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I piatti che seguono sono solo alcune delle innumerevoli specialita della cucina Teramana e Pretarola che per la sua genuinità, per le tradizione che l'accompagna e per la cura applicata è unica e inconfondibile...

Maccheroni alla chitarra


C'è chi li chiama spaghetti, ma i depositari della tradizione, li chiamano Maccheroni, e ne stabiliscono le misure (più larghi o più stretti) a seconda della destinazione finale e del gusto personale. Una certa ruvidezza e la caratteristica forma quadrata ne fanno un protagonista assoluto della cucina cittadina, che lo vuole tradizionalmente condito con un sugo ricco di carne. Sbaglierebbe, però, chi pensasse ad un ragù o ad un macinato ricotto nel pomodoro, la regola impone sì la carne, ma a "pallottine", cioè lavorata in polpette grosse come un'unghia, fatte a mano, una ad una, in interminabili serate di preparazione prefestiva, visto che ancora oggi, nelle case dei cittadini d'Interamnia, la chitarra è il primo piatto del giorno di festa. Immancabile, poi, nel menù del pranzo di nozze tradizionale, anzi: è sulla qualità della chitarra che si giudica, quasi sempre, il livello del pranzo nuziale. Unica concessione al moderno è la lavorazione, il taglio della pasta avviene ormai a macchina, rarissimo è il ricorso all'antica "chitarra" di legno e corde d'acciaio sulla quale, con la forza del mattarello, la massaia teramana costringeva la sfoglia a farsi maccherone. Il turista che volesse iniziare il proprio viaggio alla scoperta dei sapori teramani, dunque, non esiti a chiedere in ogni ristorante della zona i "Maccheroni con le pallottine".

Il timballo

È l'altro signore del dì di festa, ma pretende le feste comandate. È immancabile tra le portate del Natale, del Capodanno, della Pasqua e a Ferragosto e nelle feste intime familiari. Un po' avaro di sugo (sarebbe un errore se macchiasse il piatto con una colata di pomodoro), ma ricco di "pallottine" come quelle dei maccheroni alla chitarra, il "Timballo alla teramana" trova la sua eccezionalità nella preparazione degli strati che, unico tra i suoi simili, non sono di pasta sfoglia, ma di "scrippelle". E qui, necessariamente, si deve aprire una parentesi: per "scrippella" si intende una frittatina di acqua, farina e uova, sottilissima, preparata su una padella caldissima, con un fare e una ricetta che sono simili, se non identiche, alla gestualità della "crepe" francese. C'è addirittura chi sostiene che i francesi abbiano scoperto a Teramo, negli anni del loro passaggio italiano, l'esistenza della "scrippella", ma è sicuramente vero il contrario. Il timballo alla teramana, dunque, sarebbe lontano parente delle "crepes" vendute all'angolo degli Champs Elysees, ma la sua preparazione e la sua concezione ne fanno un figlio unico tra i piatti. Oltre al sugo con le pallottine, i leggerissimi strati di scrippelle ospitano infatti spinaci, uova, dadini di formaggio o mozzarella, carciofi e tutto quello che ogni donna di casa ha ereditato da madre e nonna.

Scrippelle m'busse

Arrotolate, o meglio: ripiegate su se stesse ad ospitare magari un velo di grana, le stesse scrippelle che il timballo usa come impalcatura del suo impianto gustoso, come pavimento leggero e saporito dei suoi piani, trionfano in questo leggerissimo piatto. Un brodo leggero, ma non per questo insapore e inodore, meglio se di gallina (rigorosamente sgrassato), riempe il piatto nel quale sono adagiate le scrippelle, l'una vicino all'altra, come i rotoli di papiro nelle barche dei faraoni. Tutto qui. La leggerezza della scrippella e quella del brodo, la consistenza della prima e la liquidità del secondo, addirittura le diverse temperature (scrippella fredda e brodo caldo), provocano un intreccio unico di sapore. Come la pioggia sulla terra da tempo arida, il brodo bagna la scrippella ('mbusse, sta infatti per bagnate), ma non la gonfia, non la vince, non c'è assorbimento se non minimo. Il gusto è nel gioco del cucchiaio, che spezza la scrippella e la raccoglie con il brodo caldo di gallina.

Le mazzarelle

Sembrano un secondo e, di certo, l'impressione prima del turista sarà quella di considerarle una portata successiva al timballo o ai maccheroni alla chitarra. Invece, le mazzarelle sono un primo, anzi: il primo obbligatorio del pranzo pasquale, una sorta di tradizionale ouverture dedicata all'agnello ed evocatrice di un indimenticato e indimenticabile passato di quotidianità contadina. Piatto semplice, all'apparenza, coratella di agnello avvolta in foglie di indivia legate con budelline dello stesso agnello, ma soggetto all'irrisolto dibattito tra due scuole di pensiero: quella della mazzarella semplice, cotta in un soffritto che ne esalti il sapore, e quella della mazzarella in umido, lasciata cuocere in un sughetto che si impreziosisce degli umori delle carni d'agnello.

Le virtù

Sono il piatto principe della cucina teramana. Più che un piatto: il santo patrono della gastronomia locale e, come tutti i santi, hanno un loro giorno e un loro rito. Il giorno è il primo maggio, il rito è quello della condivisione del sapore: non esiste famiglia che prepari le Virtù solo per il proprio piacere: si donano, si scambiano, sono motivo di invito e di riunione, sono parametri di riferimento dell'abilità di una massaia. Non sembri eccessivo, le Virtù non sono un piatto, sono "Il Piatto" della cucina teramana, un vero e proprio rito collettivo, un momento di estasi cittadina affidato al confondersi non confuso dei sapori di una sorta di minestrone complesso che richiede, secondo tradizione, almeno tre giorni e tre notti di lavoro anche se, in realtà, l'opera comincia molto prima, con la scelta degli ingredienti, con la preparazione mentale all'impresa, con la scelta delle quantità in base agli ospiti attesi o ai doni dovuti. Figlie della primavera e della necessità di cancellare il passato inverno, le Virtù ospitano nel loro intreccio gustoso i sapori della stagione perduta e quelli della stagione nascente. Gli ingredienti sono un manifesto del sapore: piselli, fave, carciofi, spinaci, cicoria, indivia, bietole, rape, sedani, zucchine, erbe ed erbette aromatiche, lenticchie, ceci, fagioli, farro e poi prosciutto, piedini di maiale, cotiche, pallottine di carne, pasta secca di molti formati (corta o lunga spezzata) e di molti colori, e pasta all'uovo di ogni tipo (anche se i puristi della cucina locale considerano fuori luogo e non tradizionale il tortellino, ormai usatissimo). La straordinarietà rituale del piatto è nel fatto che ogni ingrediente, avendo un tempo di cottura diverso dagli altri, deve essere preparato a parte, in un tegame separato. Solo alla fine, quando tutti gli ingredienti sono pronti, si procede alla cottura della pasta e all'amalgama finale, a conclusione di un lavoro certosino, silenzioso, durissimo.

I Calcionetti

L'etimo è incerto, difficile dire perché si chiamino Calcionetti o Caggionetti, il sapore è straordinario. Eppure, questi dolci invernali sono un paradosso, uno scherzo gastronomico, un mistero. La forma è quella del raviolo, mezzaluna dentata, ma l'impasto è di acqua e farina, rosso d'uovo e olio, è un leggerissimo, quasi impalpabile "contenitore" che esalta e non prevarica il gusto del "contenuto". È il ripieno, infatti, il vero punto di forza: un impasto di castagne o ceci, a formare una purea arricchita poi dal cioccolato, dal rhum, dal miele e dallo zucchero, vaniglia, mandorle tostate e pezzettini di cedro. Una vera e propria opera d'arte.

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