Verso Delhi



7 Novembre 1996 - Giovedì

    Parto da Manikaran alle dieci con Jonny, Franca e Oriana. Siccome loro viaggiano in taxi, Fabri mi aggrega con tutti i bagagli, cosi l'impatto col nuovo mondo mi dovrebbe essere più facilitato. Lui mi raggiungerà domani perché parte alle diciannove di questa sera da Buntar con il pullman. Avrei preferito iniziare anch'io con i mezzi locali, ma, dato che sono in piacevole compagnia, accetto di buon grado la prospettiva di un viaggio comodo.
    Caricato il cumulo di bagagli sul gippone, mi riservano il posto a fianco dell'autista, ma fatte poche centinaia di metri, il proprietario di una drogheria di Manikaran chiede un passaggio e siccome é conosciuto da Jonny, la richiesta è assecondata; così il mio posto di copilota è diviso anche dal tarchiato commerciante, riducendo in modo precario la mia comodità.
    La discesa é resa più spettacolare dalla mattinata fresca e serena che fa risaltare il verde della vallata e la vetta delle montagne circostanti. Passato Buntar la nostra marcia è arrestata per più di un'ora a causa di uno sciopero di maestri che, con le loro scolaresche, bloccano la circolazione e all'ombra di un grosso albero aspettiamo in serafica attesa che l'evento si concluda. Un'ulteriore sosta per il pranzo, a base di un intingolo di spinaci e patate, assaporati con quattro gustosi ciapati, ci ridanno la carica per riprendere il lungo viaggio verso la pianura.
    Le ombre della sera, nascondono le vette dei monti che sono lasciate alle nostre spalle; c'immergiamo sempre più nel traffico dominato dagli sbuffanti autocarri. Incomincia il turbinio dei sorpassi, sembra d'essere protagonista di un "video gioco"; si segue una lunga teoria di pesanti automezzi e si esce dalla colonna di marcia per invadere l'altra corsia, cercando di rientrare, sorpassando i mezzi che ci precedono, senza toccare o farsi toccare dai fasci luminosi che abbagliano la tua macchina. Quando fai scratch hai perso la partita e non c'é più la possibilità di riprendere il gioco!
    Alla pausa per la cena, a base di un "puccino" di piselli e patate con il solito buon ciapati il nostro autista, che ha incontrato un amico che va a Delhi, ci propone di cambiare automezzo e ci trasferisce su una grossa Ambassador, ma non avendo il bagagliaio abbastanza capiente da contenere tutti i nostri borsoni, sono costretto a percorrere gli ultimi duecento chilometri abbracciato a due zaini deposti tra me e l'autista.
    Alla fine, il viaggio che doveva essere più comodo che sul pullman, é risultato abbastanza avventuroso, dovuto anche a diversi incidenti meccanici che alcuni grossi autocarri avevano subito e che, con la loro ingombrante mole, ostruivano la sede stradale, obbligandoci a rallentare fino a fermarci in lunghe colonne. L'estenuante viaggio ha termine alle tre di notte alla Janpath Guest House di Delhi (600 rupie per notte).
    Questa é l'India che mi piace, con il suo trambusto, con la propria capacità d'improvvisazione, con la sua non sicurezza alla puntualità, in altre parole, con il quasi caos!
 
8 Novembre 1996 - Venerdì

    Mi sveglio alle otto del mattino. Un tranquillo riposo senza l'ausilio del ventilatore, avvolto solo da una leggera coperta, segno evidente che anche qui é arrivato l'autunno. Aspetto seduto ad un tavolo, sul terrazzo dell'albergo, fino alle dodici e quando arriva Fabrizio con Davide decidiamo di andare a mangiare da qualche parte.
    L'impatto con la città non é più cosi deprimente come la prima volta, non si sente quell'afa insopportabile che mi faceva chiudere lo stomaco, ma l'aria fresca stempera quegli acri odori di vivande cotte con oli oramai stracotti, rendendoli quasi profumati. I mendicanti (sempre gli stessi), non mi danno quel senso di meschinità che provavo nei loro confronti quando rifiutavo di dar loro qualche rupia. Ormai abituato a questo genere di situazione passo come tutti gli altri senza ulteriori difficoltà.
    Entriamo in un ristorante e i miei due accompagnatori sono perplessi a scegliere, da un menù con specialità tipicamente indiane, le pietanze a loro più gradevoli. Io preferisco usare il metodo della casualità e, puntando il dito, scelgo!. Loro confabulano con il cameriere per avere ulteriori delucidazioni. Morale, io mangio con gusto un risotto con latte acido e spicchi di limone ricoperti da una salsa molto piccante, poi alcuni avanzi che Fabri ritiene non confacenti al suo palato e infine tutta la razione di Davide che ritiene schifosa: un pranzo da nababbo.
    Andiamo presso le agenzie aeree per confermare i biglietti di volo per il rientro in Italia. Davide tra due giorni, noi tra due mesi. Il resto della giornata, lo passo seduto sul dondolo dell'albergo meditando sul cambiamento che é avvenuto in questi tre mesi e mi accorgo che, con l'abitudine alla peggio, qualsiasi altra cosa diventa migliore.
    Il mangiare per esempio, su in montagna, era povero, solo ciapati cotti alla belle meglio, rajma o dal con riso, dal sapore piccante, ma insignificante, talvolta poco cotti, altre con troppo aglio. Io tutti i giorni alla una mi recavo presso uno degli ciai-shop per il pranzo e mangiavo di questa roba. Alle volte desideravo cambiare, ma la scelta era limitata, se ordinavo un'omelette era ancor peggio perché le uova erano fritte nell'olio e risultavano grasse e stomachevoli. Oggi trovo dei piatti saporiti e dai gusti variati, così mi abbuffo. I miei due compagni invece mangiavano solo in casa di Jonny il quale cucina con passione e prepara dei piatti squisiti dal gusto "italiano" e così, cambiando sapore non hanno il palato disposto ad assaporarlo. Anch'io alla sera partecipavo ai loro banchetti, ma alternando i gusti mi sono allenato ad apprezzare i differenti sapori. Allenamento ragazzi! Allenamento!.
    Alla sera, tutti in combriccola, andiamo in un ristorante self-service dove, spendendo duecento rupie, si può mangiare quello che si vuole. Io non ne ho perso nemmeno uno mentre tutti gli altri (sempre per il discorso di prima), lasciano nel piatto alcune portate perché, se anche belle a vedersi, hanno un sapore che ritengono "diverso". Sono convinto che se dovessi rimanere troppo a Delhi ingrasserei come quei Sikh che si vedevano passeggiare lassù a Manikaran.
 
9 Novembre 1996 - Sabato

    Ci svegliamo alle nove e facciamo un giro per la città percorrendo la Main Bazar (la stessa dove sono stato catapultato il giorno del mio arrivo), nel quartiere di Paharganj. Uno sfarfallio di colori, un vociare quasi festante, nessun odore sgradevole, cosa é successo? Sono cambiati gli indiani? Si sono civilizzati? No! Mi sono integrato io. Essi sono indaffarati nei loro acquisti o nelle loro vendite, sembrano quasi più dinamici dei milanesi, meno importuni dei pataccari napoletani, più disciplinati degli "italiani".
    L'unica trasgressione, se così si può dire, é il continuo scampanellio delle biciclette e lo strombazzamento dei clacson dei mezzi a motore, ma nient'altro. Lentamente la folla che ingombra la via si sposta da un lato e i velocipedi, motorette e taxi passano e altri che li seguono ripetono lo stesso rituale. Sarebbe come se in un nostro mercatino di periferia ci fosse la libertà di transito a tutti i mezzi di locomozione. Nell'insieme é affascinante, mi fa sentire libero di esserci, non obbligato a stare.
    Beviamo diverse bibite nei ristorantini che si affacciano sulla strada e poi rientriamo in albergo per un breve riposo. Al pomeriggio decido di uscire da solo per potermi fermare a guardare i negozi e il traffico delle vie di grande scorrimento, senza l'assillo di dover rincorrere Marco Polo che, se non nota qualche cosa che lo interessa, viaggia come un pullman. Entro ed esco dai "grandi magazzini", ma non conoscendo la qualità della merce, non riesco ad apprezzare la bellezza dei prodotti. La maggior parte sono stoffe e broccati che i commessi mostrano agli interessati clienti con lunghe ed esaurienti spiegazioni. Io, purtroppo, non avendo padronanza della lingua, mi limito ad osservare curiosamente.
 
10 Novembre 1996 - Domenica

    Mi sveglio di soprassalto a causa del trambusto che si é creato nella camera, Davide, con il quale dividiamo la stanza, doveva partire alle cinque, il portiere non lo ha svegliato e sono già le cinque e trenta. Per fortuna all'aeroporto i tempi d'imbarco sono lunghi e mezz'ora di ritardo non dovrebbe far perdere il volo, ma certe dimenticanze sono davvero imperdonabili. In questi casi gli indiani sono troppo faciloni, non hanno il senso del tempo e, alle nostre rimostranze, l'impiegato di turno (che dormiva sulla poltrona) risponde;
    " No problem "
e con un bel sorriso alza il telefono e chiama immediatamente un taxi.
    Noi due ci riaddormentiamo e senza neanche un po' di vergogna continuiamo a riposare fino alle undici. Facciamo una bella scarpinata fino in Paharganj con l'intento di scattare qualche foto, ma é impossibile, Marco Polo cammina troppo forte e per non perderlo di vista, in mezzo ad una folla strabocchevole, devo controllare la sua testa qualche metro più avanti. Non importa, tutta la scena rimarrà impressa nella mia mente e fino a quando la "lucidità mentale" non mi abbandonerà, la potrò ricordare senza bisogno di sfogliare l'album fotografico.
    Un buon toast con filetti di pollo, inghiottito con Coca-cola, rimpiazza la prima colazione e sostituisce il pranzo del mezzodì. Entriamo in un negozio per acquistare alcune stampe su seta e, dopo più di un'ora di scelta, quando avevamo già selezionato una ventina di riproduzioni, il commesso, forse un po' stanco di mostrare tutta quella mercanzia e probabilmente con l'intento di rifilarci prodotti di scarso valore, ci sottopone articoli di qualità scadente indisponendo Fabrizio, il quale prende la porta ed esce, lasciando di stucco il povero venditore.
    Ritorniamo, sempre a piedi, in albergo da dove poco dopo usciamo per visitare altre botteghe, vicine al nostro hotel, ma non troviamo niente che ci attrae, allora decidiamo di prendere un taxi e farci portare a Hold Delhi. Qui lo spettacolo raggiunge l'apoteosi! Una marea di folla e di colori invade il campo visivo. Una festa di Piedigrotta al cubo, bancarelle e negozi pieni di gente. Un vociare di venditori che esaltano la propria merce, uno spingersi continuo con una leggera preoccupazione per il "marsupio" contenente i soldi e i documenti.
    Un quartiere molto più degradato di Paharganj, dai vicoli stretti come i carruggi della Liguria, dalle case fatiscenti come quelle più povere d'alcune zone di Napoli, ma tutto l'insieme emana un gran fascino. Questa é la vera India, con la sua miseria, i suoi colori, i suoi profumi e quella confusione che la caratterizza. Ritorniamo sempre in taxi a Paharganj che al confronto sembra una zona signorile.
    Con un moto-taxi rientriamo in albergo, ma a metà strada rimane senza benzina, non riuscendo a trovarne un altro libero,siamo costretti a rientrare a piedi. Per fortuna sono ben allenato dalle passeggiate montane e la fatica non viene nemmeno sfiorata.

    Sono diversi giorni che si sente un continuo scoppiettio di mortaretti e finalmente vengo a scoprire il motivo. Gli indiani festeggiano il Diwali, una festa tra le più amate dal popolo ed é dedicata alla dea Laksmi, fedele compagna di Visnu· e coincide con il capodanno induista (per loro siamo nel 2050).
    Questa sera il rumore é in continuo aumento. Tutti i negozi in questi giorni si sono abbelliti con festoni colorati, fili d'argento, stelle filanti dai vivaci colori e davanti alle botteghe, portoni di casa e finestre, sono state deposte tante candeline colorate e ciotoline contenenti olio, che illuminano con le loro fiammelle gli atri e i marciapiedi di Delhi.
    É già l'ora di cena, ma tutti i ristoranti sono chiusi, le strade diventano deserte a vista d'occhio, segno evidente che la ricorrenza si svolge in seno alla famiglia. Riusciamo comunque a trovare un bugigattolo dove mangiamo un piatto di riso con piselli.
    La serata la trascorriamo sul terrazzo della guest house ad osservare il cielo solcato da razzi colorati in un roboante frastuono di scoppi e crepitii che fanno pensare al nostro capodanno, ma con intensità ben maggiore. Per festeggiare l'evento ci scoliamo un paio di bottiglie di birra augurandoci di ritrovarci il prossimo anno a festeggiare queste giornate di "caos".
 
11 Novembre 1996 - Lunedì

    Sono le nove e Fabri esce a fare le ultime spese. Al rientro chiudiamo il bagaglio e ci prepariamo per andare a prendere il treno che ci porterà a Benares.
    Alle tredici abbiamo appuntamento alla stazione con, Jonny, Franca e Oriana, ma il casino che regna intorno ai treni é talmente sproporzionato che comincio ad essere incerto sul risultato. Per fortuna i nostri amici, già in vettura ci chiamano, attraverso il piccolo finestrino e ogni dubbio subito sparisce.
    Il vagone é composto da tanti scompartimenti della capienza di nove persone, collegati da un corridoio lungo tutto la vettura, che li fraziona sei da una parte e tre dall'altra. Lo spazio più grande é composto da due panche, l'una di fronte all'altra, come nei nostri scompartimenti, mentre quello più piccolo é occupato da una sola panca posta longitudinalmente. Il sedile é rivestito in similpelle, così pure lo schienale che, sollevato e agganciato con delle catene fissate ad un altro ripiano che durante il giorno funge da portabagagli, forma tre comodi giacigli per distendersi.
    Abbiamo sei posti a cuccetta riservati, ma noi siamo in cinque e gli indiani incominciano a voler occupare gli spazi che, se noi ci stringessimo un po', potrebbero essere disponibili. Abbiamo un bel da fare e da dire per mantenere le nostre posizioni, poi un local dalla carnagione più scura degli altri, credendo che noi non capiamo l'indi, comincia ad offenderci mandandoci a fare..... con nostra sorella. Uno scatto violento di Jonny, che parla bene anche l'indiano, fa sbiancare il volto al tapino che si allontana, andando a sedere in mezzo ad altri viaggiatori, tra l'altro già stretti per conto loro.
    Purtroppo la colpa é della ferrovia che a noi non aveva venduto i biglietti il giorno prima, perché non c'erano posti sufficienti per il nostro gruppo, di conseguenza, avendo pagato anche il supplemento, abbiamo tutto il diritto di tenerceli ben stretti. I treni in India sono meno confortevoli dei nostri, ma dipende dalla gran quantità di gente che viaggia e che é abituata ad accalcarsi gli uni sugli altri. Siamo gli unici passeggeri seduti comodamente, mentre negli altri scomparti si accalcano in gruppi molto numerosi. Anche se il vagone é uno "Sleeper Class" cioè, volgarmente chiamato vagone letto, con il proprio posto numerato, i viaggiatori che devono percorrere brevi percorsi, durante la giornata occupano ogni angolino disponibile, persino sul portabagagli, sedendosi con la testa un po' abbassata, per l'esiguo spazio in altezza e le gambe penzoloni lungo il corridoio.
    Dal piccolo finestrino, chiuso da una grata di ferro, per evitare forse ai viaggiatori di sporgersi, ma più realisticamente per non permettere alle scimmie di entrare nei vagoni (ne ho viste moltissime aggirarsi intorno al treno in una stazione intermedia), si può ammirare una rigogliosa campagna, ma essendo una zona pianeggiante, potrebbe assomigliare, se non ci fossero i nostri compagni indiani, alla fertile pianura Padana.
    Ordiniamo una cena che ci viene servita in un contenitore cilindrico a tre ripiani dove il primo, contenente il rajma, trabocca il suo liquido negli altri, ungendo i recipienti sottostanti con le derrate in loro contenuti e di conseguenza anche le mani, facendo scappare ogni desiderio di rimpinzarsi con le specialità locali.
    Dopo la drammatica cena ci adagiamo mollemente sui nostri giacigli lasciandoci cullare dal dolce dondolio del vagone e dalle note ritmate delle ruote (tu-tu tu-tu, tu-tu tu-tum, ......), che girano vorticose sui lunghissimi binari.




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