Impatto



17 Luglio 1996 _ Mercoledì

      Attraverso un lungo corridoio, dopo lo sbarco, arriviamo nel salone ritiro bagagli. Per ingannare l'attesa e per iniziarmi al nuovo modo di vivere, Fabrizio mi manda a cambiare alcuni dollari in rupie, consigliandomi di andare da quello che mi avrebbe fatto una migliore offerta. Non capisco una parola e sono anche un po' rintronato, sono arrivato da diecimila chilometri di distanza e sono stato catapultato in un territorio, che a prima vista non sembra affascinante come i due aeroporti di Milano e Francoforte, i quali, brulicanti di gente e di negozi pieni di prodotti illuminati da luci sfavillanti, davano un senso di fiera degli "O BEI, O BEI".
      Il vasto locale dove ci troviamo é un grosso capannone in muratura con diversi nastri trasportatori tutti cigolanti che distribuiscono sacchi, borse e valigie ai passeggeri del volo appena sopraggiunto i quali, schierati lungo i loro fianchi, attendono il passaggio dei propri bagagli. Sul fondo ci sono diversi spazi adibiti ad uffici e dietro ad un bancone, quattro impiegati attendono l'arrivo degli occidentali, per accaparrarsi la loro valuta pregiata.
      Pure gli altri passeggeri del volo, che hanno avuto la stessa idea, si precipitano verso gli uffici, discutendo con i cambiavalute le migliori condizioni di cambio. Non mi resta che passare la fiammante banconota da cento dollari, senza profferire parola, nelle mani dell'unico impiegato che porta in testa un turbante bianco e che fa tanto indiano. Mi mette sul bancone alcune mazzette di rupie pinzate strettamente con delle graffette metalliche e altri biglietti tutti sgualciti, sorride e si rivolge ad altri.
      Fabri mi chiede quanto ho racimolato, balbetto qualche cifra, si limita a contare il malloppo e infilandolo nel marsupio che porta alla cintola laconicamente mi dice, "Ti hanno fregato!".
      Rimettendo l'orologio in pari con l'orario locale, sono le tre e trenta, e con i nostri ottanta chilogrammi di bagaglio ci mettiamo alla ricerca di un mezzo di trasporto per arrivare in centro alla città.
      L'atrio dell'aeroporto é affollato di gente, uomini, donne, bambini, cani, bagagli; chi in piedi, chi sdraiato sul pavimento avvoltolato in un lenzuolo che sembra riposare nell'attesa del prossimo volo. Passato, ovvero scavalcato il groviglio dei corpi distesi, ci troviamo attorniati da decine di tassisti che si offrono di accompagnarci nei più accoglienti alberghi di New Dheli.
      Seguendo i suggerimenti di un ragazzo veniamo "dirottati" a prendere una motoretta taxi parcheggiata in una stradina nei pressi dell'aeroporto e dopo aver pattuito il prezzo, per essere trasportai al nostro albergo, carichiamo sacchi e bagagli e, stipati come due sardine, percorriamo in modo precario quest'interminabile strada.
      Il caldo che mi era stato prospettato non mi sembra così insopportabile (mi trovo sul carrozzino di un motoscuter), di notte, senza traffico, non mi sono nemmeno accorto della pericolosità di questo mezzo diffusissimo in India. Vanno come pazzi e invece di frenare suonano il clacson, non ho ancora capito se all'incrocio attraversano con il verde o con il rosso. Io chiudo gli occhi e, come per incanto, mi trovo dall'altra parte.
      Stradine dal fondo dissestato, incroci incomprensibili (il senso di circolazione é a sinistra), strade prive di traffico, piazze immense e lunghi viali, vengono percorsi da questo traballante mezzo, mentre lasciamo alle spalle alcune grandi costruzioni sfavillanti di luminarie reclamizzanti alberghi e ristoranti di prima categoria. Inoltrandoci verso il centro della città, vicino ad un complesso che la mia guida definisce essere la stazione, il paesaggio cambia in modo repentino: traffico di veicoli intenso, gente con indumenti a dir poco in pessimo stato, esseri umani sdraiati per terra lungo i marciapiedi e mucche senza fissa dimora che circolano fra tutto questo bailamme.
      Imbocchiamo una strada con persone ferme a chiacchierare come se fossero le undici di sera, alcuni negozi sono aperti ma non riesco a capire cosa esercitano; il mio cicerone mi dice che siamo arrivati all'albergo e ne scandisce il nome, ma il vocabolo mi é incomprensibile e automaticamente mi lascio guidare. Una prima discussione la dobbiamo sostenere con il mototassista, il quale insiste nell'asserire che il prezzo della corsa, stabilito alla partenza, deve essere raddoppiato perché siamo in due. Per fortuna Marco Polo lo zittisce con il suo inglese imperialistico e scarichiamo le masserizie. Non più con il vento nei capelli, la fronte incomincia a imperlarsi di goccioline di sudore e uno strano odore penetra nelle narici.
      Ci danno una camera al quarto piano, per fortuna ci sono quattro ragazzi che si accollano i fardelli e, al loro seguito, saliamo sui ripidi scalini per raggiungere la sospirata stanza.
      Un letto matrimoniale e un comò occupano tutto il locale; dal soffitto pende un grosso ventilatore che gira vorticosamente, una porta sulla destra introduce nella camera da bagno, arredata con un acquaio, un water e una bocchetta per la doccia sulla parete di fronte.
      Prendo sapone e asciugamano per rinfrescarmi nel lavandino, ma con mia meraviglia, mentre mi bagno il volto mi sento risciacquare anche i piedi. Non c'é il sifone sotto il lavabo e l'acqua cade direttamente in terra e finisce in una specie di scarico che dovrebbe servire anche per la doccia. Poco male, una volta capito il meccanismo!
      Ci buttiamo sul letto, prima però Marco Polo scende a prendere due bibite che dovrebbero servire per la notte, ma che sono trangugiate in tutta fretta. Il caldo é a 40 gradi e l'umidità é a 90. Sotto il ventilatore, il sudore rallenta un pochino e non riuscendo a prendere sonno decidiamo di lasciare Delhi la sera stessa. Io vorrei partire subito, dopo un breve riposo ristoratore, ma Fabri mi convince ad intraprendere il viaggio di notte evitando il traffico diurno e il relativo caldo. OK.
      Stiamo per riuscire ad appisolarci quando si sente battere ripetutamente alla porta. É un ragazzo che vuole le due bottiglie vuote. Dopo poco ancora un vigoroso bussare ed un altro scugnizzo ci sollecita il pagamento delle due bevande. Incazzato Marco Polo scende al bureau per definire la faccenda e, nello stesso tempo, si fa rilasciare la ricevuta che ha pagato la camera, fino alle ore sedici dello stesso giorno.
      Ore sei. Alla fine di tutto questo trambusto, notiamo che dalla finestra entra una bella luce e, tirate le tendine per limitare, l'abbagliamento del chiarore mattutino, cerchiamo di dormire, cullati dal rumoroso e provvidenziale ventilatore.
      Ore sei e trenta. Riapro gli occhi e ohimé! La pancia accarezzata dall'artificiosa frescura incomincia a dare segni d'insofferenza e sono costretto a correre in gabinetto per la bisogna. Incomincia la giornata con una grossa difficoltà. Lo sciacquone é guasto e bisogna aspettare che da un rubinetto un filino d'acqua finisca in un fatiscente secchio, per poi essere versato nella tazza. Operazione lenta ed estenuante, accompagnata da forte sudorazione e da pensieri irripetibili. Torno a sdraiarmi sul letto, indossando una maglietta per evitare il raffreddamento del ventre.
      Ore sette. Altro risveglio come il precedente con tutta la stessa trafila; ora però sono già predisposto ad accettare la difficoltà e tornando a letto riesco a riposare fino verso le dieci. Quando ci alziamo, per evitare che durante la giornata debba ricapitarmi l'inconveniente notturno, mi succhio un Bimixin e usciamo a rivedere le genti.
      Ore dieci. Il nostro albergo é proprio in centro e come usciamo siamo immersi in una folla d'indiani indaffarati nei loro lavori. I negozi, ai bordi della strada, sono pieni di merci ma é come se si passasse in mezzo alla fiera di "Sinigaglia" o di "Porta Portese". Un'infinità di locali pieni di merce di ogni genere o di ristorantini con davanti dei fornelli che cuociono qualche cosa che, dopo le vicissitudini notturne, non oso guardare e che emanano anche un odore nauseabondo che forse con l'andar del tempo riuscirò a decifrare.
      Per evitare di essere travolti dagli indaffarati e vocianti delhiani, saliamo su un bici-risciò, il quale si fa largo tra i viandanti e ci porta nella zona dove dobbiamo cambiare un po' di dollari. I bici-risciò sono meno pericolosi dei mototaxi ma questi ci sorpassano da tutte le parti strombazzanti e prepotenti. A questo punto bisogna mettere nel numero anche i taxi veri, che non sono secondi a nessuno in fatto d'arroganza..
      É un susseguirsi di nuove sensazioni, sorprese ad ogni volgere di sguardo, sbalordimento ad qualsiasi immagine che si fissata nella mente. Il mio condottiero si profonde in complesse spiegazioni sui luoghi che percorriamo, ma lo sbigottimento ha il sopravvento su ogni genere d'illustrazione ambientale; così di stupore in stupore arriviamo nella zona delle banche per rifornirci delle rupie che da questo momento diventeranno denaro ufficiale per la nostra sopravvivenza. Il mio consigliere, lasciato il risciò, si avvia con passo sicuro verso una porticina dove un uomo in divisa con un fucile a tracolla fa da sentinella. Con passo fermo sale la lunga scala che conduce al piano superiore e s'introduce in un angusto locale dove quattro impiegati svolgono il loro lavoro, separati dal pubblico da una parete di spesso cristallo. Mi sembra di tornare alla consueta realtà. Siamo in un'agenzia di cambio!
      Le fiammanti banconote acquistate qualche giorno prima allo sportello della Banca Popolare di Milano passano sotto il pertugio che unisce i due locali e dopo che il cassiere, con la sua antidiluviana calcolatrice ha trasformato il valore dei dollari in valuta locale ci ritorna alcune mazzette di fatiscenti rupie, strettamente pinzate con graffe metalliche; e che, a un sommario accertamento, sembrano preparate per essere inviate al macero!
      Ritornati nel "paesaggio" girovaghiamo a piedi lungo viali, vie e piazze amalgamandoci in una marea di gente e, arricciando il naso per gli odori che provengono da ogni dove, incomincio a prendere atto più da vicino delle diversità con le quali dovrò convivere.
      La gente normale é causa di stupore dovuto alle varie fogge di vestiario che non sono abituato a incontrare.
      I poveri sono come i normali, ma più trasandati e più sporchi e ti seguono con la mano tesa sussurrando una nenia melanconica e continua.
      Gli storpi sono come i poveri, ma avendo difficoltà a seguirti, ti si piazzano davanti costringendoti a brusche deviazioni per non investirli.
      Perfino i più bei monumenti, che incontriamo al nostro passaggio, perdono d'importanza e di significato di fronte ad una realtà così povera e misera come quella che mettono alla prova certi abitanti di questa città.
      Che importanza ha conoscere il nome di un tempio quando nei suoi dintorni s'incontrano persone sdraiate per terra che mendicano qualche rupia?
      Che importanza ha il nome di un viale quando sotto i suoi alberi s'incontrano decine e decine di parrucchieri che su un tappetino unto e bisunto mettono in mostra il loro rasoio, qualche pettine dai radi rebbi e uno specchio appeso al tronco dell'albero, mentre accovacciati sui calcagni aspettano pazientemente qualche cliente?
      Che importanza ha conoscere il nome di un quartiere quando, alla fermata dell'autobus sostano nell'attesa un gran numero di persone e all'arrivo del torpedone con passeggeri aggrappati ad ogni piccola sporgenza si aggiungono anche quelle che stanno aspettando?

Non c'é nulla da dire! É solo da meditare!

     Ore dodici. Ci fermiamo in una paninoteca, con aria condizionata, con il banco e i tavoli puliti, ma il mio stomaco rifiuta il cibo e sono costretto a ingurgitare solo Coca-cola. Continuiamo il nostro giro tra caldo, odore e mendicanti che ti fanno sentire quanto sei "stronzo" a rifiutargli qualche rupia. Purtroppo loro sono in molti e io sono solo un turista.
      In un'agenzia prenotiamo un taxi che, con un percorso di circa seicento chilometri, ci porterà a Manikaran un villaggio che non é segnato sulle cartine geografiche, ma che solo gli intenditori ne consigliano il viaggio. Pattuito un costo di cento dollari accettiamo e confermiamo la partenza per le ore venti davanti al nostro albergo.
      Spossati rientriamo in hotel e mentre Fabri si reca a comperare due cassoni in metallo per riporre tutto il nostro materiale, che a dorso di mulo sarà trasportato ad una quindicina di chilometri da dove finisce la strada, io salgo sul terrazzo-bar-ristorante dell'albergo a sorbirmi l'ennesima Coca-cola. Per il conforto dei clienti, dal bersò di canne, pendono tanti ventilatori quanti sono i tavolini, coadiuvati da altrettanti condizionatori d'aria posti di fianco ai tavoli stessi. Purtroppo si suda lo stesso!.
      Lunga attesa fino alle venti quando decidiamo di farci portare giù tutto il nostro bagaglio il qual è ammonticchiato di fianco all'albergo e, mentre Fabrizio incomincia a fare la spola tra noi e l'agenzia per lamentarsi del ritardo dell'autista, io rimango di guardia alle vettovaglie.
      Il caldo, l'odore, lo sguardo curioso dei passanti non é niente di fronte al senso di colpa che ti dà il ragazzino di tre o quattro anni che ti si mette davanti giungendo le mani e implorando con gli occhi, si bacia la punta delle dita e si china a posarti il bacio sull'estremità delle scarpe. Sono combattuto se ignorarlo o dare qualcosa. In quel caso sarei sommerso da tutti gli altri che sostano nei dintorni. Vigliacco! Senza farmi notare prendo una rupia dalla tasca e, cercando di non essere visto da nessuno, gli apro la manina, gli passo la monetina e, chiudendogliela con un buffetto, lo allontano. Come avevo temuto ecco arrivare altri cinque o sei bambini più grandi che purtroppo devo allontanare facendo la faccia un po' truce.
      Il taxi non arriva, in compenso arriva un vecchio con le stampelle, lunga barba bianca e un paio di occhiali dalle spesse lenti. Si ferma a pochi centimetri, mi chiede qualcosa che non capisco, gli faccio un sorriso, si porta la mano alla bocca e il segno é evidente. Cerco di guardare altrove, sono imbarazzato, io guardiano di quella catasta di roba che forse risolverebbe tutti i suoi problemi, sono costretto a negargli qualcosa. Finalmente arriva il taxi, carichiamo tutto e partiamo.
      Ore venti e trenta, in mezzo ad una baraonda di velocipedi, motorini, automobili, autocarri e pedoni guadagniamo la strada verso la periferia. Ad un semaforo il nostro autista si ferma dietro ad una colonna di macchine mentre un mototaxi ci supera a forte velocità e per evitare di tamponare gli autoveicoli fermi al semaforo, scarta bruscamente e finisce in mezzo a due macchine parcheggiate, con il conseguente ferimento delle persone trasportate.
      Proseguiamo in mezzo ad un ingorgo allucinante con strombazzamento di clacson assordante. Una vettura ci supera e per rientrare nella corsia di marcia, facendo una manovra un po' brusca, dà una scodata al muso del nostro taxi. A Milano sarebbero usciti i vigili a fare un rapporto per l'assicurazione; qui invece é come se nulla fosse successo, una sequela di parole incomprensibili e tutto finisce lì.
      Sembra che l'ingorgo si stia diradando, quando la macchina incomincia a sobbalzare. Abbiamo forato. Fortunatamente siamo vicini ad una pompa di benzina e, dopo una lunga discussione del nostro autista con gli addetti alla stazione di servizio, incomincia il lavoro di sostituzione della ruota. Un ragazzo mette e tiene il cric sotto la macchina, uno fa girare la manovella per sollevarla e un altro svita con gran fatica i bulloni della ruota. Il quarto sovrintende ai lavori dando consigli agli altri tre. Nel giro di mezz'ora siamo pronti per ripartire, ma la mia preoccupazione é, la ruota buca.
      " Se dovessimo forare ancora? ".
      Sono subito rassicurato da Fabrizio il quale mi spiega che, proseguendo nel viaggio, avremmo incontrato un riparatore di gomme. Così é. Dopo cinque o sei chilometri, sono già quasi le ventidue, arriviamo ad un villaggio dove c'é una catapecchia con dei copertoni accatastati e un uomo con tre ragazzi seduti per terra.
      L'autista c'informa che, mentre la squadra dei tecnici si appresta alla riparazione, lui si assenta per mangiare qualche cosa in uno di quei negozi che preparano quelle odorose pietanze che riempiono l'aria del loro effluvio. Ci chiede se vogliamo fargli compagnia, ma noi rifiutiamo adducendo la scusa che abbiamo già cenato in albergo.
      La sceneggiata della ruota si ripete con lo stesso rituale della pompa di benzina perciò salto il paragrafo. Sono passate le ventidue e siamo ancora nelle vicinanze di Delhi. Chissà quando arriveremo. Sembra che tutto proceda bene, viaggiamo su una strada a quattro corsie con spartitraffico centrale e stiamo sorpassando una lunga, lunghissima colonna d'autocarri.
      Il nostro guidatore mi sembra prudente e parla con Fabrizio in inglese. Io sono rilassato e sono impegnato ad esaminare con attenzione ogni piccolo particolare che passa nel raggio visivo della mia retina, ma quando la superstrada termina e si ritorna ad una normale provinciale con i due sensi di marcia, il viaggio diventa allucinante. I camion carichi viaggiano a velocità ridotta, mentre gli altri sono costretti a superare. Dall'altra parte la cosa é analoga: appena si crea uno spazio tra una colonna e l'altra i più veloci si buttano sulla corsia opposta per superare, rientrando dal sorpasso all'ultimo momento, quindi se non si trova uno spazio tra due autocarri lo scontro frontale diventa inevitabile.
      Il nostro conducente, come un espertissimo torero, usa i fari abbaglianti come una mantiglia parandola davanti al "bisonte" che sopraggiunge, il quale infuriato per l'accecamento, rilancia i suoi raggi luminosi finché il nostro temerario pilota scorge uno spiraglio tra i veicoli che ci precedono e ci si butta a capofitto, assordato dalla tromba dell'automezzo che si vede tagliata la strada dal veloce pulmino e da quella del "mostro" frontale, infuriato per non essere stato tanto veloce da incornarlo con tutto il suo carico di patate e pomodori.
      Io ho paura quando sono in macchina con gli amici, anche se guidano con prudenza, ma in una situazione come questa, dove nessun medico mi aveva prescritto come cura questo viaggio, non ho il diritto di lamentarmi, perciò dico a Marco Polo che mi sdraio un po' sul sedile a riposare e nell'eventualità succedesse qualcosa mi chiami. Nel tempo in cui, sdraiato con gli occhi chiusi, penso che la vita é appesa ad un filo, chiedo sommessamente a LUI che, se mi ha lasciato arrivare fino a questo punto, può continuare a proteggermi fino alla fine per poterla raccontare.
      Per la serie "mai essere tranquilli", verso la mezzanotte sento che la macchina rallenta e si ferma presso un "Autogrill" indiano. Ai bordi della carreggiata, in mezzo alle piante ci sono alcune capanne di legno e paglia, tipo anguriere (le nostre al confronto sono come eccentrici negozi McDonald's), con davanti sedie e tavoli fatiscenti e innumerevoli brandoni di legno, con una rete in canapa dove, dietro pagamento di poche rupie, gli autisti possono sdraiarsi a riposare e prestare il loro corpo alle miriadi di mosche che stanno appostate in famelica attesa.
      Sui banchi fanno bella mostra pentoloni fumanti con tè, caffè e qualcosa d'altro che non ritengo opportuno di farmi spiegare. Per evitare di ingerire bevande che potrebbero provocarmi spiacevoli disturbi intestinali decido per la solita genuina e sicura Coca-cola. Il ragazzo che apre la bottiglia con una gentilezza inusitata, prima di passarmi la bevanda, con il palmo della mano "maculato" passa la bocca della bottiglia per togliere l'eventuale sporco che la macchina imbottigliatrice potrebbe aver lasciato e con il più bel sorriso sdentato che mai indiano abbia fatto, mi passa la bottiglia.
      Forse sarà che incomincio a diventare fatalista, ma se non sono stato coinvolto in incidenti fino a qui non sarà una mano unta a preoccuparmi.

18 Luglio 1996 - Giovedì

       É passata la mezzanotte, il traffico é diminuito, ma le preoccupazioni rimangono; il nostro autista viaggia sempre sulla corsia di destra, qui la circolazione é a sinistra, forse lo fa per non tamponare qualche camion che viaggia a fari spenti. (Ce ne sono un numero considerevole!). Si tocca spesso gli occhi, mette la mano fuori del finestrino e una volta anche la faccia. Dico a Fabrizio di farlo fermare, con il suo inglese é l'unico che potrebbe farsi capire, ma il pilota gli risponde che si fermerà prima delle montagne.
      La circolazione é quasi nulla, attraversiamo una zona con molti posti di blocco e si deve zigzagare attraverso cavalletti di filo spinato. In uno di questi attraversamenti troviamo una pattuglia che ci ferma. L'autista, aveva suggerito a Fabri di affermare che egli era un amico e che ci dava un passaggio perché non aveva il permesso di trasportare le persone. I militari "gentilissimi" ci chiedono cinquanta rupie per lasciarci proseguire, così tutto fila liscio. Per fortuna non incontriamo altre pattuglie altrimenti ci costerebbe un capitale.
      Dopo una sosta per fare benzina presso una pompa, dove non funziona il dispositivo conta-litri, e calcolata la quantità immessa attraverso la lancetta che misura il livello dal cruscotto della macchina, ripartiamo.
      Verso le cinque e trenta sostiamo in una di queste anguriere per il meritato riposo. L'unica bevanda disponibile é un intruglio marroncino che si chiama tè, i più esperti lo chiamano - ciai -. Mi arrischio a berlo. Forse il lungo digiuno aiuta a dare un giudizio favorevole. L'ospitale anfitrione gentilmente ci chiede se vogliamo approfittare delle brande libere, ma noi rifiutiamo, mentre l'autista si corica immediatamente. Fabri si sdraia sul sedile del pulmino, io invece, per non essere divorato dalle mosche, mi metto a passeggiare in lungo e in largo sullo stradone.
      Incomincia ad albeggiare e gli autisti dei camion in sosta si alzano uno per volta da quei giacigli, svegliati dal solerte guardiano allo scadere del tempo concesso per il riposo. Ad uno ad uno, gli automezzi ripartono lasciando al bordo della strada i loro inutili escrementi che un ragazzo armato di scopetto di frasche provvede a ricoprire, scopandovi sopra la terra che era servita per ricoprire le impronte del giorno prima.
      Il nostro pilota si sveglia e gli tengo compagnia nel sorbire un altro intruglio marroncino. Si riparte e, a confronto di quanto successo durante la prima parte del viaggio, nell'inoltrarci fra le montagne, essendo il traffico molto diminuito, ritorna la calma e la serenità.
      Arriviamo a Manikaran alle ore dodici e tutto l'amichevole rapporto che c'é stato durante tutto il viaggio viene meno perché, improvvisamente, il nostro autotrasportatore pretende altre seicento rupie per il bagaglio. Per fortuna Fabrizio gliele ha cantate in inglese con slang in italiano e il poverino deve abbassare la cresta e mettere la coda in mezzo alle gambe perdendo anche le cento rupie di mancia che eravamo disposti a elargire.
      Fabri conosce delle persone che ci alloggiano in casa di "un amico, di un amico". Un ragazzotto sdentato prende sulle spalle un cassone di quaranta chilogrammi come fosse una fascina e, attraverso una ripida salita dove io senza bagagli sono costretto ad attaccarmi ai sassi per proseguire, ci porta in casa il fardello. Per il secondo però si munisce di una corda per calzarlo come uno zaino e, seduto per terra con due amici che sollevano lui e l'involucro, riparte come uno scoiattolo su per l'erto sentiero.
      La stanza che ci ospita é una spaziosa tre metri per tre, su una parete sono disposte alcune assi che formano una graziosa libreria, ma siccome non ci sono volumi noi mettiamo le nostre provviste e i nostri ammennicoli in un grazioso disordine che creano subito un senso d'ambiente personalizzato. Una finestra con un'apertura di centimetri quaranta per quaranta lascia allargare lo sguardo sui tetti sottostanti e sul fiume che scorre imponente con un rumore assordante, ma che, una volta assuefatti non si sente più. C'é un divano letto in puro legno duro coperto con un basso e gnoccoso materasso e sull'ultima parete, in un angolo, é appeso uno specchio di centimetri dieci per venti, che dà una nota di lusso e comodità
      Dando uno sguardo a tutto l'insieme, con una rapida valutazione, riscontriamo che, stendendo per terra il nostro materassino, potremmo raddoppiare l'abitabilità. E questo é quello che volevamo! Per i servizi siamo fortunati: dietro la casa, arrampicandoci su dei sassi abbastanza ripidi e su un terreno un po' scosceso, si raggiungono delle piccole piattaforme riparate dove la decenza é salva. L'acqua é carente, ma se tutte le volte che scendiamo sulla via principale ne portiamo una bottiglia, il fabbisogno notturno é soddisfatto.
      Scendiamo subito perché sono già le quattordici e, dopo un digiuno forzato da queste vicissitudini qualunque cosa non liquida da mettere sotto i denti ci fa correre la saliva in bocca. Meraviglia delle meraviglie, entrando in uno dei tantissimi ristoranti che affiancano l'arteria principale (ristoranti della capienza massima di dieci-dodici persone) notiamo sul menù la presenza della cucina, indiana, cinese, internazionale e, udite udite, italiana. L'occhio esperto trova subito le tagliatelle con formaggio e pomodoro che vengono immediatamente ordinate per placare quel languorino che si faceva sempre più prepotente. Sono un po' scotte, ma il sapore é gradevole. Ordiniamo anche un'omelette dalla cucina internazionale, innaffiando il tutto con Coca-cola perché gli indiani, non fanno uso di bevande alcoliche, e infine una buona tazza di caffè all'italiana ci fa tornare in mezzo alla civiltà.
      Conosciamo una signora di Milano che sta arredando e allestendo un analogo locale a pochi metri da questo, proprio sopra il fiume che unirà oltre al piacere del palato anche quello della vista; siccome verrà pronto fra qualche mese per il momento ci prenotiamo solo due posti sul belvedere.
      Terminato l'abbondante pasto Fabri vuole mettere a prova la mia capacità di camminatore e decidiamo di percorrere quattro chilometri di sentiero che, attraverso il bosco, scende a valle, costeggiando l'imponente fiume Parvati. Lui giudica la mia andatura un po' troppo lenta e io mi giustifico col fatto che non ho allenamento. Dentro di me penso che sto mentendo spudoratamente. Con i quattro chilometri di discesa bisogna sommare anche i quattro di salita, fatti seguendo la strada camionabile e a questo punto comincia anche il mal di piedi, non avendo l'abitudine di portare gli scarponi. Stanchi, ma soddisfatti, ci apprestiamo a consumare la cena in un altro ristorante con altre pietanze anch'esse abbastanza gustose.
      Fabri si informa per trovare i cavalli per portare i due cassoni in un paesino distante 15 chilometri. Non sono disponibili e pertanto domani rimarrà ancora qui con me, avendo deciso che la soluzione migliore é quella di lasciarmi un po' ad acclimatarmi in questo villaggio.

19 Luglio 1996 - Venerdì

      Ci svegliamo alle otto e Marco Polo é un po' incazzato perché i cavalli bisogna andarli a cercare al mattino presto e a quest'ora sono già tutti usciti. Con un suo amico che abita nella casa di fronte alla nostra vanno alla ricerca di qualche cavallante disponibile e io, prevedendo che dopo tanti giorni mi occorra un posto un po' appartato, m'incammino lungo un sentiero, ma data l'ora un po' avanzata c'é un traffico molto sostenuto e devo rinunciare.
Tornato a casa e sdraiato sul duro giaciglio, meditando su niente mi addormento. Verso le quattordici Fabrizio arriva a chiamarmi per andare a mangiare. Al pomeriggio non facciamo niente e per passare il tempo passeggiamo, per il piccolo paese, alla scoperta dei posti più suggestivi e, bighellonando per le vie del minuscolo villaggio, tiriamo l'ora della cena. Nel modesto locale incontriamo altri italiani e la serata si protrae fino alle ventitré.
Risalendo il ripido viottolo per tornare nella nostra alcova, alla luce della lampadina portatile, provo una certa rabbia nello scansare i mucchietti di sporcizia che i nostri predecessori hanno sfacciatamente deposto lungo il sentiero. Domani Fabrizio salirà al paesino di Kalga con tutti i bagagli mentre io resterò a poltrire in questo borgo.

20 Luglio 1996 - Sabato

      Ore sei, l'amico di Fabri bussa alla porta, é il segnale. Bisogna alzarsi. In un battibaleno sono pronti, Marco Polo tenta di caricarsi sulle spalle uno dei cassoni per portarlo fino all'incrocio dove passano i cavalli. Fortunatamente il padrone di casa nota la sua manovra e corre in suo aiuto mettendoselo, lui, sul groppone per scendere i ripidi gradini fino al crocicchio con la mulattiera. (Se avesse fatto Fabrizio il totalizzatore avrebbe pagato otto a uno).
Alle sette scendo per andarmi a lavare alla fontana e trovo ancora i due "viandanti" in attesa delle cavalcature; non é che sono in ritardo ma caricare la lunga fila di muli e cavalli prende molto tempo. Non tardano ad arrivare e in mezzo a quelli già "carichi" ce ne sono due disponibili.
Quando il cavallante tenta di caricare il massiccio involucro, l'animale da soma tenta di scappare, creando uno scompiglio in mezzo alla lunga teoria di quadrupedi tanto che per poterlo caricare sono costretti a legargli le zampe anteriori. Alla fine partono.
      " Ciao, buon viaggio ".
Una veloce sciacquata al rubinetto della fontana fa sparire anche i segni di commozione per il breve e temporaneo distacco
      Mi reco al ristorante per il classico caffè italiano, poi, proseguendo lungo il corso, arrivo albergo Parvati dove, con la modica cifra di quindici rupie, si può affittare un locale-doccia per venti minuti. Sono delle stanzette quadrate di tre metri per tre, il pavimento ed i muri sono rivestiti con piastrelle azzurre, ma nella zona dove l'acqua spruzza con maggior intensità sono diventate marroni per il calcare, sono anche pericolose per quella leggera patina scivolosa che si forma per carenza di pulizia. Comunque la bocchetta é alimentata da una sorgente d'acqua caldissima e solforosa che, miscelata con quella fredda una volta raggiunto il punto di tepore giusto e irrorata su tutto il corpo, la fa diventare tonificante e ristoratrice.
      Dopo il bagno faccio una breve passeggiata sulla riva opposta del fiume per ammirare il borgo illuminato dai cocenti raggi del sole mattutino e prima che il caldo cominci a farsi sentire ritorno all'appartamento e mi metto ad aggiornare questi appunti. Lavoro che si protrae fino alle sedici circa e, a questo punto, non mi rimane altro da fare che scendere fra i mortali per consumare la cena, così da poter ritornare prima che faccia buio a riposare le stanche membra.

21 Luglio 1996 - Domenica

      Come gli indigeni del Borneo che, prima di fare un qualsiasi lavoro guardano il cielo e a secondo di come sono disposte le nuvole o di come volano gli uccelli decidono il da farsi, aprendo gli occhi, ma restando ben avvoltolato nel sacco a pelo, volgo lo sguardo verso la finestra e, attraverso i vetri impolverati, guardo le cime delle montagne e traggo le mie conclusioni.
      Alle sei il cielo é terso e allora decido di rimanere ancora a letto; più tardi prenderò tutti i panni sporchi e andrò al fiume a risciacquarli. Prima di alzarmi riguardo verso la finestra e, vedendo una piccola nuvoletta solitaria che si staglia all'orizzonte, stabilisco di rimandare ancora un po'.
      Così di rimando in rimando arrivano le dodici e scendo a mangiare. Incontro diversi amici di Fabrizio che sono scesi da Kalga e, quando mi vedono, mi riconoscono e mi riferiscono che Marco Polo ritarderà qualche giorno il ritorno. Poco male, me la cavo benissimo anche da solo. Dopo pranzo, armato di macchina fotografica, rifaccio il giro dell'altro giorno e, a un chilometro fuori del paese, mi si avvicinano due giovani che m'interpellano in inglese. Rispondo che parlo solo l'italiano e loro mi fanno capire che su in montagna hanno incontrato mio figlio. Evidentemente devo essere l'unico padre turista di tutta la valle.
      Passo vicino ad una casa di contadini e saluto con il classico "namasté", la famiglia seduta all'ombra di una pianta. Rispondendo al mio saluto mi fanno cenno di avvicinarmi. Parlo solo italiano, allora cominciamo una lunga conversazione a gesti. La moglie, vedendo la macchina fotografica, mi fa capire che vuole essere fotografata e desidera anche inforcare i miei occhiali. Si mettono in posa, il marito, in piedi con un badile in mano, la moglie, agghindata con le mie lenti, seduta su un tronco d'albero e il bambino di due o tre anni, con il mocchio al naso, in mezzo a loro. Clic. Fatto!
      Vogliono darmi l'indirizzo, ma io faccio capire che ripasserò l'anno prossimo e gliela porterò di persona. Mi vorrebbero offrire anche qualcosa da mangiare, ma gentilmente rifiuto.
      Proseguo la passeggiata e mi sembra che questa volta il percorso sia meno faticoso, ma sarà perché da solo vado più adagio. Rientro in paese e mi faccio una bella doccia calda e al ristorante mi gusto un buon risottino con le banane, innaffiato con Coca-cola. Alle otto e trenta, sono pronto per dormire. Buona notte.

22 Luglio 1996 - Lunedì

      Oggi ci sono le nuvole basse che coprono le cime delle montagne, ma verso le otto torna il sole. Volente o nolente metto tutte le magliette nel sacco e percorro un paio di chilometri di mulattiera per arrivare dove, da una valle laterale, scende uno dei tanti emissari che scarica una bell'acqua azzurra nel fiume Parvati alimentando le rapide torbide. Trovo una piccola insenatura e incomincio a lavare tutta la mia roba quando due indiani, armati di macchina fotografica, mi chiedono di mettermi in posa per immortalarmi.
      Terminata l'attività del lavandaio, stendo, sopra un grosso sasso, tutti i miei indumenti ad asciugare ai caldi raggi del sole ed ai suoi piedi mi metto a leggere un libro che descrive gli itinerari dei trekking nella zona del Ladak. La mia mente incomincia a fantasticare sulle imprese che, tra qualche giorno, andrò a realizzare. Mentre sono assorto in questi pensieri scorgo in lontananza un gruppo di Sick e da questi si staccano due ragazzi che vengono verso la mia roccia e incominciano a chiedermi qualcosa.
      Rispondo che non capisco, ma essi continuano con domande incomprensibili al che io rispondo in perfetto milanese
      " ..... che possono andare a.... che tanto io non comprendo un c.... di quello che dicono".
      Siccome essi insistono e uno di loro da una specie di cannuccia che teneva in mano estrae uno stiletto lungo una trentina di centimetri tracciando per terra degli strani geroglifici, raccolgo tutti i miei panni, che nel frattempo si sono asciugati e, quatto quatto torno a casa.
      Verso le quindici, avendo sete, scendo in paese e oltre alla Coca-cola, ricordandomi che l'altro giorno avevo mangiato delle banane con latte cagliato e mandorle, cerco di ordinarle di nuovo, ma mi ritrovo un frappé di banane che con la coca non ha niente da spartire.
      Dopo una breve passeggiata per questo paesino che oramai conosco a menadito e anche i locali conoscono me perché sono l'unico vestito diversamente, vado al solito ristorante, dove incontro un simpatico comasco e, mentre mangio un bel piatto di maccheroni al pomodoro, parliamo del più e del meno fino verso le diciannove e trenta, poi io salgo al mio appartamento approfittando della luce non ancora spenta della sera che mi permette, durante la salita del sentiero, di schivare tutte le sporcizie che altri sono abituati a depositare dove capita. Sono le venti e trenta, fumo l'ennesima sigaretta e mentre dal finestrino vedo le luci delle catapecchie sottostanti non mi resta che spegnere la lampada e dormire.

23 Luglio 1996 - Martedì
É circa la una dopo mezzanotte quando un rumore superiore a quello del fiume mi sveglia. Apro la porta e vedo che sta cadendo una grande quantità d'acqua dal cielo. É il monsone che scarica le sue cataratte. Mi avevano tanto parlato di violenti temporali che in questa zona sono continui, ma siccome dopo sei giorni dal mio arrivo non ne ho visto nemmeno uno, mi sono quasi dimenticato.
      Intorno alle cinque del mattino un bisogno fisiologico mi costringe ad alzarmi e siccome continua a piovere indosso la mantellina ed esco. Non c'é bisogno che m'arrampichi sulle rocce che ci sono dietro la casa. Mi accovaccio appena fuori della porta e il rivolo d'acqua che scende dalla stradina provvede a mantenere pulito il selciato.
     Continua a piovere fino alle nove del mattino, poi il cielo rimane coperto con nuvole più chiare che promettono una giornata asciutta. Sono contento per Fabrizio perché, se dovesse tornare, almeno non si bagna.
            Questa mattina il padrone di casa era intento a raccogliere con le mani lo stallatico e, mettendolo in un secchio, lo portava nei pressi di una piccola piazzola e appallotolandolo formava delle grosse pagnotte che poi lascia asciugare all'aria per farle seccare per poi usarle come combustibile nelle giornate invernali. Mentre si strizzava le mani facendo finire nel secchio quello che gli rimaneva appiccicato mi é apparso in fugace visione quando un paio di giorni prima, bussando alla porta, ci aveva offerto due fumanti tè caldi che noi avevamo bevuto con riconoscenza. É stato solo un flash!
      Da quando é partito Fabrizio sapendo che non parlo né l'Indi né l'Inglisc, ci salutiamo solo con dei sorrisi e dei cenni con la mano. Oggi deve essere proprio in vena perché, mentre é indaffarato con questi secchi, ne ho contati sei, mi parla e mi chiede informazioni additandomi delle piante che mi sembrano zucchine. Al mio scuotere del capo, che significa che non ho capito, ricomincia a ripetere più lentamente, aiutandosi anche con i gesti delle mani inzaccherate. Poco distante la moglie, che aveva assistito, si avvicina e anch'essa coadiuva il marito a spiegarmi ciò che loro capiscono, ma che per me é solo indiano. Alla fine un bel sorriso e, per evitare altre complicazioni, mi ritiro nella mia casetta.
      Oggi non ho fatto proprio niente. Fin verso le tre del pomeriggio é stato nuvoloso e, disteso sul materassino, ho passato la giornata a leggere il libro "India del nord" consultando le cartine geografiche; siccome Fabri non arriva decido di scendere a mangiare. Ordino un'omelette al cioccolato e per secondo, un'omelette al formaggio.
      L'altro giorno camminando per il bosco ho trovato un ramo bello dritto e l'ho usato come bastone; siccome non sono abituato a farne uso mi sono procurato una fiacchetta al pollice della mano destra. Ieri nel lavare i panni la vescica si é rotta, ma io non me ne sono curato. Questo pomeriggio, sentendo un formicolio al pollice, mi sono accorto che dove c'era la cicatrice il dito é diventato rosso. Sono subito tornato a casa e ho disinfettato con Citrosil liquido; purtroppo tra tutti i medicinali che riempiono la borsa non ho trovato nemmeno un cerotto. Prima di partire Silvana ne aveva preso una scatola di quelle contenenti tutte le misure, ma Fabri aveva detto che ci voleva quello in nastro mentre io avevo detto che ci volevano le bende. Morale sono qui senza neanche una garza.
      Mi sento un po' demoralizzato, leggendo gli itinerari dei trekking e immaginando le difficoltà che dovrò superare avverto come una sensazione di sfiducia che svuota l'entusiasmo assaporato in partenza, anche perché ho un callo sotto il piede sinistro che mi obbliga a stare attento a come metto il piede. Domani proverò a mettere sotto qualcosa per attutire il dolore. Speriamo bene!.
      Sono le diciannove e trenta e sono già a letto.

24 Luglio 1996 - Mercoledì

      Ho passato una notte insonne: i sudori freddi e qualche bruciore di stomaco mi hanno ricordato che prima della partenza avevo pensato di portare l'Antonetto che, siccome si poteva prendere anche in tram, forse lo potevo prendere anche in India. Non l'ho!. Questa mattina stando disteso sul letto, sembrava mi girasse la testa, segno evidente di una debolezza alimentare. Alle otto scendo e ordino un caffè e latte con un toast al burro, alle nove un altro caffè e latte con due uova sode e finalmente comincio a sentire lo stomaco più tranquillo.
      La giornata é nuvolosa e ogni tanto piove. Comodamente seduto alla finestra del ristorante osservo che anche qui gli indiani, quando piove, si mettono al riparo sotto le grondaie. Tra un acquazzone e l'altro mi reco al solito albergo per farmi una doccia. Indosso la maglia che uso per coprirmi di notte e, siccome puzza un po', mi metto sotto il getto dell'acqua con l'indumento indosso. Do una bella insaponata prima al diritto e poi al rovescio e la lavatura é belle che fatta.
      Dopo il bagno, rilassato e tutto pimpante, entro in un altro ristorante e a caso scelgo un "maximum maccheroni", è un bel piatto di maccheroncini con tante verdure ricoperte con formaggio fuso. Adesso esagero, o mangio poco o mi abbuffo. Bisogna che mi dia una regolata.
      Rientro a casa per mettermi gli scarponi e andare a fare un giro per smaltire l'eccesso alimentare, ma il cielo sempre coperto con nuvole basse non presagisce nulla di buono. Mi stendo sul materassino e aspetto. Ore quindici, parto per un giro, altrimenti questa notte la passo ancora in bianco.
      Prendo la mulattiera che sale verso Kalga, dove é salito Fabrizio, così se dovesse tornare, farei il viaggio di ritorno in compagnia. Dopo un'ora precisa di salita, mentre medito di fare dietro front, ecco due viandanti che sbucano da una curva. Sono loro!
      Adesso Marco Polo é andato a fare una doccia, poi quando ritorna andremo a mangiare un boccone da qualche parte. Domani dovremmo partire per Manali poi proseguiremo in Ladak.



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