Benares


12 Novembre 1996 - Martedì

    Scendiamo dal treno alle sei e trenta, solito accerchiamento di portatori e tassisti che ci vogliono convogliare da qualche parte, ma noi preferiamo farci condurre da un moto-taxi ad Asi Ghat in un bellissimo albergo affacciato sul Gange con vista di Benares, ma dal prezzo troppo alto per insediarci una settimana.
    La vera denominazione di questa città é Varanasi, dalla contrazione dei nomi Varauana e Asi, i due fiumi che qui si gettano nel Gange. Benares é l'appellativo datole dagli inglesi, probabilmente perché più facile da pronunciarsi.
    Effettuiamo un giro in questo periferico quartiere, da dove iniziano le scalinate che scendono al fiume, meta delle abluzioni dei pellegrini tra le acque fangose e infette, ritenute sacre dagli induisti. Durante la passeggiata approfittiamo per cercare un alloggio in affitto e dopo diverse visite, troviamo un ambiente composto da due locali usabili come camera da letto, uno ad uso cucina ed un bagno, il tutto agevolato dalla presenza della corrente elettrica e acqua che però non riteniamo potabile.
    Facciamo quattro conti e rileviamo una spesa di cinquanta rupie il giorno, contro le novecento delle due stanze in hotel. Per noi va benissimo, anche se tutto é un po' spartano, si dovrà dormire per terra (io ho il materassino!), ma in compenso alle pareti ci sono dei ripiani dove si possono mettere dei bei soprammobili. La soluzione é molto gradita ai nostri amici, Franca e Jonny, che hanno intenzione di soggiornarci per un paio di mesi, mentre Oriana preferisce alloggiare presso una Guest House più economica.
    In un ristorante ci rifocilliamo con pizza e Coca-cola, poi rientriamo in albergo per un breve riposo. Di Benares ho visto solo un gran numero di bici-risciò e pochi negozi aperti, ma era mattino presto e i negozianti indiani non sono molto mattinieri.
    La giornata é stupenda, un bel sole caldo potrebbe infastidire qualche lavoratore, ma per noi turisti comodamente seduti all'ombra a sorbirci sorsate di bibite gasate é veramente una pacchia. Esco per acquistare un po' di cartoline per fare invidia ai comuni mortali che in Italia, avvolti nella nebbia, saranno in procinto di accendere i caloriferi e di conseguenza intossicarsi con lo smog.
    Passiamo la serata in un buon ristorante e rientriamo in albergo prima delle ventidue altrimenti si rimane chiusi fuori. Gli alberghi e le guest haus, adottano quest'orario perché a Varanasi si viene a meditare o a studiare e non a gozzovigliare come in altre città turistiche. A me va bene così!
 
16 Novembre 1996 - Mercoledì

    Lasciamo l'albergo e ci rechiamo nella nuova abitazione che condividiamo con i nostri amici. Percorso un tortuoso vicolo si entra nell'appartamento attraverso due ingressi, uno dei quali introduce direttamente in una stanza indipendente, illuminata da due finestre, che lasciamo alla coppia innamorata, l'altro immette in un piccolo atrio con a sinistra una porta che comunica con la camera suddetta, a destra un uscio che collega il gabinetto, di fronte un varco aggrega un locale che noi adottiamo come camera da letto e dal quale bisogna passare per accedere ad un piccolo ripostiglio adibito a cucina. Questi locali sono senza finestre e per abitarci, quando non c'é la corrente (come questa mattina), bisogna usare le candele.
    Verso mezzogiorno i due "piccioncini" escono con il compito di acquistare l'occorrente per arredare la casa. L'abitazione é dotata solo di muri e pavimenti in cemento, perciò bisogna comperare stuoie per sedersi, materassi per dormire, bombola a gas e fornello per cuocere i cibi, pentole e piatti per servire le pietanze e infine le vivande per mangiare. Mentre Fabri ascolta musica e studia l'itinerario che dovremo seguire nel nostro peregrinare in India io, armato di una piccola lima, armeggio intorno alla serratura di una delle porte d'ingresso, per allargare il buco nella battuta di ferro dello stipite, permettendo al battente imbarcato, di allineare lo stantuffo del catenaccio con il foro e poter entrare agevolmente nello stesso.
    Lavoro che mi tiene occupato per un'ora con un piacevole "fai da te", osservato con curiosità da un piccolo gruppo di scimmie aggrappate alle inferriate della casa di fronte. Tutti gli edifici hanno delle grate alle finestre per evitare che questi graziosi quadrumani entrino a far razzie di qualsiasi genere. La loro presenza non mi preoccupa minimamente, ma mi é stato consigliato di stare attento perché se attaccano e mordono sono pericolose per le malattie infettive che potrebbero provocare.
    Verso sera, quando siamo di nuovo tutti riuniti, ricomincia la simpatica abitudine montana, quella della preparazione della cena. Costatiamo con soddisfazione la semplicità occorrente per mondare le verdure, facilitata dal lavandino dotato d'acqua corrente e con quanta disinvoltura sia possibile l'accensione del fuoco, resa meno laboriosa dall'azzurra e costante fiamma della bombola a gas. Per il resto, identico al rituale indiano, il cibo è scodellato nei piatti disposti in terra e mangiato seduti su scomode stuoie che gli "altri" ritengono sia tradizione locale, ma che io, dopo ben quattro mesi, non mi ci sono ancora abituato.
    Questa sera abbiamo mangiato anche l'antipasto, un grosso ravanello dal sapore di cetriolo, maionese e biscotti, da una parte salati e dall'altra dolci. Come piatto importante Jonny ha cucinato un gustosissimo stufato di patate con melanzane e pezzetti di formaggio di bufala. Alla fine un buon ciai chiude in bellezza la prima cena "Romagnola" di Benares. Alle ventuno i tre giovani escono a fare una passeggiata mentre io mi fermo in casa per aggiornare questo diario che, col passare dei giorni volge sempre più verso la fine.
 
14 Novembre 1996 - Giovedì

    Sveglia alle nove. Dobbiamo andare in centro per comperare delle stuoie e cartine stradali dell'India, ma tra una storia e l'altra, arriva l'ora di pranzo e decidiamo di andare a gustarci una pizza. Incontriamo alcuni italiani e, con la scusa di accompagnarli a casa, prendiamo una barca e percorriamo il Gange dal primo ghat all'ultimo.
    Benares é adagiata sulla sponda sinistra del Gange e si allunga per ben cinque chilometri. L'argine è composto da un'unica scalinata di pietra, lunga quanto la città, che scende nell'alveo, chiamata Ghat, dando la possibilità ai pellegrini che vi si calano di poter fare il bagno in qualunque stagione. Durante il periodo dei monsoni, le acque salgono anche di dieci metri e allagano i templi che si affacciano lungo la sponda.
    La riva opposta (zona sconsacrata) é solo una larga lingua di sabbia distante quasi un chilometro. Quando il fiume si alza quella zona è completamente sommersa e la larghezza del Ganga diventa d'alcuni chilometri confondendosi con il piatto orizzonte.
    Approfitto dell'occasione per scattare un po' di fotografie di Benares vista dal fiume, ma data l'ora le sponde sono deserte. É una magnifica giornata e sembra di essere su una gondola veneziana, mancano solo i battelli e i motoscafi che facciano l'onda, ma in compenso é possibile osservare, con molta fortuna, le evoluzioni di qualche gaviale (coccodrillo asiatico, che vive nel Gange, con mascelle lunghissime e strette, a forma di becco, armate di numerosi denti) che increspa le placide acque con i suoi colpi di coda.
    Prima di sera torniamo via terra verso casa attraversando vicoletti e stradine dove biciclette e motorini passano suonando di continuo i loro segnali acustici. Alla fine giungiamo sulla strada principale e possiamo accomodarci sul risciò a pedale per percorrere gli ultimi quattro chilometri che ci separano dalla nostra dimora. Impieghiamo più di un'ora per fare il breve percorso, dato l'enorme numero di questi mezzi che affollano la strada, assordati dallo scampanellio che i pedalatori usano in continuazione. Osservando attentamente ho visto il marchingegno che permette tale baccano. I campanelli, in numero di quattro, sono fissati alla forcella anteriore del velocipede e sono collegati ad una leva sul manubrio, basta una leggera pressione perché una linguetta s'inserisca tra i raggi e il trillo é assicurato.
    Facciamo la spesa acquistando le derrate occorrenti per la cena, cuciniamo e al termine dell'abbondante pasto usciamo a fare quattro passi. Abitiamo all'estrema periferia e non c'é molta vita turistica perciò dopo un ciai decidiamo di rientrare per il riposo notturno.
 
15 Novembre 1996 - Venerdì

    Oggi é quasi mezzogiorno quando prendo un risciò per recarmi in centro a comperare le famose cartine stradali delle regioni che dobbiamo visitare. Il sole é bel caldo e la velocità della bicicletta crea una gradevole frescura che termina quando la corsa finisce.
    In una libreria trovo tutto il materiale che mi ero prefisso, poi mi trasferisco in un ristorante per assaporare le specialità locali. Quando esco prendo la strada che conduce al fiume e scendo la grande scalinata con l'intento di percorrere la strada dei ghat per ritornare verso il mio quartiere.
    Secondo la divinità che é venerata nel tempio, dove inizia la gradinata, la zona sottostante è riconosciuta con lo stesso appellativo e siccome i templi sono gli uni accanto agli altri, divisi solo da stretti vicoli, camminando sulla sponda si attraversano centinaia di ghat.
    Sono continuamente avvicinato da indiani che vogliono vendermi cartoline, collane, trasportarmi in barca o mostrarmi, presso negozi di loro conoscenza, sete e broccati. Sono di un'insistenza asfissiante, tanto che, dopo aver superato diversi ghat, decido di prendere una stradina laterale per ritornare sulla via principale e prendere il solito risciò e ritornare verso il mio rione.
    Varanasi é una bella cittadina piena d'europei turisti o studenti che qui trovano tutte quelle facoltà per lo studio delle civiltà orientali. Sono entrato nella zona dell'università, un parco immenso con ampi viali che lo dividono in zone ben distinte, inglobando in ogni zona una branca specifica di cultura, nascosta agli occhi del turista dalle fronde di secolari alberi che pudicamente l'avvolgono.
    Ritornato ad Asi Ghat costeggio la riva del fiume alla ricerca di un luogo ombreggiato e, trovatolo, mi metto a scrivere queste poche righe perché si avvicina la sera e devo rientrare per la cena.  
 
25 Novembre 1996 - Lunedì

    Fabri si é appassionato allo studio delle tablas (specie di bonghi), usati come accompagnamento nella musica classica indiana; siccome per apprendere le rudimentali nozioni bisogna frequentare un corso ed essendo Benares la patria di questo strumento decidiamo di rimanere fino "alla fine dei nostri giorni", lui studioso, io vagabondo.
    Varanasi, da un punto di vista architettonico, non presenta motivi di grande interesse, ma ciò che colpisce maggiormente é l'umanità che s'incontra, migliaia di pellegrini intenti ad espletare le loro pratiche religiose con preghiere e canti che iniziano alle quattro del mattino (fortunatamente non tutti i giorni) e terminano quando il sole incomincia a scaldare la scalinata.
    Passeggiando lungo il Fiume mi fermo spesso in contemplazione della varietà dei personaggi che popolano la riva e devo essere riconoscente al contrattempo, che mi ha fermato per più tempo, dandomi l'opportunità di gratificare la mia gnoseologia, potendo ammirare una realtà cosi eterogenea. Quando si visita un luogo, o si soggiorna per breve tempo, rimangono impressi nella memoria solo le visioni più appariscenti, sia nel bene sia nel male e non sono prese in considerazione le sfumature, ottenute mediante una perfetta gradazione dei particolari secondari.
    Durante il giorno la maggior attività che anima le sue sponde é quella dei lavandai che dopo aver sciacquato fra le fangose acque, sari, camici e pantaloni li stendono lungo le scalinate ad asciugare formando una tavolozza di colori inebriante.
    I ragazzini si divertono a far volare piccoli aquiloni e, con sapienti colpetti al filo che li collega, fanno compiere delle evoluzioni fino a provocare delle picchiate, andando a colpire quello di un avversario, facendolo precipitare in modo catastrofico, acclamati dai ragazzi meno fortunati che, non disponendo della mezza rupia per acquistare un velivolo, non possono partecipare alla competizione e si limitano a tifare per i vari combattenti.
    Un altro gioco molto praticato lungo i ghat é quello della "lippa", con regole uguali alle nostre e non é raro scorgere tra i gruppi alcuni più "grandicelli" che ugualmente si divertono.
    Ultimo, in ordine di graduatoria, il calcio: qui il numero dei giocatori é variabile secondo il gruppo che si riunisce, come sfera da prendere a pedate non c'é limite alla fantasia, la più originale che ho inventariato é una grossa cacca di bufalo seccata al sole. Il rispetto delle regole, così importante per i giocatori occidentali, é un po' più permissivo a queste latitudini: i ragazzi si limitano a rincorrere e circondare la fatiscente sfera lanciando fendenti con le gambe nell'intento di prendere qualche cosa, chi colpisce la palla é solo il primo, gli altri prendono solo ... le gambe. Lo spettacolo più interessante é composto dagli spettatori più anziani, che, data l'età, non possono essere convocati nemmeno come guardalinee e che seduti qualche gradino più in alto, sostengono i propri beniamini con grida gioiose d'approvazione, ma anche con mugugni di disappunto, secondo l'andamento della tenzone.
    Quando, durante il mio gironzolare, passo nelle vicinanze di questi scalmanati, alcuni giocatori nel vedermi interrompono il loro passatempo e mi corrono incontro offrendomi cartoline, collane o chiedendomi qualche rupia, ma appena si accorgono che non metto mano al portafoglio si allontanano e riprendono il loro svago senza eccessivo disappunto.
    Un'altra attività che caratterizza l'ambiente é la cremazione dei cadaveri. Lungo il tratto di fiume che bagna Varanasi, ci sono solo due posti dove poter svolgere il rito e sono sempre ingombri di feretri avvolti in lenzuoli gialli e rossi con ricami dorati, distesi su barelle di bambù e parcheggiati in fila, nell'attesa che termini la funzione di chi ha avuto la precedenza, o si allestisca la pira per il nuovo arrivato. Questa é l'ultima spiaggia hinduista, per giungervi non usano come da noi una cerimonia funebre omogenea ad ogni mortale, qui arrivano alla chetichella. Fissati su una portantina di canne, nei loro colorati sudari, sono caricati sulle spalle di quattro portatori, che, a passi spediti, prendono la via più breve che dalla loro abitazione raggiunge il ghat attrezzato a tale servizio, seguiti da un piccolo gruppo sempre d'uomini che, trotterellando, li seguono ripetendo ad alta voce una nenia, per me incomprensibile, indirizzata alle divinità per propiziarsi i loro favori. Alcune volte al sguito ci sono anche altri portatori che trasportano sulle spalle o in testa, tronchi di varie misure e fascine di legna per allestire la pira. Non é che bisogna portare la legna, vicino al crematorio ci sono cataste di tronchi, ma forse quella che si possiede in casa costa meno.
    Giungono alla spicciolata, anche usando altri mezzi; con il risciò, come se fossero dei semplici passeggeri, con un carro attaccato al trattore, tutto inzaccherato dai residui di sterco dei bufali, dove i dolenti, seduti sul pianale, intorno al feretro, intonano il loro canto funereo, oppure sul tetto di una macchina, tutta inghirlandata di fiori e festoni dorati. L'orario di maggior avvicendamento é quello del tramonto: camminando per le vie del centro se ne possono incrociare anche tre o quattro per volta.
    Non é che a Benares ci siano delle epidemie per avere un così gran numero d'esequie, ma le salme sono portate anche dai paesi vicini; inoltre molti anziani si fanno ricoverare in case apposite attendendo con serenità il momento del trapasso per essere più vicini al luogo della cerimonia. Qui il fiume ha il potere di lavare i peccati, più che in qualsiasi altro posto: morendo a Benares e affidando le proprie ceneri alle acque del Gange, si entra al cospetto del Dio, che può graziare l'anima interrompendo il ciclo doloroso delle reincarnazioni.
    Generalmente i bambini sono portati in braccio, ed essendo senza peccati, non sono sottoposti al rito della cremazione, ma legati a delle pietre, sono deposti nelle acque del sacro fiume.
    Varanasi non é solo un luogo di penitenza, al visitatore curioso si presentano anche avvenimenti piacevoli come i festeggiamenti per un matrimonio. Durante il mio soggiorno mi sono imbattuto in molte di queste celebrazioni, ho solo osservato il lato esteriore della vicenda, quello intimo, familiare, privato, mi riprometto di descriverlo in altra occasione quando avrò maggior confidenza con la lingua e mi potrò permettere una permanenza più lunga creando i presupposti per tessere una più duratura amicizia con i locali.
    Al calare della sera il solito brusio che accompagna la vita della comunità è perforato dalle note sincopate di trombe, tromboni, tamburi che eseguono una marcia. Un corteo di festanti, con in testa una banda di sonatori, percorre la via al ritmo della musica, fermandosi ogni tanto per dar modo al seguito di intrecciare delle danze sulle melodie che magicamente scaturiscono dagli strumenti a fiato, inondando con armonia l'ambiente circostante.
    Subito dietro ai musicisti c'é un risciò commerciale (bicicletta con attaccato un carretto, che serve per il trasporto delle merci), attrezzato con un generatore di corrente elettrica che fornisce energia, per mezzo di grossi cavi, ai lampadari umani posti ai lati dei festeggianti, formando anche un cordone che delimita e trattiene il gruppo. Questi lampioni sono portati sulla testa da uomini, donne, ragazzi, assoldati appositamente per adempiere questa funzione. La loro posizione nella scala sociale deve essere appena superiore a quella dei mendicanti ed é visibile dall'abbigliamento indossato, tutto sgualcito e consunto, mentre quello dei musicanti é composto da un'accozzame di fogge piene di lustrini e medaglie con copricapo dai vistosi pennacchi, il tutto in contrasto con il vestiario della brigata dei festaioli, composto da abiti scuri con camicie e cravatte per gli uomini e coloratissimi sari per le donne. Chiude il corteo la sposa accomodata su un variopinto baldacchino, inghirlandato con fiori e lustini, someggiato sulla groppa di un imponente cavallo.
    Ogni matrimonio ha una diversa colorazione, che dipende dalla diversità delle divise dei musici e dalla differente foggia degli apparecchi illuminanti, che possono essere semplici lampioni, lampadari con diverse braccia pieni di pendagli di vetro, o complicati marchingegni dalle varie forme con incastrata una certa quantità di lampadine colorate che si spengono e si accendono, creando fantasie di disegni come quelle che si vedono in certe insegne luminose per attirare l'attenzione dei passanti. In questo contesto non é raro che s'incroci un trotterellante gruppo di necrofori col loro seguito che si sorpassano senza troppe formalità ignorandosi a vicenda.
    Con il passare dei giorni s'intensifica sempre più il rapporto di confidenza nei confronti di tutti i negozianti con i quali disbrigo i miei commerci giornalieri. Il ciabattino accucciato all'angolo della via, avendogli commissionato la riparazione di un paio di scarpe, tutte le volte che m'incontra giunge le mani e s'inchina in un cordiale saluto, così pure i vari venditori di frutta e verdure che, dietro al loro carrettino, si profondono in salamelecchi ad ogni mio passaggio.
    Un tassista di moto-taxi, che mi aveva accompagnato in banca per cambiare una manciata di dollari, quando mi supera con la sua motoretta, anche se a bordo ha qualche cliente del Grand Hotel In, non disdegna di rallentare per ossequiarmi con un cortese saluto. Questo moto-tassista non é uno di quelli che aspettano i passeggeri all'angolo delle strade con il loro veicolo dipinto di nero con strisce gialle, ma é un padroncino che fa servizio esclusivamente per il Grand Hotel e sosta con il suo veicolo, di colore grigio, nell'area riservata ai mezzi di trasporto dell'albergo. L'ho incontrato un giorno che, salito su un risciò, avevo chiesto al ciclista di condurmi in banca. Non conoscendo la zona dove portarmi si era fermato a chiedere lumi proprio nell'area dove sostava questo giovanotto. In quattro e quattr'otto mi fece montare sul suo trabiccolo e, più a gesti che a parole, mi trasportò, con l'intento di procurarmi un affare, da un cambiavalute in nero, ma siccome mi serviva un cambio legale, con ricevuta, mi dirottò in una banca. Anche qui non potei concludere perché l'impiegato mi fece capire che poteva convertire in rupie solo una cifra limitata e così mi dovette accompagnare alla Bank Of India dove finalmente, dopo un'ora, fra spostamenti e attese agli sportelli, riuscii a concludere l'operazione. Durante il tragitto ebbe modo di mostrarmi un librettino con attestati di simpatia rilasciati in lingua italiana da clienti che avevano avuto il piacere di essere accompagnati da questo simpatico giovane.
    Non tutti gli indiani però sono così ben disposti verso i turisti: una buona parte dei risciò-man cercano sempre di fregarti sul prezzo della corsa. Noi abitiamo ad Asi Ghat e per recarci in centro, zona Godoglia, di solito chiedono un compenso di cinque rupie (ai locali chiedono di meno). Dal centro alla stazione ferroviaria, percorso di lunghezza analoga, il prezzo é uguale, cioè cinque rupie, che sommate alle precedenti dà una somma di dieci rupie. Se però chiediamo di percorrere tutto il tragitto in una sola volta pretendono un pagamento di venti se non di più rupie, innescando continue discussioni per far valere i nostri diritti.
    Per ovviare a questi malintesi, dovuti anche alla difficoltà linguistica di contrattare in anticipo il costo della corsa, ho escogitato un semplice sistema. Mi sono rifornito di banconote da cinque rupie e quando mi accingo a salire sul risciò nomino la località e mostro la banconota e quando ricevo il consenso posso accomodarmi sicuro di non dover fare la figura di colui che usa il mezzo di trasporto e poi non vuole pagare il giusto prezzo.
    Un giorno che avevo stabilito il prezzo del viaggio in cinque rupie e ritenendo di dargli una mancia, perché il ciclista non più giovane, faticava o faceva finta di arrancare sui pedali, al termine della corsa diedi dieci rupie, il vecchietto anziché rallegrarsi incominciò a brontolare pretendendo un ulteriore supplemento. Brontolò tanto che un passante mi si avvicinò e chiese:
    " Problem Sir? ",
spiegatogli l'accaduto provvedeva a riprendere lo scontento pedalatore allontanandolo con una sfilza di parole come usano generalmente gli indiani.
    Analoga storia quando per scattare un po' di fotografie usai un risciò come mezzo di trasporto. Al termine delle riprese, calcolando il tempo trascorso e la lunghezza del percorso (Asi Ghat, stazione e ritorno) in quaranta rupie, per non essere considerato uno sfruttatore della piede-d'opera, gli allungai una sfavillante banconota da cento rupie. Evidentemente sbalordito da una così inaspettata fortuna, il poverino, anziché schiattare sul selciato colpito da improvviso infarto, si mise a discutere per avere altri soldi. Questa volta però mi trovavo nel mio quartiere e un negoziante mi venne in aiuto e, dimostrato con orologio alla mano il tempo impiegato e la lunghezza del tragitto con la cartina stradale, faceva una ramanzina all'insaziabile indigeno, costringendolo a restituirmi cinquanta rupie, essendo eccessiva la richiesta.
    I diseredati, i mendicanti, i poveri, i fuori casta hanno un attaccamento morboso verso il denaro degli occidentali e se presumono di ricavare qualche rupia in più, ti seguono senza sosta con le loro petulanti richieste, fino all'esasperazione.
    Bighellonando senza meta mi inoltro in una ragnatela di vicoli stretti e tortuosi completamente deserti, solo qualche mucca e altrettanti cani gironzolano in libertà; bisogna guardarsi dalle corna delle mucche, mentre dai cani é meglio guardarsi da tutto. Fortunatamente quelli che latrano e mostrano i denti sono separati da un cancello chiuso, gli altri, allo stato libero, si limitano a rovistare tra il pattume che si ammonticchia solo in qualche angolo più nascosto. Il quartiere non é molto esteso, perciò da questo labirinto si esce facilmente e subito ci si trova immersi in una corrente che diventa sempre più impetuosa.
    Gli ingorghi causati dai risciò sono una normalità, specialmente vicino agli incroci delle strade che attraversano la città, come pure sulla via di comunicazione statale che passa di fronte alla stazione ferroviaria; il caos provocato dai pullman e dai camion é ancor più appariscente se, oltre all'odore del gas di scarico emesso dai motori a gasolio, si aggiunge il frastuono delle trombe acustiche, di ben lunga superiore al trillo dei campanelli.
    Ma che i pedoni rimangano incastrati tra di loro lo ritengo un fatto patologico. In alcuni vicoletti del centro storico, dove si aprono le botteghe commerciali, basta che entri un risciò-commerciale per consegnare della merce che immediatamente comincia la baraonda. Non hanno nessuna pazienza, incominciano a spingere e spintonare per passare, s'incuneano tra il carretto e il muro o il portone del negozio e sbraitano pretendendo che il facchino sposti il suo veicolo, possibilmente senza che le ruote montino sui loro piedi.
    Qualche giorno prima, mentre ero impegnato in acquisti per rifornire la dispensa, girando tra le varie bancarelle, pensavo alla comodità che i supermercati in Italia offrono ai loro clienti e sentivo la mancanza di queste strutture, ma in simili condizioni devo immediatamente ricredermi. A Benares un complesso come l'Euromercato sarebbe una calamità nazionale, gli scaffali sarebbero travolti e i contusi si conterebbero a centinaia.
    Folla, folla, folla dappertutto. Se a Varanasi si viene per bagnarsi nelle sacre acque del Gange con bagni purificatori, io ho volutamente evitato di toccarla, anche solo con le mani, intimorito dalle conseguenze negative che avrebbero potuto verificarsi, ma il bagno di folla, strabocchevole, fantasmagorico, imponente, inebriante, ......, inevitabile, quello sì! Quello me lo sono proprio permesso, gustandomelo con piacere e avidità
 
15 Dicembre 1996 - Domenica

    Franca e Jonny sono partiti, sono tornati verso i monti dai quali erano calati per farsi riconfermare il visto sui passaporti (durata sei mesi). Erano intenzionati a restare più a lungo, ma il richiamo della foresta, quando si sveglia prepotente, diventa ossessivo e bisogna assecondarlo. Fabri continua con il suo impegno alle tablas, di sera dal maestro, di giorno ad esercitarsi con i tamburi e io sempre in giro a captare quelle vibrazioni impercettibili, che sapientemente centellinate, inebriano lo spirito.
    Abbiamo prenotato i posti sul treno per il ventuno dicembre, destinazione Bombay, così devo affrettarmi a visitare quegli angoli che, dopo un mese e mezzo di perlustrazioni, mi sono sfuggiti. Sarnath per esempio é solo a dieci chilometri da Varanasi ed é uno dei centri principali del buddismo, dove Buddha tenne il suo primo sermone pubblico e, insieme a cinque discepoli fondò la prima comunità. Per recarsi a Sarnath si può usare la corriera oppure i pullman organizzati dall'Ufficio Turistico di Benares, ma ...... perché non andare con il mio tassista?
    Una bella camminata fino al Grand Hotel ed eccolo che sta smontando dal servizio per la pausa del mezzogiorno (sono le dodici).
    Chiedo, " Possibol Sarnath ".
    Risponde, " No problem ".
    Mostrando 200 rupie, " Benares, Sarnath, Benares ".
    Sorride, "Benares, Sarnath, stop! ".
    Ribatto " No friend, io in Benares, turist of room, no turist Grand Hotel ".
    Sorride, ci pensa, " Due-cento-cinquanta rupis".
    Accetto, " Ok " e salgo.
    Un vigoroso strappo alla leva dell'avviamento e il motore si mette a girare come una turbina, un colpo di clacson e parte con un'inversione di marcia per prendere la direzione appropriata. Un risciò frena per dargli il passaggio, un motociclista lo supera, ma trovando la strada sbarrata, frena di colpo, scivola e viene a sbattere contro il cassone del moto-taxi. Il pilota della moto fortunatamente esce indenne, mentre il suo mezzo rimane notevolmente ammaccato in tutta la sua parte anteriore. Il poverino si affretta a raccogliere il contenuto di un borsa che teneva sul manubrio e che, per il colpo, era entrata nel vano passeggeri e si era sparpagliato ai miei piedi. Il tassista non si scompone minimamente, aspetta che il sinistrato raccolga la sua mercanzia e, come se non fosse successo niente, riparte.
    Una bella passeggiata, resa più emozionante dal traballamento del carrozzino e dalle manovre virtuosistiche che il gagliardo pilota non lesina ad esibire. Non so se sia l'aria di Varanasi o un'incoscienza senile che abbia preso il posto a quella prudenza che mi ha sempre trattenuto dal farmi salire sulle montagne russe, ma mi rendo conto che mi sto divertendo come un ragazzino, anche se con le mani mi tengo fortemente aggrappato al seggiolino.
    Arrivato dal frastuono di Benares rimango un po' deluso dalla quiete che circonda il museo archeologico, e dopo un giro per il parco delle gazzelle e la visita allo stupa Dhamekh, sono già pronto per ritornare alla VITA.
 
21 Dicembre 1996 - Sabato

    Ore sei, cominciamo a chiudere i bagagli, buona parte la stiviamo in un cassone di metallo che vogliamo lasciare al padrone di casa per quando torniamo. A questo punto incominciano le preoccupazioni. Franca, che parlava indiano, aveva chiesto all'affittacamere di tenere in deposito una parte del shaman che avremmo recuperato fra qualche mese ed egli aveva acconsentito. Ora che siamo pronti per la consegna finge di non capire l'inglese di Fabrizio e pretende che noi chiudiamo la casa con il nostro materiale e diamo mille rupie come acconto per l'affitto fino al nostro ritorno.
    Ci precipitiamo al nostro ufficio legale (il ciai-shop di fiducia dove acquistiamo lo yogurt di mattina e il proprietario é diventato un nostro amico) e spieghiamo il problema. Non riesce a capire bene il contenzioso, perché il suo inglese é molto approssimativo, allora chiama un passante, suo conoscente, il quale gli traduce la nostra controversia e dopo un breve conciliabolo decidono di accompagnarci dal nostro padrone di casa.
    Lunga discussione nella loro lingua, dove il nostro locatario ha la peggio ed é costretto ad ammettere che i patti stipulati nel contratto verbale danno ragione a noi e il bagaglio in eccedenza si era preso l'impegno di tenerlo in deposito fino al nostro ritorno, senza l'obbligo d'ulteriore affitto. A questo punto visto che noi siamo spalleggiati da due indiani, cambia le carte in tavola asserendo che noi non capiamo bene e che basta lasciare il cassone che lo terrebbe in consegna.
    Durante il periodo della nostra permanenza si era dimostrato sempre gentile, anche perché Franca e Jonny, parlando la sua lingua, lo mettevano in soggezione, ma con noi semplici europei da spennare si sentiva indiano e gli é scattato, il virus dell'ingordigia e se non fossimo stati sostenuti dai due provvidenziali difensori ci avrebbe rovinato il piacere di aver trascorso un lungo periodo di soggiorno a Benares.
    Dopo il commiato dai nostri difensori partiamo definitivamente alla volta della stazione. Alle dieci siamo già presso il binario nella attesa del convoglio che ci porterà a Bombay, previsto per le dieci e venti. Dagli altoparlanti escono in continuazione fiumi di parole che hanno la pretesa d'essere messaggi informativi, ma che noi, poveri occidentali, non sappiamo decifrarli.
    Fabri fa la spola dal marciapiede, dove io rimango a fare la guardia al bagaglio, all'ufficio informazioni, per conoscere il motivo del ritardo, essendo già le undici, ma gli addetti non sanno dare spiegazioni, anzi, per complicare di più il disagio, informano che tra qualche ora il treno potrebbe arrivare o sul binario quattro o sul binario cinque e di ascoltare le disposizioni che saranno tempestivamente diramate dagli altoparlanti. L'attesa é più faticosa di quanto si possa pensare, sotto il sole, in piedi, con i mendicanti che alla fine rompono e i nulla-facenti che ci gironzolano intorno e fissano con occhi avidi le nostre borse. Prudentemente noi, per evitare che i bagagli possano far gola a qualche briccone, abbiamo badato a collegare tutte le maniglie con una cintura creando un unico blocco.
    I ferrovieri non sono riconoscibili come da noi, non portano nessuna divisa, pertanto, essendo mischiati con gli altri passeggeri, non ci sono per niente utili. Alle quattordici notiamo un certo movimento tra tutti i passeggeri, che nel frattempo hanno affollato il marciapiede e istintivamente ci lasciamo trasportare dal flusso che si trasferisce verso il binario numero cinque.
   > Tutta sbuffante arriva una locomotiva a vapore, trascinando la lunga teoria di vagoni che, con gran rumore di ferraglie e stridio di freni, si appresta a stazionare lungo il marciapiede, attendendo che la massa di viaggiatori prenda d'assalto gli ingressi degli scompartimenti in modo disordinato e vociante. La nostra prenotazione ci consente di salire su una carrozza di prima classe, divisa in tanti scompartimenti ognuno indipendente dagli altri con porte chiudibili internamente sì da creare un locale completamente personale. Il vagone é diviso in dieci scompartimenti di varie capienze, da due a sei posti, con il corridoio posto lungo la fiancata della carrozza proprio come quelli in uso presso le ferrovie occidentali. Il nostro é arredato con tre panche a letto, ma é messo a disposizione per noi due solamente.
    Nella attesa che il treno riprenda la sua marcia e mentre noi sistemiamo i nostri bagagli entra un passeggero fingendosi disorientato e alla ricerca del suo posto. Fabri mostra la nostra prenotazione e lo invita a controllare negli altri scompartimenti se c'é il numero che dovrebbe avere sul suo biglietto, ma che a noi non ha mostrato. Entra ed esce diverse volte adocchiando il posto vuoto e anche i nostri bagagli, mettendoci in uno stato di allerta che per quanto scaltro lui possa essere non potrebbe allungare una mano per additare una qualsiasi cosa senza ricevere un colpo sul braccio che se gli va bene glielo spezziamo. Siccome continua ad entrare e uscire cercando il momento propizio per gabbarci, in una di queste entrate, fissandolo in volto e a voce alta dico:
    " Fabrizio stai attento al shaman (bagaglio in italiano) che questo é un lestofante ",
    al che il mariuolo gira sui tacchi e scende dalla vettura confondendosi nella folla che gremisce il marciapiede.
    Chiusi nel nostro scompartimento, con il catenaccio, ci possiamo finalmente rilassare dalla tensione accumulata nelle quattro ore passate nella attesa.
    La vista del panorama é limitata dall'apertura del finestrino e non é neanche possibile affacciarsi a causa delle sbarre, ma quello che vediamo ci basta. Il treno risulta essere un accelerato, si ferma ad ogni stazione, dandoci la possibilità di assaporare la diversità dei paesini che attraversiamo. Se fossimo su un rapido lasceremmo alle nostre spalle, troppo velocemente, i villaggi, senza il privilegio di memorizzare la dignitosa miseria che li caratterizza. Si arresta anche in mezzo alla campagna, dove una casupola di legno funge da stazione e i passeggeri scendono o salgono direttamente attraverso un prato e si incamminano lungo un viottolo che s'inoltra nella pianura, raggiungendo in lontananza qualche casolare nascosto fra le piante. Per me é un'esperienza interessante mentre per Fabri lo é un po' meno.
    Ad ogni fermata é un brusio di voci che sfocia in battibecchi tra gli occupanti dei predellini e quelli che vorrebbero salire e trovano tutto impegnato. Il nostro vagone é di prima classe, perciò i passeggeri che sono privi di prenotazione non possono accamparsi nemmeno lungo il corridoio, e sono fatti sloggiare dai solerti controllori che li costringono ad ammonticchiarsi nella vicina carrozza di classe inferiore. Noi occupiamo uno scompartimento in cui, se fosse lasciato aperto, troverebbero posto una quindicina di viaggiatori accomodati in modo stracomodo assieme ai loro innumerevoli bagagli, però il prezzo di questo biglietto é dieci volte superiore a quello normale e l'indiano non se lo può permettere.
    Speravamo di trovare qualche addetto al servizio ristorante, ma, non scorgendo nessuno, diamo fondo alle nostre provviste che previdentemente ci siamo portate. Lentamente cala la notte e il dondolio della carrozza invita al sonno e, assicurati che la porta sia ben chiusa ci lasciamo immergere nel "dormiveglia".;
 
22 Dicembre 1996 - Domenica

    Sembra facile dormire cullati dalla melodia rumorosa che le ruote d'acciaio sprigionano rotolando vorticosamente lungo la strada ferrata. É senz'altro facile per il mio compagno di viaggio che tra le braccia di Morfeo si rilassa e placidamente accenna a respirare rumorosamente. Io invece, ad ogni fermata, scruto tra il buio della notte e il fiebile chiarore delle lampade elettriche, alla ricerca del cartello che indica la località raggiunta.
    É la una e l'insegna annuncia la stazione di Satna. Controllando la carta geografica rilevo che in undici ore di viaggio abbiamo percorso solamente trecento chilometri e ce ne mancano ancora mille e duecento. A questo passo dovremo restare sul treno altre quarantaquattro ore, ma non dovrei preoccuparmi perché, da questo momento fino al "go" della partenza per l'Italia, mancano ancora cinquanta ore.
    Purtroppo il mio cervello é una massa grigia che si diverte a mandare impulsi negativi all'ufficio Tranquillità & Rilassatezza con il risultato che tutti i reparti periferici si mettono in agitazione ed elaborano anch'essi dei quesiti tipo;
    " E se dovesse forare una ruota? ",
che rimandano al mittente, il quale non sapendo cosa rispondere va in tilt e sveglia quelli del Sistema Nervoso, i quali si rivolgono a quelli del Sistema Cutaneo e tutti vanno a finire nel Reparto Escretore, creando una gran confusione. Bastava rivolgersi all'ufficio Buon Senso il quale avrebbe tranquillizzato tutti sostenendo la tesi che:
    " Il treno non può bucare le ruote, può solo deragliare! ".
    (Ma questo é solo per i pessimisti).


    Fortunatamente dopo la stazione di Satna cambiano sia la locomotiva sia la categoria del convoglio, passando da accelerato a direttissimo, con buona pace per le mie preoccupazioni, consentendomi di riposare tranquillamente. Ad Itarsi, dopo settecentocinquanta chilometri, un addetto alle ferrovie finalmente viene a prenotare la lista del pranzo, con buona consolazione per lo stomaco ormai stanco di restare inattivo per così tanto tempo. Purtroppo dobbiamo aspettare altri centosettantotto chilometri e finalmente alle tredici e cinquanta, alla fermata di Khandwa, sale un cameriere del ristorante della stazione con tutto quello che abbiamo ordinato. Non vale neanche la pena di descrivere il servizio o la qualità delle vivande che sono servite dalle ferrovie indiane. Io, se dovessi usare nuovamente questo mezzo di trasporto, mi procurerei una borsa di biscotti e per ammorbidirli li intingerei nell'acqua minerale.
    Stiamo attraversando dei campi coltivati a banane che si estendono a perdita d'occhio e in una stazione intermedia n'acquistiamo un casco di dodici pezzi ad un prezzo di cinque rupie, che, tradotte in italiano, equivalgono ad una spesa complessiva di duecentocinquanta lire, che recuperiamo usandolo come cena.
    Continuando a spaziare lo sguardo sulla campagna, che velocemente si perde alle nostre spalle, noto la continua presenza d'esseri umani che popolano il paesaggio. Anche se non si vedono né case né villaggi nel raggio di molti chilometri, osservando tra i poderi che affiancano la ferrovia non si può percorrere più di un chilometro senza incontrare diversi contadini occupati nella loro fatica.
    Il viaggio prosegue velocemente e il giorno volge rapidamente alla fine. Dalle informazioni carpite al controllore presumiamo un arrivo dopo la mezzanotte perciò decidiamo di stenderci sui giacigli per recuperare le forze consumate dallo stress del viaggio.
   


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