comunque nuove relazioni con trazione a vapore, quali la Siracusa-Ragusa e diramazione per Vizzini, la Sorso-Sassari-Palau e le Ferrovie Meridionali Sarde.

Nel 1934 la rete raggiungeva la sua massima espansione, pari a 3310 km, suddivisa in 7 scartamenti. Ormai però la difficile congiuntura economica, l’avvento degli autoservizi ed il miglioramento delle comunicazioni stradali cominciavano a ridurre il ruolo di queste piccole ferrovie, il cui coefficiente medio di esercizio passò da 1,12 nel 1927 a 1,92 nel 1935.

Mentre le Ferrovie Modenesi, la Civitacastellana-Viterbo e la Rocchette-Arsiero venivano convertite allo scartamento ordinario (sulle modenessi per non sospendere il servizio, si ebbe un periodo transitorio con binario a doppio scartamento), altre linee dai bilanci in rosso furono soppresse: fra le vittime la Riva-Rovereto e la Trieste-Parenzo, la cui fine segnò la scomparsa delle locomotive austriache tipo U dal nostro paese.

Anche il traffico merci cominciava a mostrare una leggera contrazione, dovuta principalmente al peso crescente del trasbordo nelle stazioni di corrispondenza: pertanto, ove possibile furono introdotti i sottocarrelli per il trasporto dei carri a scartamento normale: apparsi in Sassonia alla fine dell’800 e ed impiegati in Italia dalle Ferrovie Biellesi fin dall’inizio del secolo, essi trovarono poi utilizzo pure sulle ferrovie modenesi, sulla Pescara-Penne, sulla Sangritana, sui tronchi Altamura-Matera e sulle linee di Gioia Tauro delle FCL, sulla Sorso-Sassari-Alghero e Bosa-Macomer-Nuoro.

Erano i costi della trazione a gravare in modo rilevante sulle linee a vapore: dopo alcuni esperimenti per introdurre la trazione Diesel con locomotive da treno condotti, con esito incerto, in Calabria, Sicilia e Sardegna, l’automotrice termica, venne introdotta tra il 1931 ed il 1934 su molte linee a s.r. non elettrificate: analogamente a quanto accaduto per le FS, entrarono in servizio inizialmente mezzi unidirezionali, a bassa capienza e a due assi, le famose Emmine, acquistate dalle FCL,  FCS e dalla FAC.

Furono quindi realizzate automotrici a carrelli, di capacità maggiore: mentre la FCE, la FAC, le FCS e le FMS acquistavano mezzi Fiat a trasmissione meccanica derivati dalle 56 e 556 FS, le FCL preferivano  mezzi a trasmissione elettrica Tibb-OM.

L’avvento delle automotrici trasformò radicalmente gran parte delle ferrovie non elettrificate: nel 1931 erano esercitati a vapore 2221 km di linee; nel 1936 tale lunghezza scendeva a 1224 km, mentre su altri 1019 km si svolgeva un servizio con automotrici (i servizi a vapore, ridotti in molti casi ad una sola coppia giornaliera di misti, necessari per l’inoltro delle merci); a questa trasformazione si accompagnava una crescita dell’offerta, tanto in termini di numero di coppie di treni, quanto in velocità commerciale.

Il successo delle automotrici (48 unità nel 1936), soprattutto di quelle unidirezionali, doveva invece far riflettere fin da allora sull’inopportunità di mantenere molte ferrovie: la rotaia trova infatti giustificazione economica solo in presenza di flussi rilevanti, inconciliabili con l’uso delle Emmine.

Nel 1936 le percorrenze dei treni assommavano a 12.148.458 km per i convogli viaggiatori e misti e 908.644 km per quelli merci; ciò corrispondeva, per ogni chilometro di linea in esercizio, rispettivamente a 3.738 e 279 km di percorrenza per km di rete.

Questa felice parentesi durò assai poco perchè, con l’approssimarsi della guerra e con il razionamento degli idrocarburi, la trazione a vapore riprese il ruolo di protagonista quasi assoluta.

 

Il dopoguerra

La guerra, con le sue distruzioni, non salvò le linee a s.r.; in ogni modo i lavori di ripristino procedettero celermente, tanto che nel 1948 erano di nuovo in esercizio 2853 km di linee a s.r.; non vennero ricostruite la FAC, le linee di S. Marino e Chieti, la Agnone-Pescolanciano e la Ostellato-Porto Garibaldi; a parziale compensazione di tali perdite, si inaugurò nel 1948 la Castellammare-Sorrento, in sostituzione di una preesistente tranvia.

In attesa di tempi migliori su tutte le linee vennero recuperati come possibile i mezzi superstiti e fatti circolare su binari sistemati alla meglio; il pessimo stato delle infrastrutture stradali e la forte domanda di trasporto generata dalla ricostruzione, sottopose le piccole ferrovie a servizi intensi, che provocarono, di riflesso, un forte logoramento dei veicoli e degli impianti.

Se il traffico viaggiatori correva a ritmi quasi doppi rispetto all’anteguerra, la situazione delle merci risultava quanto mai negativa: le Tonnellate-km totali (i Viaggiatori-km e le Tonnellate-km costituiscono le grandezze tecniche fondamentali per la valutazione della domanda, si ottengono come sommatoria dei prodotti fra la lunghezza di ciascuna tratta ed il numero di viaggiatori -o le tonnellate di merce trasportata- che la percorrono) si ridussero infatti dai 75 Mld dell’anteguerra ai 35 Mld del 1948.

Nel 1952, alla vigilia del boom della motorizzazione privata, con la legge n° 1221 lo Stato volle rivedere interamente la situazione delle ferrovie concesse e tranvie, per le quali si doveva decidere fra l’ammodernamento e la sostituzione con autoservizi; vennero soppressi  in pochi anni numerosi tronchi, per lo più deficitari, ma anche alcuni vitali fino a pochi anni prima, come le Ferrovie Biellesi, che nel 1953 erano, insieme alla Circumvesuviana, le sole ferrovie a s.r. in attivo: la rete, che nel 1951 misurava 2789 km, si ridusse nel 1960 a 2354 km.

Sulle linee da potenziare molti chilometri di binario vennero risanati, numerosi passaggi a livello automatizzati, in modo da consentire maggiori velocità; contemporaneamente venne introdotto nuovo materiale elettrico e termico; sulle linee non elettrificate, l’impiego della trazione a vapore calò sensibilmente: mentre nel 1953 esistevano 213 locomotive a vapore e 111 automotrici, nel 1967 le macchine a vapore erano complessivamente 73, di cui solo 21 utilizzate, a fronte di ben 148 automotrici e 35 locomotive Diesel.

Nel quadro dei potenziamenti derivati dalla medesima legge si registra nel 1956 l’attivazione della tratta Camigliatello-S. Giovanni in Fiore, parte del progetto per una ferrovia transilana, da Cosenza a Crotone; la rinuncia alla costruzione del tratto mancante da S. Giovanni a Petilia Policastro, rese però la nuova opera un ulteriore ramo secco, antieconomico ed inutile.

Nello stesso anno iniziarono i lavori di trasformazione a s.o. della Sangritana, ancora interrotta per i danni bellici, ed in esercizio solo fra S. Vito ed Ortona Città; la Trento-Malè, ricostruita come ferrovia interamente in sede propria nel 1961 e convertita a 3000 V c.c. nel 1964, mantenne invece lo scartamento metrico.

Quanto alla rete FS siciliana, dopo l’introduzione delle RALn 60 nel 1949, essa fu ridotta nel 1959 a 235 km, con l’eliminazione delle linee esercite interamente a vapore e di quelle per Corleone, S. Carlo e Salemi, sulle quali operavano anche i mezzi leggeri; scomparso l’ultimo tratto a cremagliera nel 1971, dopo uno stillicidio di soppressioni parziali la chiusura definitiva dell’ultimo tronco avvenne nel 1985, dopo soli 4 anni dall’eliminazione definitiva del vapore.

Lo scartamento di 760 mm scomparve invece nel 1960, con la chiusura della linea della Val Gardena, per la quale la più volte proposta dieselizzazione non giunse mai in porto.   

Durante gli anni ’60 con la crescente diffusione dell’automobile, il ritmo delle soppressioni accelerò, coinvolgendo anche linee rinnovate solo qualche anno prima, come quelle di Norcia, Cortina e Predazzo; nel 1967 lo s.r. si estendeva per 2082 km, ridotti ulteriormente nel decennio successivo per la chiusura di numerosi tronchi delle FCL e dell’intera rete del Sulcis. In quegli anni sulle linee concesse è scomparso inoltre ogni residuo di trazione a vapore regolare.

 

La situazione odierna

I primi anni ’80 sono stati caratterizzati da un’assoluta rassegnazione sul destino di molte  ferrovie superstiti, dalle soppressioni parziali delle linee per Bosa e Fiuggi (limitata a Pantano) ed Alghero e dalla perdita generalizzata del residuo traffico merci.

Dal 1985 è iniziata una nuova fase, con l’introduzione di nuove automotrici ed elettrotreni, la realizzazione di numerose varianti di tracciato in Puglia e Sardegna, l’automazione di numerosi passaggi a livello e la nascita di un turismo ferroviario fino allora sconosciuto, che ha permesso il recupero di varie locomotive a vapore e veicoli storici. Di questi anni l’interramento del tratto urbano di Matera, i cui lavori erano iniziati nel 1974, e l’avvio dei cantieri per la trasformazione in metropolitana del tratto cittadino della FCE.

Altre nuove opere sono state realizzate a Cosenza e Trento, dove il capolinea dello s.r. è stato portato in corrispondenza della stazione FS; in Calabria è stata attivata una vera e propria tratta metropolitana, a doppio binario, fra Cosenza Centro ed il nuovo impianto di Vaglio Lisi.

Non cessa di crescere l’importanza del ruolo svolto dalla Circumvesuviana, per la quale il livello dei servizi e degli impianti corrisponde ad una moderna rete con caratteristiche metropolitane. Dopo la recente apertura della variante, a doppio binario su viadotto, fra Pratola e Saviano, sulla linea di Pomigliano d’Arco sono in programma ulteriori sviluppi, fra i quali la costruzione di nuove ferrovie fra Nola ed Avellino e tra lo stabilimento Alfasud ed Acerra, a servizio di un territorio densamente urbanizzato; sono invece ancora in alto mare i lavori sulla Alifana “bassa”, da Napoli a S. Maria Capua Vetere, soppressa nel 1976 per essere ricostruita con caratteristiche di linea suburbana a s.o., come prolungamento della metropolitana partenopea.

Analoga collocazione dovrebbe trovare la linea di Centocelle, per la quale si sta attuando la trasformazione a s.o., a partire dal tratto Grotte Celoni-Pantano Borghese.

Nel 1997 la legge Bassanini ha portato tutte le ferrovie concesse sotto il controllo dell’ASA Trasporto Regionale e Metropolitano FS, in attesa del prossimo definitivo trasferimento di competenze alle Regioni. Come ultimo atto nel giugno 1997 è stato sospeso il servizio su 55 km di linee in Calabria e 407 km in Sardegna; fra le vittime i tronchi per S. Giovanni in Fiore, Palau, Arbatax e Sorgono, linee dalla gestione assolutamente antieconomica, le cui caratteristiche rendono pressochè inimmaginabile un recupero di competitività sul vettore stradale; è inoltre prevedibile che, per la medesima ragione, in un prossimo futuro altre linee cessino il servizio ordinario.

Il turismo potrà forse permettere la sopravvivenza dei tronchi più pittoreschi, anche se i costi di esercizio e manutenzione, oggi gravanti sulla collettività, girati sul nuovo servizio, produrranno una notevole levitazione delle tariffe.

L’esperienza della vicina Svizzera, nella quale lo s.r. è  vitale, può generare qualche perplessità: la situazione italiana è chiaramente il frutto della posizione di assoluto privilegio di cui l’auto ha goduto negli ultimi decenni, ma anche la conseguenza di decisioni tecnicamente non sempre felici nella scelta dei tracciati delle nostre ferrovie.