Bombay



23 Dicembre 1996 - Lunedì

    Ore due, scendiamo dal treno e faticosamente attraversiamo l'atrio della stazione ingombro di persone sdraiate che aspettano il treno, oppure attendono il sorgere del sole per poi ritornare alle loro occupazioni. Attraversiamo la città a bordo di un taxi per farci portare presso un albergo il cui indirizzo lo abbiamo rilevato da una guida turistica. Svegliamo il portiere notturno, ma l'hotel é al completo. Per fortuna nelle vicinanze c'é un altro tassista che ci accompagna ad un nuovo indirizzo e possiamo sistemarci in un albergo, quasi di lusso, nel quartiere Colaba.
    Una bella camera con frigorifero e televisione, un gran bagno con acqua calda e fredda, fanno passare immediatamente le fatiche, ma data l'ora non possiamo far altro che coricarci per ritornare vispi e arzilli andando alla scoperta delle nuove opportunità.
    Usciamo dall'albergo alle nove e trenta per un primo approccio alla città. Un cambiamento repentino che mi ammutolisce: dopo cinque mesi d'India mi trovo improvvisamente immerso in una metropoli costellata da grattacieli e grandi viali alberati a quattro corsie con un traffico d'automezzi, la maggior parte di grossa cilindrata, autobus a due piani e gente ben vestita. I semafori sono funzionanti e gli automobilisti rispettano i colori, fermandosi o partendo senza commettere infrazioni.
    Ci troviamo quasi sulla punta della penisola dell'enorme città di Bombay, basta percorrere cinquecento metri verso destra, o altrettanti verso sinistra, per trovarsi su un lungomare, dove la prima cosa che salta all'occhio, é la pulizia delle vie e dei giardini che vi si affacciano. Potremmo essere a Parigi, Londra, New York o Dallas e non ci accorgeremmo della differenza. Il mondo occidentale clonato in India!
    Noi però giriamo anche dietro i grossi agglomerati di lusso e all'ombra degli alti grattacieli scopriamo le capanne di lamiera col tetto di frasche, popolate da una variegata razza d'individui. Gli stessi profumi, gli stessi colori, la stessa confusione, la stessa baracca che vende il ciai con le panchine e i tavoli sgangherati, che mi erano tanto familiari. Vorrei entrare in mezzo a quella baraonda, ma un senso di pudore o un senso di repulsione mi costringe a rimanere ai bordi della comunità. Sono bastate poche ore per integrarmi nelle abitudini occidentali, ed inconsapevolmente emarginare un miliardo di persone, diventando un semplice turista che osserva superficialmente una popolazione dal lato folclorico.
    Girovaghiamo ammirando l'architettura moderna dei grattacieli, lo stile gotico delle facciate di molti palazzi e i negozi luccicanti che espongono prodotti che non hanno niente da invidiare a quelli europei. Siamo all'antivigilia di Natale, la merce esposta é abbellita con festoni argentati, frammista a simboli che ricordano la festività cattolica e sui cristalli delle vetrine si può perfino leggere, "Merry Christmans".
    Continuando la nostra perlustrazione, "casualmente" c'infiliamo in un ristorante, ma d'indiano non troviamo più niente, anche perché volutamente abbiamo scelto le pietanze dal menù tipo europeo non intendendo tornare in Italia e improvvisamente rimanere sconvolti dai diversi gusti degli alimenti che certamente ci saranno sottoposti.
    Una giornata dedicata a recuperare quelle abitudini che, durante cinque mesi avevo accantonato nella parte più intima del mio ego, (creando lo spazio per immagazzinare il nuovo bagaglio d'esperienze) e che ora fanno pressione per ritornare in superficie, cercando di prendere il sopravvento prepotentemente. Non importa! Il ricordo sarà sempre disponibile per la mia soddisfazione personale.
    É l'ultima notte che dormiremo in un letto indiano, perciò rientriamo in albergo abbastanza presto, così possiamo anche seguire i programmi che la televisione manda in onda e persino farci un'idea di quanta pubblicità è propinata ai poveri telespettatori orientali.
 
 
24 Dicembre 1996 - Martedì

    É una bella giornata, Fabri deve fare gli ultimi acquisti io invece sono già a posto. Non aspetto mai l'ultimo minuto per poi essere affannato dimenticando qualcosa. Ci fissiamo l'appuntamento verso sera e parto per una nuova spedizione.
    Esco dall'albergo che sono le dieci, non avendo voglia di camminare sotto il sole, salgo su un taxi e mi faccio portare all'imbarcadero.
    " Namaste, portami al porto dove partono i battelli per Elephanta ".
    L'autista non capisce, allora traduco,
    " Io volere andare dove partire ferribot! ".
    L'aborigeno é sempre più perplesso, io non mi scompongo e gli faccio segno di partire dicendo,
    " Go ".
    Parte, seguendo le mie indicazioni e con la mano accenno le direzioni, ora a destra ora a sinistra, secondo i casi. Dopo varie svolte si rende conto di dove voglio andare e si gira tutto raggiante facendomi intendere di aver capito. É solo un giorno che sono a Bombay e sono già in grado di insegnare la via agli indigeni.
    Una flotta di battelli d'altura attracca e salpa in continuazione dalla banchina sistemata sul fianco della scalinata che scende tra le onde. Rifiuto la mano del mozzo che offre sostegno ai naviganti meno esperti e timorosi di cadere nelle acque inquinate dalla nafta dispersa dai natanti.
    Mi sento esperto avendo navigato, in epoca ormai superata, nelle acque del lago di Garda con il mio fuoribordo, perciò spicco un salto dal gradino e durante il balzo inciampo con il piede nel copertone appeso lungo la fiancata dello scafo che funge da parabordo. Non casco, ma sono costretto a fare due passi per riprendere l'equilibrio e vado a sbattere la testa contro il cassero, ma facendo finta di niente mi trasferisco verso la tolda dove,
    "..... così percosso, attonito
    al mare il nunzio sta .....".
    Il mare immenso che riempie lo sguardo, non é il Ligure o il Tirreno o l'Adriatico, ma lo sconfinato Oceano Indiano, dove nessun continente si frappone dal punto d'imbarco all'Antartide e dove marinai più esperti, furono travolti dai marosi nel tentativo di dominare gli elementi scatenati, nella zona dei "quaranta ruggenti".
    Mentre un mozzo sgancia la gomena dalla bitta d'ormeggio il capitano, vecchio lupo di mare, con il volto segnato dalla salsedine e coperto da una lunga e arruffata barba grigia, che n'accentua i lineamenti, sale sul ponte di comando, abbranca la ruota del timone e con mezzo giro mette la barra a dritta. Attraverso il citofono ordina al marinaio addetto alle macchine, calato nel vano motore, "Avanti mezza".
    Lo scafo vibra impaziente, il fasciame scricchiola nello sforzo di tenere la carena compatta, le eliche cominciano a girare facendo ribollire l'acqua a prora e lentamente il natante vince la forza del mare e incomincia a scivolare sulla superficie azzurra lasciando alle spalle una lunga scia spumeggiante.
    Superiamo a dritta lo scoglio Middle Ground, dove una fortezza, arroccata sulla cima e armata di tutto punto con cannoni puntati verso il mare aperto, fa da sentinella alla città di Bombay. Per raggiungere l'isola d'Elephanta navighiamo per cinquemilaquattrocento secondi dondolati dal beccheggio che l'onda, lunga, oceanica, infligge alla motobarca.
    L'orizzonte é solo cielo e mare, ma non mi passa neanche per la mente che potremmo perdere l'approdo e trovarci naufraghi tra i flutti dell'oceano. Il Capitano é troppo esperto per perdere la rotta, ed ecco che comincia a frastagliarsi la sagoma del sospirato isolotto. Sarei tentato di gridare:
    " Terra, terra ",
    ma lo aveva già fatto Colombo quando credeva di aver scoperto l'India, mentre io invece in India ho già trascorso quasi mezzo anno e sono sul punto di doverla lasciare tra qualche ora.
    Sbarchiamo a quasi un chilometro dalla terra ferma e dobbiamo percorrere un lungo ponte per arrivare alla spiaggia. C'é la bassa marea e una decina di pescherecci sono in secca adagiati su un fianco e la ciurma dei marinai, che durante la battuta di pesca forma l'equipaggio, é intenta alla manutenzione e alla pulizia degli scafi.
    L'isola d'Elephanta, come recita il depliant turistico, é così chiamata per la sua somiglianza al grosso pachiderma. Io, che attraverso i documentari naturalistici trasmessi dalla televisione italiana, ho visto anche altri animali, la chiamerei isola Cammello, perché dell'elefante ha ben poco ed essendo provvista di due gobbe sarebbe più opportuno classificarla nell'ordine degli Artiodattili.
    Il monumento per il quale ho intrapreso questa traversata si trova a metà strada, tra la spiaggia e la cima del monte. Per arrivarci si percorre un lungo sentiero lastricato, con ai bordi le bancarelle dei venditori di souvenir e santini, raffiguranti le divinità che sono venerate nel tempio sovrastante, frammisti ad alcuni ristoranti atti a permettere il riposo ai pellegrini che quivi transitano. Ai piedi della salita diverse portantine (tipo sedia gestatoria), sono disponibili per trasportare qualche fedele inabile o troppo anziano per affrontare la disagevole ascesa, ma io, non essendo un credente hinduista, tanto meno inabile o anziano, decido di ascendere in piena autonomia.
    Dal piazzale antistante si entra in una grotta scavata nella roccia della montagna, con un lavoro ciclopico da parte di scalpellini che l'hanno modellata e portatori che hanno asportato tutto il materiale in eccesso.
    Attraverso un grande atrio si entra in un enorme ambiente, diviso in quattro navate da una serie di colonne con capitelli, fusti e basamenti, scolpiti e ricavati direttamente dalla roccia. Oltre il centro si attraversa un transetto con ai lati due monumentali altari e, oltrepassato il lungo presbitero, si raggiunge l'abside dove, girando lo sguardo ormai assuefatto alla penombra, si possono ammirare, alle pareti, imponenti altorilievi raffiguranti le divinità o scene mitologiche, riguardanti la vita di Shiva e di tutto il suo seguito.
    Una gigantesca cattedrale nascosta sotto lo strato di foresta che ricopre l'isola e conferisce all'ambiente un fascino di spiritualità e di serenità. Uscito dal tempio incantato, proseguo a mezza costa portandomi sul versante sud della montagna e il ricordo del promontorio di Portofino si accavalla al paesaggio sottostante, formato da una valle boscosa che scende aspra verso le luccicanti acque dell'oceano indiano che rimandano i raggi del sole che si rispecchiano sulle onde.
    Ritorno verso la nave che mi riporta a Bombay con negli occhi il ricordo di queste visioni e voluttuosamente aspiro la fragranza del mare che la brezza pomeridiana trasporta tra le sue molecole. Durante la navigazione incrociamo un cargo che trasporta il suo carico verso il porto commerciale, mentre alla fonda s'intravedono alcune sagome di grosse navi. Lasciamo a babordo una super petroliera attaccata ad un oleodotto intenta a scaricare il suo liquido nella pipe-line che si perde all'orizzonte alimentando una raffineria sulla terra ferma.
    Sono un navigante curioso e non mi lascio scappare una piccola scia che fende le onde in lontananza. Penso alla pinna caudale di un pescecane, ma osservando attentamente noto che la protuberanza che fende la superficie non é altro che il terminale di un periscopio di un sottomarino (forse atomico) che sta navigando verso il largo, in una missione di pace sconosciuta a tutti gli uomini di buona volontà
    La motobarca punta la prua verso la costa che, tra la bruma della sera, lascia intravedere in controluce le sagome svettanti dei grattacieli immersi in un'atmosfera indefinita, dai colori tenui in un cromatismo di grigio surreale. In una sola giornata ho provato due sensazioni singolari: la navigazione in mezzo all'oceano e lo sbarco sulle coste indiane.
    Rientro in albergo e insieme con Fabrizio riuniamo tutto il nostro bagaglio nelle capaci borse, siamo solo preoccupati per il peso eccessivo che anche al ritorno ci ritroviamo. Abbiamo ancora cinque ore disponibili e le dedichiamo a cenare in un buon ristorante, poi, siccome la temperatura dell'aria é abbastanza calda, approfittiamo del tempo in eccesso per concederci un'ultima doccia d'acqua indiana.
 
25 Dicembre 1996 - Mercoledì

    É già passata la mezzanotte e, a bordo di un taxi, ci facciamo portare all'aeroporto, distante una trentina di chilometri. Con tutta tranquillità espletiamo le formalità inerenti l'imbarco e cominciamo a rilassarci quando alle tre e trenta riusciamo a varcare l'ultimo cancello senza essere sottoposti alla pesatura delle borse. Da Bombay a Delhi il paesaggio é illuminato dalla luna, ma con il sorgere del sole incominciamo ad entrare in una formazione di nuvole cirriformi che ci negano la vista della pianura sottostante.
    L'affollato aereo allo scalo di Delhi si svuota completamente. Noi e altri otto passeggeri restiamo a bordo dovendo proseguire per Roma; possiamo così assistere al riassetto del velivolo compiuto da una squadra d'inservienti, che nel giro di mezz'ora lo ripuliscono da cima a fondo. Dopo la pulizia salgono una trentina di viaggiatori e alle otto le turbine incominciano a vibrare per riportarci in quota di navigazione.
    Voliamo ad un'altezza superiore allo strato nuvoloso, in un paesaggio incantato, dove le nuvole illuminate dal sole sembrano delle spianate coperte di neve bianchissima, come la banchisa del Polo Nord vista dall'elicottero. Dove la formazione nuvolosa é un po' più rada si ha l'impressione di sorvolare le sponde di un lago dalle acque di un grigio azzurro.
    In quest'ambiente di favola nasce spontanea l'esigenza di fare il bilancio del dare e dell'avere, ma le esperienze accumulate, sia positive sia negative, sono tali e tante che non mi consentono d'essere obiettivo nel momento di tirare le somme. Dell'India ho visto troppo poco anche se vi ho vissuto per cinque mesi e dieci giorni, ma posso solo compiacermi di aver avuto la capacità di apprezzarne il PROFUMO.




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