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Biagio PICARDI sta sempre oltre ciò che lascia vedere, cifrando i suoi oli su tela di fughe e superamenti, la cui ansia, spesso trepida e vibrante, è la connotazione autentica  del suo essere e dipingere: che, poi, sono un tutt'uno.

L'inquietudine di fondo, intima e misurata, si fa presto bisogno di ricerca, di trasfigurazione soffusa di venate malinconie e timide proiezioni oniriche.

Così la sua pittura tonale trasponde nel chiaroscuro il paesaggio dell'anima, apparentemente definito e disteso, in realtà mosso e fluttuante tra la rappresentazione oggettiva e il suo stesso trascolorare. Il realismo di partenza, dunque, è la provocazione di PICARDI che, attaverso un'insistita e persino ossessiva evidenza della materia, insegue a squarcia varchi per una soluzione che la materia trascende, idealizzandola.

Sulle sue nature morte, attraversate da sontuose sinfonie floreali o da edemici frutti, piove il riverbero della luna che, come partorita dalla notte, infonde agli oggetti vibrazioni e movimenti su cui la materia si arrampica, si impenna come in cerca di una voce.

è il sogno di PICARDI: leggere nelle cose un senso nascosto, una premessa di catarsi e di liberazione, quasi palingenetica rivisitazione di un mondo stretto nelle catene dell'essere e smanioso di involarsi verso l'irreale.

Sarà anche per questo che su di uno sfondo di malcelata malinconia, la rosa campeggia come ostentata voglia di credere: è la pittura del non; dove il vero messaggio è nel silenzio o nella reticenza. Né manca in PICARDI, e non potrebbe essere altrimenti, il bisogno, sia pure sporadico, di fissare questa dialettica in un'interpretazione trasgressiva del suo canone stilistico, liberando, per esempio nel "la grande bugia" un coagulo di inquietante ambiguità ed un prepotente rinvio a guardare oltre.

 

Aldo ZACCONE