Trekking

25 Luglio 1996 - Giovedì

Un proverbio della Val Parvati recita così "Giornata bagnata, partenza fortunata". Sono le sei e piove. Dobbiamo partire e questo complica le cose. Rimango a letto fino alle otto poi chiamo Fabrizio; dobbiamo riempire i due zaini da montagna con tutti i nostri indumenti, tenda, sacchi a pelo e cianfrusaglie varie. Impieghiamo quasi un'ora, sono abbastanza pesanti, ma per fortuna li dobbiamo portare solo fino all'autobus. Durante il tragitto ci fermiamo a fare colazione a base di caffè e toast al burro, siccome non ci sono corriere al parcheggio, dobbiamo aspettare fin verso le undici. C'é stata un'alluvione più a valle e dovremo trasbordare perché il fiume ha distrutto la strada.
La discesa é emozionante, com'essere sulle montagne russe, la strada é a mezza costa e segue il tortuoso fiume Parvati con strapiombi di quasi cento metri. Il pullman scende abbastanza veloce ed essendo la strada bagnata e fangosa, ad ogni curva dà l'impressione di scivolare e fare un bel tuffo. Chi soffre il mal d'aereo su questo mezzo sarebbe colpito da infarto. Mentre salivamo, alcuni giorni fa, non ci accorgemmo del precipizio, perché viaggiavamo su un taxi che era più basso, eravamo dalla parte della montagna, non si vedeva l'acqua, ed essendo in salita la velocità era ridotta.
Ora siamo in fondo al pullman e ad ogni sobbalzo, che una buca provoca, si ha l'impressione di essere in un vuoto d'aria. Il paesaggio é immenso come tutta l'India che, essendo tanto grande, fa sembrare ogni cosa, anche la più piccola, un'enormità
Arriviamo al punto fatidico dove dobbiamo trasbordare. Una lunga colonna di corriere, macchine e motociclette é ferma nell'attesa che sia ripristinata la viabilità. Scendiamo e ci avviamo con passo sicuro, dove la strada é interrotta; sulle spalle abbiamo i nostri sacchi gonfi di materiale e all'occhio dei locali sembriamo due alpinisti avvezzi a tutte le più difficili asperità.
In quel punto la via attraversa il fiume a livello dell'alveo e, quando tutto é normale, l'acqua passa sotto il manto stradale attraverso grossi tubi di cemento. La gran quantità di pioggia caduta l'altra notte ha ingrossato a dismisura il fiume che ha letteralmente cancellato il manto stradale, formando due torrenti che scorrono impetuosi fra le rive. Il centro c'é ancora perché un grosso masso ha fatto da spartiacque.
Non c'é la possibilità di passare neanche a piedi perché la corrente, dalla nostra parte, ha scavato un profondo canale largo circa quattro metri e l'acqua scorre vorticosa. In mezzo al fiume c'é un trattore-spazzaneve che, con la sua pala, cerca di ammucchiare i detriti del fondo per restringere il canale, ma con poco successo. Sulle due rive i viaggiatori dei vari mezzi sono seduti al ciglio della strada nell'attesa che si ripristini un guado.
Arriva un grosso caterpillar che, con la sua mole e l'enorme pala riesce a collocare un grosso macigno nell'avvallamento a circa quattro metri dalla nostra riva. Siamo molto titubanti sull'esito del lavoro e quasi convinti che dovremo ritornare indietro.
A questo punto vediamo che operai e volonterosi legano delle funi ad una grossa putrella d'acciaio larga venti centimetri e dal peso di qualche quintale e tutti insieme, alzando e tirando piano piano, la fanno scorrere su quel torrente furioso. Dalla riva i "curiosi" con grida e gesti delle braccia incitano gli addetti alla sistemazione nella loro non indifferente difficoltà.
Non c'é disperazione per la calamità che ha isolato la valle dal resto dell'India, non c'é appello alla protezione civile che organizzi colonne di soccorso per la popolazione rimasta isolata, ma una partecipazione quasi gioiosa nell'essere presente.
Dopo appena due ore il guado é fatto. Un applauso e via a gruppi composti, prima da una parte poi dall'altra, in fila indiana (é proprio il caso di dirlo), attraversano il provvidenziale ponticello per raggiungere i vari pullman che li porteranno alle loro destinazioni. Il problema é risolto!
Sono passati tutti, dal più piccolo, tenuto in braccio dalla mamma, al meno sicuro che appoggia la mano sulle spalle di chi lo precede, ad uno con una stampella che rischia di cadere ma che finisce bene.
In un angolo io sono terrorizzato, la passerella é troppo stretta e l'acqua sotto corre troppo velocemente con un rumore assordante e ho paura di essere attirato nel gorgo. Il problema non é cadere e fare un bagno, ma, data l'impetuosità della corrente, ci si può rimanere per sempre ed essere raccolti dagli stessi volonterosi a qualche centinaio di metri più a valle. Fabrizio insiste perché mi appoggi a lui, ma io penso che se lo trascinassi nella caduta il cinquanta per cento della famiglia perirebbe in India.
Il coordinatore dei passaggi, in pratica colui che ferma una sequela di pedoni per dar modo all'opposto gruppo di oltrepassare l'ostacolo, quando il traffico é smaltito, mi fa segno di passare e io rispondo giungendo le punte delle dita e chiudendole e aprendole ritmicamente come il lampeggio di un semaforo, che ho una fifa della Madonna. Il sorvegliante si mette a ridire e continua ad espletare la sua mansione.
Finito il passaggio dei pedoni cominciano ad arrivare le motorette, "vespe 150", che due ragazzi, posti di fianco, sollevano da terra e caricano sulle spalle ad un terzo, come fosse un sacco di patate, il quale attraversa la passerella. Fabri incomincia ad incazzarsi e m'incita a passare, dice che sono un fifone, che a fare il trekking di questi guadi ne incontreremo a centinaia e che se non attraverso e dovessimo tornare indietro nel Ladak non ci andremo più.
Prendo il coraggio a due mani insieme a dieci rupie e carico lo zaino sulle spalle ad un portatore che é appena passato con una vespa, gli do la mano e, piano piano, comincio la traversata senza guardare in basso. Sono molto bravo perché arrivo indenne sull'altra sponda.
Questo é stato il primo guado, ora bisogna fare il secondo. Non hanno ancora messo nessuna passerella, ma il livello dell'acqua é più basso, arriva solo fino al ginocchio e, levando le scarpe e i calzoni, o bagnandoli, si può oltrepassare. Mi prendo altre dieci rupie e faccio capire al mio portatore di prendermi sulle spalle e traghettarmi dall'altra parte. Accetta di buon grado tra i lampi dei flash dei turisti-fotografi che riprendono l'attraversata e il sorriso dei locali che assistono alla scena.
Ben attaccato al collo del mio Caronte con scarponi, calzoni, e giacca in Goretex arrivo d'altra parte, mentre Fabrizio, che non ha problemi, fa tutto da solo. Nell'emozione del momento e nel concitamento dell'azione non ho neanche pensato che potevo farmi riprendere con qualche foto ricordo.
Tra i vari autobus, che sostano al bordo della strada, ce né proprio uno che va diretto a Manali e riusciamo a capire che partirà verso le quindici. Sono solo le quattordici e, passata la prima emozione, decido di impiegare quest'ora ritornando verso il guado e scattare qualche foto.
Anche dove l'acqua é bassa hanno messo una passerella e senza più nessun timore la supero per portarmi nel centro del fiume per meglio fotografare. Vedo la gente intorno che mi fa strani gesti indicando qualche cosa alle mie spalle e girandomi vedo Fabri che grida a squarciagola che il pullman parte. Sono costretto a tralasciare la mansione di fotoreporter per ritornare trafelato sullo scassato bus che ha già acceso il motore e mi sta aspettando. Gli orari degli autobus in India sono a discrezione degli autisti. Partono e sostano a secondo dell'umore degli stessi.
Il tragitto continua lasciando la valle del fiume Parvati per risalire quella del Beas River passando per Buntar, Kullu, Patlikuhi ed arrivare ai 2050 metri di Manali.
La strada é tutta un cantiere perché dalle montagne scendono numerosi torrenti che, durante il periodo dei monsoni, s'ingrossano e straripando creano degli smottamenti che cancellano i tratti di strada sottostanti. Innumerevoli uomini e donne, nei punti più critici, provvedono a creare una pista di fortuna per il passaggio, riempiendo le buche con sassi preventivamente spaccati a mano con grosse mazze ai quali è data una forma piatta come lastre. Il pullman attraversa molti tratti allagati che a sentire il racconto di turisti passati precedentemente, dovrebbero essere paurosi. Per me, dopo il guado, sono insignificanti, anche perché, quando s'incontra una grossa asperità tutta le altre diventano normale routine.
Arriviamo a Manali verso le diciotto e Marco Polo per addolcirmi la pillola mi porta in un ristorante cinese con tavoli ricoperti da tovaglie a quadretti, bianchi e rossi, e servito da camerieri che ti versano l'acqua nei bicchieri quando sono vuoti. Una cosa da città!
Con il moto risciò saliamo per qualche chilometro fino a Hold Manali. Abbiamo l'indirizzo di una persona che potrebbe ospitarci, in una villa situata in mezzo ai campi, ma per arrivarci dobbiamo attraversare a piedi alcuni cortili di case e stalle con un bel profumo di campagna che mi ricorda quand'ero bambino a casa di mio nonno.
Una camera spaziosa ci accoglie con un bel letto matrimoniale e per quanto riguarda i servizi finalmente ci sono. Si trovano in un angolo del giardino in un casotto con reparto doccia e lavandino. Alle venti e trenta siamo già coricati, stanchi, ma orgoglioso da parte mia di aver, superato quella grand'avventura del guado.
 
 
 

26 Luglio 1996 - Venerdì

Ci alziamo alle otto e scendiamo in città con sosta in un punto di ristoro per un caffè latte e briosce, che fanno bella mostra sul banco e, a vedere il numero di mosche che le attorniano devono essere veramente buone. Giriamo per le viuzze con i negozi che espongono le loro mercanzie e avendo necessità di comperare un gilet per la sera, ci soffermiamo a consultare i prezzi.
Sono subito attratto da un giubbetto senza maniche con un'infinità di tasche e cerniere, ben sedici, che avevo notato all'aeroporto di Milano e di Francoforte, del costo di 150.000 lire e che qui é in vendita a 500 rupie, (25.000 lire); é un po' piccolo allora decidiamo di fare un giro per gli altri negozi, ma di quel tipo non ne troviamo più. Fabri vede uno zainetto con molti scomparti, allora lo comperiamo per mettere le giacche a vento che ci siamo portati per paura che si metta a piovere, però in questo momento é tornato il sole e il caldo si fa sentire.
Ritorniamo al negozio del giubbetto perché, essendo l'unico, non vorrei che qualcuno più accorto me lo portasse via, lasciandomi con un bel palmo di naso. Alle undici e trenta telefoniamo a Milano per rassicurare il resto della famiglia che stiamo bene, poi andiamo in uno di quei negozi cinesi che fino a qualche giorno fa mi faceva chiudere lo stomaco e tappare le narici, ma piano piano ci si fa l'abitudine a tutto e ordiniamo due spaghetti vegetable.
Per finire le nostre spese in città Fabri acquista la stoffa per farsi fare tre paia di pantaloni di taglio locale per un totale di cinquecento rupie (25.000 lire), ci rechiamo anche da un sarto per farceli confezionare per il giorno dopo, centoventi rupie (6.000 lire).
Facciamo una camminata fino a Vashisht tre chilometri fuori Manali quindi, per mettere alla prova le mie capacità d'arrampicatore, saliamo per un ripido sentiero in mezzo a un bosco, ma la salita dopo più di un chilometro comincia a farsi sentire e per non aggravare troppo la mia resistenza, decidiamo di scendere.
É sulla strada del ritorno che, in un punto ripido del sentiero fangoso, ho fatto una scivolata di una decina di metri, fermandomi aggrappato a un cespuglio fortunatamente non di rovi. A questo punto Fabri incomincia a intrattenermi con una serie di lezioni riguardanti il modo di mettere i piedi in discesa con esaurienti istruzioni per non finire in ospedale. Incomincio a dubitare delle mie capacità montanare!
Ritornati al centro abitato ci fermiamo a bere un buon frappé di mango poi, lemme lemme, torniamo a Manali dove ci fermiamo per gustare una pizza. Fabri n'ordina una con pomodori e aglio mentre io rimango ammaliato dall'affascinante nome "capricciosa". C'é di tutto, fuorché quello che mi piace. In ogni modo tutto finisce bene e alle venti siamo già a letto.
 
 
 

27 Luglio 1996 - Sabato

Questa mattina sveglia alle otto, si mette tutto nei tre sacchi e, bardati come sherpa, scendiamo a Manali. Dopo aver ritirato dal sarto i pantaloni ci rechiamo alla stazione degli autobus per prendere quello che ci porterà a Kyelang. Nessuno parla inglese e anche Marco Polo é un po' in difficoltà. Dopo varie ricerche ne troviamo uno che ci trasporta fino a Tandi, di lì, con mezzi di fortuna, dovremo percorrere otto chilometri per arrivare a destinazione.
Alle dieci e trenta partiamo a bordo del Local Bus, la salita al Rohtang Pass (3980) é affascinante, si parte da un valle piuttosto larga e si comincia a inerpicarsi con una serie interminabile di tornanti fino al passo che non arriva mai. Le alte montagne sono coperte da nuvole e man mano che saliamo ci troviamo in mezzo ad un ovattato paesaggio autunnale. Attraversiamo una lingua di ghiaccio, dove si passa come in una trincea e i turisti che fanno il viaggio in taxi sono fermi per fotografare. In cima al passo l'autobus sosta per dar modo all'autista di fare colazione e a noi di bere la solita Coca-cola.
Durante la discesa, il cielo si é schiarito e possiamo ammirare le enormi montagne che ci circondano. In fondo alla valle scorre sempre un fiume, dalle acque fangose, mentre dalle pendici degli alti monti, torrenti limpidissimi scaricano le loro acque che in certi punti invadono anche la sede stradale, costringendo i mezzi di trasporto a superare infiniti guadi. Alle ore diciassette scendiamo dal Bus e incominciano gli otto chilometri previsti con mezzi di fortuna.
Caricati sulle spalle i pesanti zaini, c'incamminiamo lungo la strada asfaltata che, in leggera salita, ci porta verso il paesino che vediamo in lontananza. Avremmo viaggiato volentieri anche in taxi, ma non passa nessuno. Fortunatamente la montagna che ci sovrasta crea una zona d'ombra, ma dopo pochi chilometri siamo bagnati di sudore come se fossimo caduti nel fiume. A 3000 metri d'altezza, il peso dello zaino diventa un macigno, io comincio a rallentare e ad allontanarmi sempre più da Fabrizio, il quale si ferma e decide di caricarsi sulle spalle i due zaini più pesanti e lasciare a me il più leggero. Ma anche lui, dopo qualche chilometro, é costretto a fermarsi per scambiarci i pesi.
Mancano due chilometri al paese quando la strada asfaltata, proseguendo in leggera salita per duecento metri, attraversa il ponte e, continuando in lieve pendenza, arriva in alto al paese, mentre un sentiero scende per attraversare, tramite un ponticello, lo stesso fiume per poi continuare quasi pianeggiante arrivare in basso all'abitato. Fabri opta per questa soluzione, io sono contrario perché sulla strada asfaltata faccio meno fatica, ma sono costretto ad accettare. Attraversato il fiume, la stradina é interrotta per una frana e bisogna superare una scarpata di terra franosa con sotto il fiume turbolento.
Vorrei rifiutarmi di proseguire, ma Fabri incomincia ad alterarsi, mi prende lo zaino e imprecando m'ingiunge di passare. Lo faccio camminando a quattro zampe, attaccandomi alla polvere del precipizio, ma se anche questa é fatta mi devo sorbire una serie d'improperi per il rischio che corro nel fare certi movimenti. Arrivo al borgo che sono stravolto, a tremiladuecento metri la fatica si fa sentire ad ogni passo.
Anche se non soffro per l'altitudine é la forza fisica che lascia molto a desiderare, in ogni modo arriviamo alla decisione che, se anche non facciamo trekking attraversare queste regioni con gli autobus locali é un'avventura irripetibile. Arriviamo in albergo alle diciannove e dopo una doccia ristoratrice ceniamo al ristorante dell'albergo e alle venti e trenta siamo già pronti per andare a nanna.
 
 

28 Luglio 1996 - Domenica

Dobbiamo fare una sosta forzata perché non ci sono autobus che partono per Leh. Il primo parte alle quattro di domani mattina e cosi la giornata la passiamo seduti nel giardino dell'hotel a prendere il sole, non prima però di aver fatto il bucato a tutte quelle magliette che ieri abbiamo irrorato di sudore.
Ho provato la mia prima delusione quando, nel cambiare il rotolo della macchina fotografica, mi sono accorto che si erano rotti i primi dentini della pellicola e che il nastro non aveva proseguito nella corsa così non ho nessuna documentazione di questi dodici giorni di viaggio. Speriamo di non perdere questa rubrica che mi tiene compagnia con il ricordo del tempo trascorso.
C'é in programma una levataccia, sono solo le sedici e trenta e per finire la giornata dobbiamo preparare gli zaini, andare a cena e sperare di svegliarci alle tre di questa notte per non perdere l'autobus perché l'albergo ci costa un capitale.
 
 
 

29 Luglio 1996 - Lunedì

Bip - bip - bip. Sono le tre, ci si alza senza problemi, dovremo fare un viaggio della durata di quindici ore per arrivare a Leh e dovrebbe essere un controllo alla mia capacità di sopravvivenza alle alte quote, dovendo superare in colle di oltre 5.300 metri. A parte la fatica per portare gli zaini fin dove sosta l'autobus, distante un chilometro, abbiamo i posti in quarta fila perché al momento della prenotazione non n'erano disponibili altri. Arriva una coppia di tedeschi che a furia di parlare come fanno i mangia Krauti, di spostare zaini, borse e valigie vanno ad occupare due posti vicini all'autista e, con nostra meraviglia, notiamo pure che pagano il biglietto al controllore non avendo la prenotazione. Fossero stati dei locali avremmo accettato nostro malgrado, ma quei due mangia Kartofen ci sono rimasti sulle palle tutto il viaggio.
Ore quattro precise si parte, é ancora notte e non si vede niente. Il viaggio dovrebbe diventare affascinante quando la strada s'inoltrerà tra le alte montagne costeggiando precipizi vertiginosi. Verso le cinque ci dobbiamo fermare ad un posto di polizia, perché tutti gli stranieri devono far registrare il loro passaggio attraverso la regione. L'addetto all'operazione dorme sotto la tenda ufficio che si trova al bordo della strada e impiega un po' di tempo prima di mettersi a scrivere sul suo brogliaccio tutto sgualcito i dati dei nostri passaporti; poi, alla fine, sgancia la corda che attraverso la strada ferma il traffico e possiamo proseguire.
Abbiamo percorso pochi chilometri quando, superata una curva, c'imbattiamo in una cascata d'acqua che scende da una valletta e invadendo la sede stradale continua la sua corsa andando a terminare nel fiume sottostante. L'autista é un po' perplesso, ma alla fine decide di passare. Il pesante mezzo sobbalza sui sassi che la piena del fiumiciattolo ha deposto sul nostro percorso e improvvisamente rimane incastrato in una buca dell'asfalto che la violenza della corrente ha scavato. Un attimo di panico, poi tutti scendiamo per dar modo al veicolo, più leggero, di superare l'ostacolo. Nulla da fare, più tenta di uscire, più sprofonda.
Sono le sei e trenta: la strada che porta al passo Baralacha (4,650 metri) a quest'ora non é molto trafficata, ci sono solo mezzi pesanti che risalgono il passo, ma non possono far niente e man mano che arrivano si fermano alle nostre spalle in serafica attesa. Intanto i passeggeri del Pullman tentano con idee strampalate di disincagliare l'automezzo.
Un passeggero prende una fune di nailon grossa come una sigaretta e, legatala al gancio di traino, aiutato dai più intraprendenti, tirano come forsennati, ma é fatica sprecata. Un altro propone di salire sul tetto a fare peso sulla parte posteriore per consentire alle ruote di non girare a vuoto. Alcuni uomini si levano le scarpe e i pantaloni per entrare nella gelida acqua e salire sul bagagliaio del torpedone, altri, più freddolosi, lo fanno attraverso i finestrini, ma anche in questo modo non si cava un ragno dal buco. Finita la sequela di suggerimenti non resta che aspettare l'arrivo di qualche camion che scenda dalla montagna.
Ore nove arriva un pullman di quelli con i vetri azzurrati e aria condizionata: nessun indi a bordo, ma solo turisti che hanno finito le loro vacanze nel Ladak. Il bello e la bestia. Il nostro sgangherato, tutto ammaccato, nel mezzo del torrente con l'acqua che gli lambisce le portiere, di fronte il Delux lucido e fiammante, ma senza iniziativa. I passeggeri anch'essi di due mondi diversi, per un attimo si mescolano, ma ognuno s'immedesima in quello che sa fare. I locali, indiani, pakistani, tibetani e cinesi tutti indaffarati a cercare le soluzioni per sbloccare la situazione, quelli del Superlux, tutti europei, intenti a scattare fotografie, come del resto avevo fatto io durante le tre ore e passa che siamo rimasti nell'attesa.
Alcuni volonterosi, tra i rifiuti che si trovano vicino al torrente, si danno da fare per recuperare alcuni fili di ferro che servono per imbrigliare i sassi quando si fanno quei grossi parallelepipedi per arginare le sponde dei fiumi e con un paziente lavoro di tira e piega riescono a formare una specie di fune per legare assieme i due automezzi.
Uno tira in retromarcia, l'altro accelera per ripartire, ma il precario materiale si spezza ed é come prima. Uno dei nostri passeggeri decide di guadare il torrente e andare a cercare qualcosa presso gli altri veicoli che sono alle nostre spalle. Dopo poco arriva con un grosso cavo d'acciaio e subito è attaccato alla nostra corriera fatiscente che é predisposta per tale aggancio, mentre per il bello si é dovuto elaborare un attacco con gli spezzoni del fil di ferro rimasto. Finalmente l'operazione riesce e noi possiamo ripartire lasciando agli altri il compito di ripristinare il guado.
Quello che ho notato, in questi frangenti, é che tutte le soluzioni sono intraprese con mezzi di fortuna e senza quei grossi apparati, che in Italia impiegano forze dell'Ordine per bloccare le strade e l'aiuto dei Vigili del Fuoco per disincagliare un mezzo in difficoltà. Comunque la nostra marcia prosegue verso le cime delle montagne con il nostro potente mezzo che traballa e vibra ad ogni buca ma che, con una sbuffata di fumo bianco, supera con disinvoltura anche le pendenze più ripide. Dopo l'emozione dell'impantanamento, quella della salita attraverso la stretta strada e i vertiginosi precipizi passa quasi in secondo piano. Va solo segnalato che in cielo non ci sono nuvole, che l'aria é fresca e che il paesaggio é immenso.
Verso mezzogiorno facciamo una sosta nei pressi di Sarchu (4.250) per un frugale pasto, poi di nuovo in marcia per salire sul Lachalang (5.065). Subito, alle prime rampe, troviamo una colonna militare ferma e quando riparte non c'é possibilità di superare. Le soste sono continue ed estenuanti. Se forano bisogna aspettare che cambiano la ruota, se hanno il radiatore che va in ebollizione bisogna aspettare che si raffreddi e se rompono qualche parte del motore devono trascinarli in un punto dove sia possibile il sorpasso. Tutto questo noi lo vediamo dal basso guardando verso l'alto, lungo i tornanti che zigzagano la costa della montagna.
Finalmente riusciamo a valicare il passo e incominciamo la discesa. Si passa attraverso dei canaloni che fanno rimanere col fiato sospeso, ogni curva un panorama diverso e qualunque descrizione, anche la più esauriente, sarebbe solo riduttiva. Uno scenario che non si può dimenticare e solo chi l'ha visto può dire:
" Io c'ero ".
Arriviamo a Pang (m.t. 4.600) che sono le diciannove, l'autista ferma il formidabile torpedone e ci fissa appuntamento per la mattina dopo alle quattro. Se vogliamo possiamo dormire sotto quei tendoni che nei punti di ristoro (tipo autogrill) sono messi a disposizione dei viandanti. Sentiamo che, per distenderci su quei tavolacci, la tariffa é cinquanta rupie per persona. Fabri, con un colpo di genio, propone di montare la nostra tenda; purtroppo abbiamo delle divergenze, io vorrei piantarla vicino agli altri tendoni, lui invece mi costringe a trasportare la mia parte di bagaglio ad un centinaio di metri dal campo comune, in salita.
Alla fine, ore venti, la capanna é stata ancorata,
il bagaglio è stato stipato,
il bagaglio é stato spostato,
il bagaglio da un po' fastidio,
ma, sorvolando queste inezie, ci auguriamo la buona notte.
Sono le ventuno quando sento dei rumori, come se qualcuno toccasse la tenda, accendo la pila per far notare che sotto c'é gente, ma il rumore continua. Chiamo Fabrizio il quale si era appena addormentato e incomincia a brontolare che non é possibile che io sia cosi tonto da non capire che é il vento a far tremare il telo antipioggia.
Per evitare altri screzi cerco di muovermi il meno possibile, purtroppo non riesco a dormire, il respiro non é regolare, ogni tre inspirazioni é come se me ne mancasse una e devo fare un respiro più lungo degli altri per pareggiare l'ossigenazione.
I quattromilaseicento metri non li sentivo stando in piedi perché automaticamente la respirazione si adegua, ma stando sdraiato, come mi rilasso per appisolarmi, provo quel senso di soffocamento che mi risveglia. Incomincio a rimuginare che era meglio se stavo sui tavolacci pidocchiosi, così mi sarei potuto alzare in piedi e fare un giro. Non ce la faccio più, verso mezzanotte, cercando di essere il più silenzioso possibile, apro la tenda ed esco.
Mi devo vestire con maglione e giacca a vento perché fa un po' freddo. In cielo splende la luna piena che rischiara magicamente la tenda, il ghiaione sul quale é piantata e le montagne circostanti. Il silenzio afonico é rotto dal mio passo che lentamente si avvicina verso il campo comune per vedere cosa si può fare. Tutto é spento, il chiarore della luna mostra il paesaggio nel suo candore spettrale e al fermarsi del mio piede ritorna quel silenzio che solo la montagna sa dare. Gironzolo sul ghiaione per un po', ma il freddo comincia a farsi pungente e, anche se respiro meglio, decido di rientrare. É lungo tirare le tre di notte senza disturbare il tuo vicino, ma non essendoci altra via ci si deve adeguare.
 
 
 

30 Luglio 1996 - Martedì

Alle tre del mattino Fabrizio mi trova già vestito, dico che ho voglia di bere un tè e scendo al campo a prenderlo e che lui incominci a smontare il tutto perché l'idea é stata sua. Scendo al "Grill" e in una di queste tende c'é già del movimento, il ciai é già in ebollizione e cosi posso incominciare la giornata con qualcosa nello stomaco. Risalgo ansando alla nostra postazione e il lavoro di smontatura é quasi fatto. Non mi resta che accollarmi la mia parte e scendere al pullman.
Ore quattro la nuova partenza. Ieri in quattordici ore abbiamo percorso la bellezza di 184 chilometri, oggi chissà. Percorriamo una valle pianeggiante larga tre o quattro chilometri circondata da monti alti duemila metri, senza contare che noi siamo a 4.500 metri, privi di qualsiasi vegetazione e dai pendii fatti di detriti. Per chilometri, al chiarore dell'alba, in questo deserto di sassi l'unica variante sono le lepri che al nostro passare corrono a rifugiarsi nelle loro tane.
Anche se il terreno é pianeggiante e la strada é deserta, la nostra velocità di marcia é sempre bassa; ci sono piccoli avvallamenti con cunette, ponticelli di legno, curve e controcurve per seguire lo scorrere del fiume che stiamo costeggiando. Il respiro é quasi normale, ma la strada ricomincia a salire verso il passo Tanglan-la (MT. 5.360) e di mattino a digiuno l'altezza si fa sentire e il sonno appesantisce le palpebre, ma la visione di queste valli così aspre e di questi strapiombi così emozionanti ne impedisce il rilassamento.
Bisogna proprio essere inconsapevoli come i due tedeschi davanti a noi poiché, lei dormiva ciondolando la testa ad ogni sobbalzo del pullman e lui leggeva un libro come se fosse stato sul tram e aspettava la sua fermata, estraniandosi da ciò che lo circondava, per paura di cedere il posto a qualcuno che ne avrebbe avuto il diritto.
Scesi dal passo il respiro si ristabilisce ed entriamo nella zona di Leh, dalle montagne brulle, desertiche e dalle pendici sassose; si entra in una valle verde che dà un senso di frescura. La strada é sempre la stessa, stretta e tortuosa, ma ai bordi ci sono dei sassi dipinti di bianco che delimitano la larghezza. Il paesaggio poi diventa irreale: le montagne di colore rosso viola sono frastagliate da formazioni di roccia che scendono verso la valle come delle creste di drago, distanti le une dalle altre di dieci o venti metri. Queste creste sono alte qualche decina di metri e tra loro si forma quasi una pista di toboga dalla terra rossiccia e compatta.
Questo spettacolo prosegue per una decina di chilometri. La valle del fiume Indi poi si allarga in una pianura coltivata, mentre i monti che la circondano ritornano ad essere brulli e sassosi. Molte caserme affiancano la strada con i vialetti che collegano i vari accampamenti o camerate in cemento, delimitati da sassi colorati che trattengono la ghiaietta grigia.
Leh é una cittadina caotica, con i vigili ai grossi incroci che dirigono il traffico di motorette, camion, pullman e taxi di tutte le speci, ma lucidissimi. Noi arriviamo alla stazione dei Bus che sono le undici e ci avviamo alla ricerca di un albergo. Il sole scotta e anche se ci troviamo a 3.500 metri, non essendoci vento, si suda solo a stare in piedi.
Dopo qualche centinaio di metri, con zaino sulle spalle, io mi sento spossato e decido di fermarmi, mentre Fabri prosegue senza bagagli alla ricerca di un hotel. Torna dopo mezz'ora con un portatore a carriola e sbuffanti arriviamo ad una Guest House in stile cinese.
Dal giardino interno, con una scaletta, si sale in una camera con servizi, arredata con letto matrimoniale, un divano sgangherato e due tavolini. Siamo stanchi, ma dopo una rinfrescata usciamo per mangiare. La cucina cambia, non ci sono più specialità continentali o indiane, ma piatti tibetani e cinesi. Rientriamo e ci mettiamo a riposare un po'.
A questo punto devo ammettere che il trekking non é il mio pane, mi viene subito il fiatone e non ho il piede montano. Decidiamo di comune accordo di proseguire con un tour in bus. Partire da Leh per attraversare il Kashmir e ritornare a Manali non é consigliabile per via dei disordini tra India e questa regione, allora decidiamo di entrare nel cuore dello Zangskhar fino alla città di Padum e da qui ritornare per la stessa strada fino a Manali, percorrendo ben 1850 chilometri di strade d'alta montagna con questi poderosi autobus che fino ad ora sono più potenti anche dei camion militari.
Dalla finestra aperta della camera oltre al fresco entra anche il canto e il suono di un vicino monastero buddista. É da questa mattina, quando siamo arrivati, che una nenia ci accompagna, ci auguriamo solo che smetta di sera. Cena al ristorante con libagione d'acqua Bisleri e alle ventuno il letto accoglie le nostre stanche membra.
 
 
 

31 Luglio 1996 - Mercoledì

Sostiamo a Leh per prenotare i biglietti dell'autobus che ci porterà fino a Kargil con un salto di 220 chilometri. Anche se ci siamo alzati alle sette il risveglio é lungo a completarsi e ordiniamo la colazione in camera che sono le nove: latte, caffè, pane locale, burro, marmellata e una bella frittata.
Usciamo per fare un giro, ma Fabrizio ed io non siamo sincronizzati nei movimenti, io cammino adagio, lui allunga il passo, io mi fermo per osservare una merce, lui critica la fattura e mi suggerisce di non comperare dai kashmiri perché sono imbroglioni, allora io lo mando a cagare e vado in giro da solo. Purtroppo dopo l'abbondante colazione sono io che ci devo andare e corro a casa ed essendo l'ora più calda (mezzogiorno) decido di rimanerci fino di pomeriggio.
Alle quindici Fabri va alla stazione degli autobus, ma non trova posto su quello di domani, così dovremo fare un altro giorno di riposo. Io invece esco a fare compere in vari negozi; acqua minerale, sigarette, cartoline e cioccolato. Sono le diciotto, il cielo si é annuvolato e qualche folata di vento fa sbattere le imposte delle finestre, ma niente di più. Aspetteremo ancora un po' poi andremo a mangiare per finire in bellezza la giornata.
 
 
 

1 Agosto 1996 - Mercoledì

Non c'é molto da fare, di mattina facciamo un giro intorno alla città, un agglomerato di casette e un dedalo di viuzze percorse da scoli di fognatura per lo più a cielo aperto. Sulla via principale si aprono negozi di generi diversi, ma non hanno vetrine, sono come le bancarelle dei mercatini delle nostre città. D'interessante non c'é niente anche perché non intendendoci finiremmo per acquistare paccottiglie per turisti.
Dopo aver fatto la nostra bella fila per procurarci i francobolli per le cartoline vorremmo salire per visitare l'ex palazzo della famiglia reale che si trova su un'altura alle spalle del paese (9.000 abitanti), ma a causa della colazione tipo europea e la mia poca dimestichezza nell'assimilare le usanze dei locali siamo costretti a rientrare in albergo.
Fabri é interessato alla "Sound Blaster" e si mette a leggere il manuale della stessa portato da Milano, io mi metto a scrivere le impressioni o meglio la cronaca di questo viaggio e così arriva l'ora di andare a cena.
Dalla finestra del ristorante dove ci gustiamo le specialità della cucina tibetana osserviamo il passeggio della gente mista al traffico degli automezzi, un caleidoscopio di colori e di razze. I giovani ladaki sono vestiti con pantaloni tipo europeo, camicia e pullover, i turisti nelle fogge più strane, gli anziani con lunghi camiciotti e larghi calzoni, mentre le donne portano dei leggeri pantaloni lunghi con una tunica che arriva fin sotto le ginocchia, una lunga sciarpa di seta che serve a raccogliere i capelli e che, girata intorno al collo, è lasciata cadere lungo la schiena. Alle ventuno non essendo avvezzi alla vita mondana non ci rimane che ritirarci nel nostro appartamento per il riposo notturno.
 
 
 

2 Agosto 1996 - Venerdì

Alle quattro dopo una notte di dormiveglia, nell'attesa del risveglio decisivo, suona la sveglia. La preparazione dei bagagli é facilitata dal fatto che abbiamo avuto la possibilità di lasciare in albergo uno zaino pieno di vestiti che sarebbe risultato inutile al fine del viaggio che ci siamo prefissati.
Affardellati della solo tenda e dello stretto necessario ci incamminiamo verso la stazione degli autobus. Primo intoppo, sul biglietto di viaggio non c'é scritto il numero del bus che ci dovrebbe ospitare. Lunga e animata discussione con i bigliettai delle quattro corriere in partenza per Kargil che, non avendo la nostra prenotazione, non vogliono caricarci.
La discussione si svolge in inglese tra Fabrizio e gli addetti ai biglietti, in indi tra i controllori e il capannello di viaggiatori curiosi che si é formato, con il tagliando che passa di mano in mano e ognuno dice la sua. Un autista propone di aspettare e Fabri sempre più incazzato alzando la voce e unendo la punta delle dita ruotando la mano ripetutamente da sinistra a destra dice:
" Aspetto, aspetto, così voi partite e noi restiamo qui come due pirla ".
Al che tutti si mettono a ridere segno evidente che l'italiano, coadiuvato da gesticolazione, é una lingua internazionale.
Appoggiati ad un palo vediamo partire due pullman e Fabri, arrabbiato, dice:
" Andate, andate, andrete a sbattere! ".
Anche il terzo sta per partire quando il controllore, mosso a compassione, ci chiede se siamo disposti a viaggiare seduti per terra e alla nostra risposta affermativa ci fa salire. Io mi sistemo su uno spigolo di uno strapuntino offertomi da un viaggiatore dalle fattezze tibetane che si é ristretto con gli altri occupanti la fila. Fabri su una valigetta messa a disposizione da un altro passeggero, nel mezzo del corridoio.
Viaggiamo così per un'ora quando il tibetano scende, ma al suo posto sale una donna ladakhi la quale senza nessuna buona maniera piazza tutto il suo deretano sullo strapuntino mettendosi a suo agio e girandosi verso di me con una faccia da schiaffi sembra dica:
"cazzo, vuoi! "
al che ritraggo il mio sedere dalla precaria posizione e mi siedo sullo spigolo della valigia lasciata libera da Fabrizio che nel frattempo si é accomodato sul cassone copri-ruota che sta dietro all'autista.
Dopo una sosta al ciai shop con colazione a base di tè e biscotti e alla registrazione del passaggio, sotto la tenda della polizia che si trova ad ogni cambiamento di regione, veniamo bloccati insieme con tutti gli altri automezzi nei pressi di un accampamento militare per quasi un'ora, trascorsa ad ascoltare le solite interminabili discussioni tra autisti e autorità preposte. Alla fine gli autobus sono lasciati proseguire fino al paese più vicino, dove si trovano diversi locali che servono il tè caldo e si possono comperare biscotti, caramelle, cioccolato e bevande varie.
Finalmente veniamo a sapere il motivo della sosta: c'é una frana in una località non ben definita. Mentre siamo nell'attesa che la situazione si sblocchi vediamo che intorno ai due pullman che ci avevano preceduto alla partenza si sta armeggiando per la sostituzione delle ruote, tutte e due avevano forato. Fabri é soddisfatto!.
Alle undici finalmente la notizia che si può partire. Alcuni turisti occidentali che erano scesi e non si sapeva dove fossero finiti sono lasciati a terra e così si liberano alcuni posti in fondo alla vettura e io mi ci sistemo. Incomincia la salita al colle Fotu-la in un paesaggio desertico, dove le dune sono fatte da montagne alte seimila metri, composte da sassi e terra pressata, senza nessuna vegetazione. Viaggiamo a mezza costa su una strada stretta, dove il passaggio di due mezzi é possibile solamente dove sono state fatte piccole piazzole. Si vedono a fondo valle delle oasi verdi con gruppetti di case circondate da piccoli appezzamenti coltivati ad orzo e grano, delimitati da muretti in pietra (qui i sassi non mancano), alberi da frutta, pioppi e salici.
Quando comincia la scalata vera e propria il cuore arriva in gola specialmente quando si deve incrociare qualche mezzo che scende. Quello che si trova verso la scarpata deve mettere le ruote proprio sul ciglio che, data la consistenza del terreno, dà l'impressione di franare da un momento all'altro. L'unico antidoto per superare questa paura é aggrapparsi alla spalliera del sedile che ti sta davanti e guardare nel burrone immaginando di essere su un carrello della teleferica e dopo una decina di volte che hai fatto quest'esercizio ed esserti accorto che tutto é finito bene, cominci a rilassarti.
Gli scatti della macchina fotografica si susseguono ritmicamente. Tra uno scossone e l'altro metto l'obiettivo fuori del piccolo finestrino e impressiono la pellicola con paesaggi che non mi sarei mai aspettato e con colori che non avevo mai visto. Nella foga di riprendere queste bellezze non mi accorgo di essere arrivato alla trentaseiesima posa e nel ricaricare la macchina, colpa di un sobbalzo improvviso, il pollice fa uno sforzo superiore sulla leva di ricarica e la pellicola si sfila dal rullino con l'impossibilità di riavvolgerla. Ripongo la macchina nella sua borsa con la speranza di risolvere il problema con il buio della notte.
Dopo lo scollinamento del Fotu-la, proseguendo la nostra marcia, verso le sedici troviamo la strada bloccata da un mezzo militare munito di gru con alcuni soldati che armeggiano intorno ad esso. Sotto la strada, in una scarpata profonda una cinquantina di metri, un altro automezzo dell'esercito é precipitato. Non resta che usare la classica pazienza degli indiani, i quali, in casi del genere, si accovacciano al bordo della strada e osservano. In questo caso ho notato che tutti tacciono e non si prodigano in consigli come le altre volte quando l'evento li coinvolge personalmente.
Il lavoro dei militari procede con poca coordinazione e nessun responsabile che dia degli ordini precisi. Alcuni trascinano un cavo lungo la ripida scarpata (in salita) per agganciarlo alla gru del mezzo di soccorso, altri scivolano tra le pietre nel raggiungere il mezzo sinistrato. Quando poi entra in azione la gru e i cavi si tendono devono sospendere perché i punti dove hanno attaccato i tiranti non reggono e si spezzano.
Quasi tre ore dura questo tira e molla e un po' di nervosismo si deve essere creato tra tutti gli autisti che piano piano si sono accodati al nostro pullman e altrettanti dall'altra parte. Un nutrito gruppo di "incazzati" é sceso nella scarpata a parlare con il graduato che sembra il responsabile dell'operazione. Dalla nostra posizione, sul ciglio della strada, la conversazione sembra animata, ma alla fine dà l'ordine di mollare tutto e lasciar passare.
Le ombre della sera danno un altro fascino ai monti circostanti e ci accompagnano lungo la salita del Namika-la (3700) e lì troviamo il motivo della sosta mattutina. Da un vallone laterale, a causa della pioggia della notte, é sceso un mare di fango e sassi che ha ricoperto la strada per una lunghezza di cento metri. Squadre d'addetti alla manutenzione, composte da uomini, donne e ragazzi, a colpi di piccone e badile, hanno cercato di dare una parvenza di strada. Quando sopraggiungiamo sul posto sinistrato altri ci hanno preceduto nei due sensi di marcia creando profondi solchi nella fanghiglia che fanno ondulare in modo spaventoso il pullman, ora da un lato, ora dall'altro. Se non é piacevole quando il dondolamento é verso la montagna é impressionante quando avviene verso la valle.
Passata la preoccupazione, noi rudi vagabondi, indifferenti al batticuore, ci limitiamo a ringraziare i Dei dei dirupi che ci hanno permesso di passare indenni!
Incomincia la discesa: al buio il traballamento é costante, non si vede niente, ma oramai ci si é fatto il callo. Solo qualche buca più profonda ti fa sobbalzare quasi a sbattere la testa al soffitto del bus, ma é dovuto solo perché sono nell'ultima fila e siamo seduti ognuno sul proprio sedile. Se fosse stato come la mattina che eravamo in otto non avremmo avuto problemi, perché stando incastrati avremmo fatto un tutt'uno con il sedile e la spalliera. Verso le ventuno ci fermiamo presso un ciai shop e notiamo un camper targato Milano: é di un ragazzo che é partito quattro mesi fa dall'Italia e sta girando l'India per motivi "spirituali". Un frettoloso racconto delle nostre peripezie (le sue le ritiene normali), un tè, un ciapati e il nostro pullman già suona per ripartire; arrivederci, buon viaggio.
Un'altra ora e mezza di traballamento ed eccoci a Kargil. Ore 5 partenza, ore 22,30 arrivo. 17 ore e 30 minuti, chilometri 221.
É buio pesto, un ragazzo ci propone;
" Hotel ? "
Qualsiasi va bene. Lo seguiamo, mi tremano le gambe e mi gira un po' anche la testa, tutto il giorno senza mangiare, solo acqua e qualche tè. Dico di camminare più adagio che non vedo niente. Il tipo entra in una porta, Fabri lo segue, io pure. Se prima la notte rischiarava di nero l'ambiente ora la cecità era completa.
Sento la voce di Fabrizio che dice:
" Sali le scale ",
a tentoni riesco a toccare una parete, sento anche che ci sono dei gradini, comincio a salire. Finalmente un bagliore, il ragazzo ha acceso una candela, il passo si fa spedito e raggiungo il pianerottolo. L'accompagnatore apre una porta e al fiebile chiarore del moccolo vedo due letti. Rapida apertura degli zaini e le nostre pile rischiarano l'ambiente, c'é anche il bagno, ma non c'é l'acqua. Il nostro anfitrione ci chiede se vogliamo andare al ristorante e accettiamo di buon grado.
Lasciamo i bagagli e lo seguiamo al chiarore delle nostre lampade, in un locale, ad un centinaio di metri, anch'esso al buio, dove l'unica cosa disponibile è un intruglio di spaghetti cinesi e verdura un po' cotta e un po' no. L'unica bevanda disponibile é acqua minerale, ma siccome la bottiglia sembra già aperta, sarà stata acqua minerale imbottigliata al momento. Se durante la vita, la cosa più importante é sapersi adattare, io ci sono riuscito!
Rientriamo nella buia magione, dove stendiamo sui duri giacigli i nostri sacchi a pelo e sprofondiamo in un profondo sonno.
 

3 Agosto 1996 - Sabato

Il risveglio alle otto del mattino é traumatico. La camera é grande quanto lo spazio dei due letti più un corridoio di un metro, che li divide, una porticina che dà nel vano servizi che a chiamarlo col suo nome sarebbe come dire "cesso". L'acqua non c'é ancora, ma lo sporco di quelli che ci hanno preceduti, quello, c'é tutto! Un lurido secchio contenente un liquido dalla parvenza acquoso deve servire per le nostre pulizie mattutine, ma il buon senso non ci permette di aggiungere altro sporco a quello accumulato nella giornata di ieri. Decidiamo di uscire e cambiare albergo.
Il paese é tipico di montagna, con casette basse e negozi che offrono poca scelta. Giriamo un po' per trovare un locale per fare colazione, ma lasciano molto a desiderare; alla fine, seguendo le indicazioni pubblicitarie di un Hotel Restaurant, entriamo in un cancello e, attraverso un praticello mal tenuto, che ha la pretesa di essere un giardino, arriviamo al ristorante. Ci sediamo ad uno sgangherato tavolo e ordiniamo la colazione.
La frittata che sarebbe bastata per uno é divisa in due, mentre il resto può bastare. Guardando la costruzione adibita a Hotel esternamente dà l'impressione di essere ben tenuta, una villa in muratura con dei ballatoi alle camere e decidiamo che se dovessimo rimanere qualche giorno il trasferimento sarebbe giocoforza.
Ci rechiamo al Bus Stand e con nostra meraviglia riusciamo ad avere due posti sull'autobus che parte l'indomani mattina alle due. Tutto da cambiare, non é più conveniente trasferirci con tutti i bagagli a due chilometri di distanza per poi ritornare in ora così inusitata, carichi come due somari, fino a dove già stiamo.
L'albergo che ci ospita é una stazione di sosta che serve a far passare la notte ai viaggiatori che arrivano da Srinagar a bordo dei pullman e sono diretti a Leh, ed é munito di piccole celle adibite a camera. L'unica soluzione che ci rimane é di farci cambiare la stanza con una priva di gabinetto, almeno l'odore é comune con tutti gli altri.
Avvenuto lo scambio ci mettiamo in cortile a conversare con il gestore del complesso ed alcuni suoi collaboratori che sono i ragazzi che di sera quando arrivano i torpedoni sul gran piazzale, invitano i viaggiatori ad alloggiare in questo "Hotel".
Il problema della luce non dipende dall'albergatore, ma dall'amministrazione della regione che di sicuro si sa quando la leva, mentre é incerto quando la dà. Idem é quello dell'acqua. C'é una fontana con una pompa a mano a pochi metri dalla casa dove bisogna andare a riempire i secchi per poi vuotarli in un grosso serbatoio situato sul tetto e tramite tubature normali sono alimentati i vari rubinetti dei bagni. Questa fontana non funziona. Ne ho vista una in centro al paese con gente munita di contenitori di varie fogge e misure che in paziente attesa aspetta il proprio turno per fare rifornimento.
Il pomeriggio lo passiamo sdraiati sui nuovi letti, precisi come quelli di ieri, ma senza il profumo precedente sembrano molto più confortevoli. Usciamo per la cena alle diciassette e con spirito più rilassato guardiamo con occhi meno critici la struttura della città. La maggior parte delle case é affacciata sulla strada principale dove al piano terra ci sono i negozi e al piano superiore le abitazioni. I locali adibiti al commercio sono come dei box per automobili larghi quattro o cinque metri; quando sono chiusi sono una sfilata di saracinesche arrugginite o antoni di legno di vari colori che il tempo ha provveduto a far sbiadire e la polvere sollevata dagli automezzi, che innumerevoli transitano sull'arteria, ha provveduto a ricoprire di una patina grigiastra che lascia solo immaginare le primitive sembianze.
Quando sono aperti non sono come quelli europei, con vetrina e porta d'ingresso, ma un tutt'uno con la merce. Dalla strada, per entrare, si salta il fosso che porta i liquami delle case a scaricarsi nel fiume e, salendo un gradino, si entra nel locale tutto aperto, dove accatastata per terra e appesa alle pareti, c'é la mercanzia che quel negozio offre. Il bottegaio sta seduto su uno sgabello o dietro ad un piccolo banco e non é invadente come quelli di Leh che come passi insistono per farti entrare e mostrarti qualcosa che tengono sotto la merce in vista, che é sempre la stessa, ma che si trova sotto.
Si può comperare di tutto, dai generi alimentari, vestiario, casalinghi e ferramenta, ma gli articoli sono di qualità e foggia scadente. La data di scadenza dei prodotti alimentari non é controllata dall'U.S.S.L. . Ho comperato una tavoletta di cioccolato e quando l'ho aperta si sbriciolava come un wafer, ma, raccolta nel palmo della mano e aspirata in bocca, mi ha placato i morsi della fame, mentre su un pullman traballante attendevo di arrivare ad un punto di ristoro. Non é una critica perché queste popolazioni vivono con lo scarso raccolto che riescono a produrre dai loro piccoli campi e la maggior parte dell'anno sono tagliati fuori del resto del mondo, poiché le strade e i passi, che a noi turisti appaiono fantastici, diventando impraticabili per la neve o gli smottamenti, sono chiusi.
Entriamo in un ristorante, ma la scelta dal menù é molto limitata e come sapore delle pietanze bisogna farci un po' il palato. Anche la scelta delle bevande é ridotta; acqua minerale dal tappo con la chiusura qualche volta di dubbia fattura e tè dai vari gusti. La Coca-cola é un lusso che forse si può trovare all'albergo di prima categoria che si trova un po' fuori della città.
Qualsiasi cosa che si compera in questa zona deve arrivare con gli autotreni che i nostri autocorrieristi sollecitano con assordanti colpi di clacson a fermarsi nei piccoli spazi su strapiombi impressionanti, affinché noi turisti possiamo superarli.
Prima che la notte ci sorprenda col suo buio rientriamo nella nostra cella e prepariamo tutto il nostro armamentario pronti per la sveglia mattutina.
 
 

4 Agosto 1996 - Domenica

Ore due sveglia. Senza possibilità di lavarci ci avviamo a prendere l'autobus che ci porterà a Padum. Ci sono tre turisti tedeschi, quattro francesi e noi due. Tutti gli altri sono indi. Ogni viaggiatore ha il suo posto prenotato.
Noi e i quattro francesi ci sediamo sui nostri sedili mentre i tedeschi, essendoci delle poltrone libere davanti, le occupano immediatamente. Sale un indi con un sacco di patate e due taniche di gasolio che depone nel corridoio tra i sedili. Subito si alza la Krucca e incomincia ad imprecare:
" Cherosene no, cherosene on de ruf"
e addita al bigliettaio l'infrazione alle norme C.E.E. che il povero indigeno sta commettendo. Nessuno dei due "caga" le sue rimostranze, e continuano nelle loro faccende. Alla fine il trasgressore, senza profferire parola, si avvicina alla turista e con la mano le fa segno di alzarsi, perché quello é il suo posto.
La tapina, tanto precisa nel far rispettare i regolamenti agli altri, non ha perso occasione per manifestare la sua invadenza nel prevaricare i diritti altrui. Man mano che salgono i viaggiatori i tre tedeschi sono sloggiati dai posti che si sono accaparrati e finiscono nell'ultima fila dove sono stati assegnati.
Molti turisti non si rendono conto delle difficoltà che la gente del luogo sopporta, senza lamentele, sin dalla nascita e per tutta la vita. Questo signore saliva sull'autobus alle due del mattino non per una passeggiata come noi, ma per il suo bisogno quotidiano, percorrendo decine d'ore su questi fatiscenti mezzi perché al suo paese, all'angolo della strada, non c'é la pompa della benzina dove poter soddisfare i suoi bisogni giornalieri. Sono sempre più convinto che un turista che visita un luogo molto diverso da quello di provenienza debba accettare senza criticare il modo di vita dei locali, altrimenti dovrebbe arrivare armato di fucile e portare quella civiltà che egli ritiene più consona.
Si viaggia al buio e non c'é molto da raccontare, poi incomincia a schiarire e appaiono le cime dei monti resi ancor più suggestivi dai raggi del sole che li illuminano. Non c'é vegetazione, solo sassi e terra, che la neve al disgelo e la pioggia modellano con innumerevoli fiumiciattoli creando forme geometriche affascinanti.
La strada attraversa un ghiacciaio lungo un centinaio di metri, tra due pareti di neve alte tre metri e passa a pochi metri dalla fronte d'altri due immensi ghiacciai. Panorami, strapiombi e traballamenti sono continui, ma avendoli scelti liberamente non possono che portare una soddisfazione personale. A rompere questa quotidianità devo solo segnalare la foratura di una ruota e finalmente alle 19 arriviamo a Padum. La strada finisce, siamo alla fine dell'India, siamo a 1600 chilometri da Delhi!.
Il finish della corsa é proprio davanti ad un campeggio e montare la tenda é un gioco da ragazzi. Quando si entra in un campeggio ci sono delle regole ben precise da rispettare.
Primo: L'esperto organizzatore gira fra le tende senza disturbare gli altri campeggiatori, osserva se ci sono piazzole adatte alla sua bisogna senza far commenti tipo;
" Qui é uno schifo ",
" Qui ci sono troppi sassi ",
" Qui é troppo in pendenza ",
etc. etc., altrimenti, se non va bene, va in albergo!.
Secondo : Non si deve mai chiedere il parere agli altri componenti della spedizione altrimenti si deve cedere lo scettro di capo e si accettano i consigli senza polemizzare.
Terzo: Quando si monta la tenda ci deve essere del sincronismo tra i montatori senza bisogno di continuare a dire;
" Tira di lì ",
" Cazzo, molla quella corda ",
" Lascia stare che faccio io ",
etc. etc., gli altri che hanno avuto gli stessi problemi, gioiscono nell'osservare il grado d'imbranatura dei nuovi arrivati.
Comunque noi piantiamo la nostra tenda proprio in riva ad un ruscello largo un metro e mezzo e profondo una trentina di centimetri che lambisce la piazzola da noi scelta, coperta da un tappeto d'erba che sembra muschio tanto é ben rasata.
La sera scende velocemente ed al lume di candela, in un piccolo ristorante, plachiamo la nostra fame con un piatto di riso e poche lenticchie, il tutto innaffiato con acqua minerale. Ritornati in tenda stendiamo le nostre membra su quel morbido tappeto di fili d'erba. Morbido solo per i piedi quando scalzi ci si cammina sopra, ma rigido come la pietra per la schiena e le reni già provati dal massacrante viaggio.
 
 

5 Agosto 1996 - Lunedì

É l'alba, nessun problema durante la notte, la giornata é limpida e il desiderio di levarsi quella patina di polvere che da qualche giorno si accumula sui vestiti e sulle parti scoperte del corpo é irrefrenabile. Nel campo non c'é acqua e tutti i campeggiatori usano quella del ruscello che, serpeggiando tra le tende, scorre gorgogliando tra i sassi.
Il colore non é azzurro come quella che vedevamo scendere dai ghiacciai, ma é di un colore grigio come quando nell'acqua si mette della soda. Non é sporca: su queste montagne non ci sono abitazioni che potrebbero inquinarla, ma contiene semplicemente dei finissimi detriti che sono trasportati a valle. Ogni fiume ha il suo colore; grigio, rossiccio, marrone, a seconda della configurazione del terreno che attraversa.
Il bisogno di togliersi di dosso la sporcizia non fa guardare troppo per il sottile la purezza del liquido e senza porci ulteriori indugi ci purifichiamo nelle acque grigiastre. Sciacquiamo anche le magliette, che sono ormai pregne dei nostri profumi corporei e stendiamo il bucato al caldo sole che in breve tempo le restituisce asciutte e imperlinate di tanti puntini brillanti.
Non essendoci più paesi da raggiungere con i pullman il nostro viaggio deve forzatamente prendere la via del ritorno. Prenotiamo sullo stesso bus che ci ha portato fin quassù, i posti per rifare a ritroso tutto lo stesso percorso fino a Kargil. La partenza non avverrà fino all'indomani mattina, pertanto oggi abbiamo la giornata di riposo.
C'incamminiamo su un sentiero, che i turisti, spendendo fior di soldi, accompagnati da guide che indicano loro la via, da cavalli che trasportano i loro zaini e viveri e che calpesteranno per una cinquantina di chilometri, raggiungono qualche paese, dove spendendo poche rupie potrebbero arrivare con l'autobus. Noi lo seguiamo solo per due ore e ci fermiamo sul greto del fiume a far raffreddare la borraccia dell'acqua nella gelida corrente, per frenare i morsi della sete, che sotto il sole a picco del mezzodì si fa sentire.
Si racconta in queste valli, nelle notti di luna piena, che due turisti percorrendo questi luoghi si mettessero a litigare di brutto perché il capo spedizione, un giovane forte e testardo, pretendeva che l'altro, un vecchio un po' rincoglionito, saltasse un fosso per risparmiare un bel cinquanta metri di strada, ma il matusa si rifiutava, così rimaneva indietro. E il litigio continuava anche quando, per risparmiare un chilometro di percorso il giovane pretendeva che il vegliardo scendesse da una ripida scarpata che il decrepito pellegrino riteneva pericolosa. Voci ben informate affermano che, durante i gelidi inverni, il vento che sibila tra le gole di questi dirupi, trasporti l'eco dell'alterco fra i due.
Per evitare che la leggenda diventi realtà, dopo una sorsata d'acqua, decido di ritornare da solo e, sotto il sole a picco, penso che, forse, nel deserto del Sahara, una storia del genere ci starebbe proprio bene.
Rientrato al campeggio trovo Marco Polo mollemente sdraiato sul fresco praticello, mentre tutte le tende che riempivano gli altri spazi sono state smontate e gli occupanti si apprestano a partire. Alle diciassette andiamo in centro a Padum, la capitale dello Zangskhar, una trentina di casette e in un ristorante dove campeggia l'insegna della Pepsi-cola. Ceniamo con riso e lenticchie, mentre della bevanda gasata ci sono solo le bottiglie vuote.
Ritorniamo al campo e siamo soli, nuvoloni scuri si addensano sulle cime dei monti e un venticello che va rinfrescando fa sbattere i teli della tenda. Alle venti siamo già dentro il sacco a pelo e tento di dormire. Il vento fa vibrare con violenza l'abituro, allora comincio a meditare che sarebbe stato più logico smontare tutto ed essere andati a dormire in una di quelle cellette che, con un centinaio di rupie, dava la possibilità di dormire su due lettini tra quattro pareti solide.
Non posso imporre il buon senso a Marco Polo perché é uno spirito libero e avventuroso, interessato solo a cose al limite del rischio ed é contrario ad ogni comodità che il mondo occidentale offre in cambio di sottomissione e accettazione delle regole. Non posso neanche parlare io di buon senso se, alla veneranda età di sessantaquattro anni, mi permetto di lasciare la famiglia e le comodità che oramai sono radicate in me per intraprendere un viaggio che di turistico ha ben poco, non seguendo i canoni del "tutto organizzato", ma vivendo a contatto diretto con le popolazioni locali che al nostro confronto vivono al limite della povertà. Devo affermare che fatico un pochino ad assimilare ciò che mi circonda per cercare di integrarmi nel contesto socio culturale locale.
Fabri dorme, ma io comincio a non essere tranquillo. Ripenso alla posizione della tenda, si trova a valle del ruscello che questa sera, al ritorno dalla cena, era più pieno della mattina, tanto che i sassi, che affioravano dalle acque durante la giornata, ora sono completamente sommersi e il liquido grigiastro lambisce il verde praticello. Il pericolo in questi casi é un temporale anche lontano dal posto dove ci troviamo, ma che facendo aumentare il livello dei vari fiumiciattoli che scendono a valle possa far tracimare il fossato con conseguente allagamento della nostra postazione. Il cervello comincia a lavorare alacremente. Cosa fare in questa circostanza?.
Bisogna coordinare tutte le operazioni possibili per salvare il salvabile.
Primo: Indossare subito gli scarponi, poi le giacche impermeabili, riempire gli zaini con tutte le nostre cose, infine aprire la tenda e trasportare il tutto su un muretto distante una decina di metri.
Secondo: Tornare e cercare di recuperare la tenda, se l'alluvione non ha ancora provveduto alla sua definitiva distruzione.
Questa soluzione sembra la più logica, sempre che riesca ad imporre le mie direttive a quel famoso Marco Polo! Mentre, scartando tutte le altre, ritengo la più fattibile quella appena descritta, con la mano tocco il pavimento della tenda per sentire se per caso non scorra sotto l'acqua e con le orecchie ritte ascolto il rumoreggiare del fiume che a furia di pensare sembra che aumenti di fragore.
Accendo la pila, sono solo le ventiquattro. Rivolgo una preghiera a Buddha che é la maggior autorità spirituale della zona, a Schiva e Visnú che ritengo non siano secondi come numero di credenti in India, avendo visto una moschea e avendo sentito il Muezzin alle quattro del mattino cantare i suoi salmi, mi rivolgo anche a Maometto e infine a Gesù che povero Cristo era rappresentato da noi due tapini. Non si sa mai, li ho supplicati tutti.
 
 

6 Agosto 1996 - Martedì

Avendo progettato l'evacuazione, ora cerco di dormire ma devo uscire per fare pipí. Cercando di non fare rumore, per non svegliare l'ignaro compagno di peripezie, esco all'aperto e osservo il cielo che risulta tutto coperto da grossi nuvoloni; il vento é freddo, ma il più preoccupante é il fossato. Alla luce della lampada tascabile noto che il livello delle acque é uguale a quello della sera, anche se il rumore del fiume sembra più fragoroso. Tutto normale, ma il sonno ormai se né é andato. Tranquillo, non pensando più a niente, arrivano le quattro.
Uno scroscio di pioggia sveglia Fabrizio;
" Minchia, piove! ",
" Che ore sono? ",
" Non poteva aspettare mezz'ora? ".
Smontiamo sotto una leggera pioggerella che quando arriviamo al pullman smette.
Nel ripercorrere a ritroso il tragitto di due giorni prima riconosciamo tutti i punti più pericolosi che abbiamo attraversato. Alcuni non lo sono più mentre, ne incontriamo di nuovi. Qui le difficoltà sono sempre diverse a seconda di dove si scaricano i torrenti con improvvise piene. Immediatamente squadre di stradini, generalmente nepalesi, sono inviati sul posto per riparare i danni e tutto diventa normale, grazie al loro lavoro manuale, consistente nel riempire le parti franate con del pietrisco che si trova sul posto. Un lavoro estenuante, perché le pietre, affinché non rotolino, devono essere spaccate a colpi di mazza per avere angoli spigolosi che s'incastrino l'uno nell'altro e per riempire gli interstizi tra l'una e l'altra è inserito del ghiaietto lavorato sempre alla stessa maniera.
Arriviamo a Kargil senza problemi, in tempo per andare a mangiare una cena decente, un bel piatto di spaghetti cinesi con sugo di montone che data la latitudine, risulta di gusto eccellente.
La notte la passiamo al solito hotel senza acqua e senza luce, ma da queste parti non ci fa caso nessuno.
 
 
 
 

7 Agosto 1996 - Mercoledì

La mattina é dedicata al solito problema di trovare il posto sul bus per ritornare a Leh. Dopo un paio di tentativi vani, il primo perché é troppo presto, il secondo perché non c'é l'addetto, al terzo finalmente concludiamo per l'indomani mattina alle ore quattro e trenta.
Al pomeriggio, mentre siamo seduti in uno di quei negozi con l'insegna pretenziosa, "Bakery" a sorbirci il consueto ciai accompagnato da brioche, tartine e biscotti, sentiamo alcune voci che in idioma a noi familiare dicono,
" Ma é roba che si mangia? ",
" Mamma mia quante mosche! " ,
" Ragazzi, cosa facciamo, ognuno compra quello che vuole o facciamo dalla cassa comune? "
" Prendi tutto tu " ,
" Allora 15 di quelle, 15 di queste.... " ,
" Prendi anche quella specie di biscotti " ;
pagano il dovuto controllato da una ragazza che attenta rifa' i conti del negoziante. Come resto tra l'altro ricevono alcune rupie di metallo,
" Ragazze che bello, le monetine ".
Una signora, evidentemente la mamma di una delle ragazze, esclama:
" Aspettate, aspettate, che devo far cambiare " entra e:
" Schiusmi plis é possibile ceng, (porgendo una banconota da dieci rupie) uan, uan, uan,..... ".
Al diniego del cassiere,
" Faif, faif ".
Esce e ritorna verso il loro posto di ritrovo con i pacchetti che qualcuno del gruppo stenterà a mangiare, mentre gli avventori indi scimmiottano la signora, e sorridendo ripetono:
" Ceng uan, uan, uan ..... ".
Per l'ora di cena é ancora presto perciò facciamo una passeggiata per stimolare l'appetito. Un paio di chilometri fuori dall'abitato una visione meravigliosa, il fiume Indos descrive un'esse, in mezzo ad una vallata verdeggiante, su una collina un paesino attorniato da alte conifere e terrazze di pietra delimitano i campicelli ben coltivati, il fondovalle coperto da cespugli e alberi d'alto fusto, mentre sullo sfondo svetta la cima di una montagna illuminata dal sole ed alcune nuvole bianche abbelliscono la vetta. Una fotografia da "Airone", ma la macchina fotografica é in albergo. Pazienza!.
Ritorniamo al ristorante di ieri sera e mangiamo due salsiccette di montone lunghe una ventina di centimetri, dove le spezie e il peperoncino hanno la meglio, ma che, diluite con alcune fette di pancarrè, riescono ad essere commestibili.
 
 

8 Agosto 1996 - Giovedì

La solita levataccia non ci preoccupa: non é per lavoro e tutto diventa più facile. Abbiamo un problema con i biglietti dell'autobus, non c'é la targa della corriera, solito battibecco con gli addetti dei torpedoni che ci dirottano su un pullman di categoria superiore con un aumento di 50 rupie e tutti felici conveniamo che:
"No problem".
Siamo sempre gli unici europei, perché gli altri il viaggio di ritorno lo fanno a piedi. Costa di più, ma in compenso la fatica é maggiore. Tra i viaggiatori c'é un mussulmano con lunga palandrana e turbante bianco. Fabri dice che porta "Sfiga".
Solita routine fino al passo Fotu-La quando, durante la discesa, incontriamo una lunga colonna di camion fermi che il nostro autista non esita a superare con manovre a dir poco da brivido. Ad un certo momento siamo costretti a fermarci anche noi. La via é ostruita da un autocarro che, su un tornante, si é ribaltato, sparpagliando il suo carico di bombole di gas per un lungo tratto di strada. Sono senza rullini, quelli di ricambio sono rimasti a Leh, nel sacco che abbiamo lasciato in albergo. (Quando c'é da immortalare qualcosa d'interessante si sente la mancanza di un operatore specializzato.).
Le operazioni per raddrizzare il veicolo incidentato e liberare la strada sono eseguite da una gru dell'esercito uguale a quella dell'altra volta; infatti dopo tre ore di tentativi il risultato é vano. L'insuccesso é dovuto da un coordinatore d'ordini che di fronte al malcapitato esecutore agita le mani in modo caotico sia a sinistra sia a destra confondendo le idee anche al più esperto gruista del mondo occidentale. Fortunatamente sopraggiunge un altro mezzo di soccorso che, spostatosi sul tornante sottostante, riesce, tramite un cavo, a raddrizzarlo.
Grande ingorgo tra i veicoli che scendono e quelli che salgono, su una strada dove il sorpasso é impossibile siamo fermi in attesa che qualcuno indietreggi su una piazzola per passare. Il buon senso alla fine prevale, prima quelli che scendono, (era dalla mattina alle otto che erano bloccati) poi gli altri. Siamo in testa alla colonna, il nostro autista ha la strada libera e scende piuttosto disinvoltamente.
Arrivato a Saspol, una località dove gli autobus solitamente sostano per la pausa the e pipí, il nostro guidatore, ritenendo di essere in ritardo a causa del tempo perso durante l'involontaria sosta, tira diritto al che il mussulmano "porta sfiga", s'incazza da matti e incomincia a vomitare un fiume di parole dirette all'autista. Qualche chilometro dopo ecco una sosta forzata. Abbiamo forato.
Percorriamo un'altra ventina di chilometri ed altra foratura. Non avendo più ruote di scorta decidono di toglierne una dalle quattro posteriori. Per fortuna non ci sono più strade scoscese. Il bramino deve essersi accontentato perché, mentre si procedeva al cambio delle ruote, l'ho visto che, inginocchiato sul suo tappetino rivolto verso la Mecca, si prostrava a ringraziare Allah.
Alle ventuno e trenta, senza più incidenti, arriviamo a Leh dove troviamo posto nella Gast Haus che ci ha ospitato l'altra volta. Cena in un vicino ristorante e finalmente una frizzante Coca-cola.
 
 

9 Agosto 1996 - Venerdì

La prima cosa che facciamo appena svegli é una purificante doccia. La stanza da bagno, che solo otto giorni fa mi faceva arricciare il naso, é diventata improvvisamente un bagno confortevole. Magia del confronto. Diamo tutti i nostri vestiti all'albergatore per portarli in lavanderia, domani saranno pronti.
Fabri va al Bus Stand per prenotare il pullman. Ritorna dopo un'ora e dice che non ci sono problemi, ce né uno domani mattina. Sollecita l'albergatore per preparare la nostra biancheria per la sera. Tutto OK. Ritorna alla biglietteria per confermare i posti, ma gli addetti gli rifiutano i biglietti consigliandogli di usare i "Superlusso". É la mafia dei trasporti indiani!
Rientra arrabbiato e decide di farli prenotare dal proprietario dell'ostello (750 rupie a testa). Non siamo riusciti a concludere il nostro viaggio in bellezza e per colpa di un funzionario corrotto siamo costretti a viaggiare come turisti veri. Dobbiamo sopportare questa vessazione perché abbiamo incontrato un turista inglese che da tre giorni é costretto a sostare a Leh; un giorno non c'era l'autobus, un altro non aveva il numero di targa sul biglietto e il terzo gli avevano scritto l'ora di partenza alle tre mentre i pullman partivano alle due. Il nervosismo per questo contrattempo é a fior di pelle, con Marco Polo é impossibile parlare, ogni sillaba può far saltare i nervi. Gli dico che se non finisce immediatamente prendo il primo aereo per l'Italia e me ne torno istantaneamente a casa. Basta questo per far tornare la normalità.
Cena al lume di candela (manca la corrente), adatta a qualche coppietta in viaggio di nozze, ma un po' meno indicata ad una coppia d'avventurieri girovaghi e brontoloni. Ritirati i vestiti, stirati e profumati e pagato il conto dell'albergo siamo costretti ad aspettare fino alle ventitré per avere il numero di targa del bus e poter rilassare la nostra mente e il nostro corpo in un sonno tranquillo e sereno.
 
 
 

10 Agosto 1996 - Sabato

Con il pullman dei turisti, il risveglio é più gradevole. Si parte alle cinque e trenta e già l'alba rischiara l'universo e i viaggiatori carichi dei loro zaini si apprestano a prendere posto sull'Extralusso. Gli effetti personali non sono caricati sul tetto, ma deposti nel vano porta bagagli, posto sotto la vettura. I sedili sono in velluto e gli schienali ribaltabili. I passeggeri invece sono di varie nazionalità, ma parlano tutti la stessa lingua, l'inglese; malgrado ciò sono più litigiosi: chi ha prenotato prima pretende i posti davanti e chi si accorge che la spalliera reclinabile ha qualche difetto, esige il cambiamento del posto.
Alla fine si parte e molte poltrone sono vuote. L'autobus, anziché prendere la strada per Manali, gira attraverso varie stradine e all'estrema periferia si ferma davanti ad un ciai shop che tutti i viaggiatori prendono d'assalto acquistando caramelle, biscotti e bevendo the, mentre l'autista armeggia intorno al motore cercando qualche guasto. Il tempo passa e non si capisce il motivo della sosta; alla fine è spiegata dal bigliettaio che mastica un po' d'inglese,
" Abbiamo il radiatore che perde acqua e la coppa dell'olio bucata ".
Due guasti che anche il più credulone dei mortali, in un momento di calma e di relax, avrebbe preso a martellate gli incisivi e i canini della bocca del raccontatore di simili scempiaggini. Gli europei invece, calmi e tranquilli, aspettano.
Trascorsa un'ora ecco arrivare il veicolo in sostituzione. É più piccolo e non ci sono posti liberi. Il bagaglio è issato sul tetto con delle corde perché la scaletta per salirvi é rotta, i sedili sono in finta pelle, tutti screpolati e strappati, gli schienali delle poltrone sono fissi e alcuni finestrini sono rotti. Una corriera da "local-bus" e i turisti si affrettano a salire per occupare i posti migliori. Noi siamo, come prima, in penultima fila e non rimpiangiamo il cambio, avendo già fatto un bel tirocinio nei giorni precedenti, anzi siamo contenti di finire il nostro viaggio su quel traballante mezzo, l'unico inconveniente sono i compagni di viaggio, ma non si può avere tutto dalla vita.
Alle sette e trenta lasciamo definitivamente Leh. Percorsi un centinaio di chilometri, lasciato il fiume Indus, entriamo nella famosa valle che all'andata mi aveva impressionato per quelle formazioni di rocce che sembravano schiene di drago, tanto erano diritte e frastagliate. Fotografarle dal finestrino, neanche a parlarne, siamo dalla parte sbagliata, sono troppo vicine e non ci sarebbe prospettiva. La fortuna ci viene incontro: dopo qualche chilometro siamo costretti a fermarci: una valanga di fango, dovuta ad un temporale notturno, ha sommerso la strada.
Lasciato il pullman e superati a piedi tutti gli automezzi in sosta, al bordo della via, arriviamo sul luogo del disastro. Da una delle valli si era riversata sulla carreggiata, per un tratto di cinquanta metri e un'altezza di un metro, una poltiglia rossa che, se non fosse per il colore, si potrebbe definire una polenta molle. Un camion, evidentemente per premura, confidando nella potenza del suo motore, ha cercato di passare salendo sulla costa della montagna, ma é rimasto impantanato nella melma fino all'altezza delle portiere.
Una cinquantina di donne, armate di badile, cantando una nenia lenta ma continua, per darsi il ritmo, spalano il limo in un'impresa ciclopica. Quattro turisti di lingua britannica, memori forse dell'alluvione di Firenze, dove erano giunti ragazzi da tutto il mondo per pulire la città dal fango, levate le scarpe e rimboccati i pantaloni, si uniscono alle povere forzate, ma il loro sacrificio risulta vano, dato l'enorme ostacolo che bisogna superare. Dopo un'ora d'attesa arriva una grossa pala meccanica dell'esercito che nel giro di mezz'ora riesce a creare una trincea e acconsente ai veicoli un provvisorio passaggio.
Incomincia la salita al Taclang-La (mt. 5.317) dove sostiamo per qualche minuto. Solo per scendere dal pullman, fare quattro passi, fare pipí e risalire i tre gradini per ritornare al posto, il cuore accelera i battiti e il respiro si fa affannato. Un po' più d'ossigenazione ai polmoni intossicati dallo smog del mondo occidentale e dal fumo di sigarette cancerogene, non può che essere benefico!.
Scendiamo al fondovalle (mt. 4.500) e proseguiamo per una cinquantina di chilometri in una pianura desertica e alla sera verso le venti, il Torpedone si ferma per la sosta notturna. Al bordo della strada c'é una tendopoli e il gestore del campeggio pretende centocinquanta rupie per trascorrere la notte. Fabri decide di montare la sua tenda, ma il guardiano lo allontana asserendo che il terreno é privato e che se vuole campeggiare lo può fare dall'altra parte della strada. Alla luce delle lampade tascabili non si riesce bene a capire la consistenza del terreno, ma il cocciuto non demorde. La sera é fredda, con un bel vento e nuvoloni sulle cime dei monti. Da parte mia, settemilacinquecento lire, per trovare la capanna già montata senza crearmi tutto il casino per impiantare tutta la struttura le avrei pagate volentieri, ma il vero escursionista, nel farlo, avrebbe sminuito il proprio orgoglio.
Io decido di passare la notte sul torpedone perché siamo ad un'altezza che il mio "accendino altimetrico" segnala troppo elevata. É un comune accendisigari a gas che ad una quota superiore ai quattromila metri si rifiuta di accendersi e appunto a quest'altitudine non riesco a respirare bene, stando sdraiato.
Sul pullman ci sono altri viaggiatori che non si sono fatti taglieggiare dal racket che organizza i "Superbus". Gli unici posti liberi che trovo sono i primi due vicino alla portiera, perché mentre aiutavo l'intrepido avventuriero a montare la sua casetta gli altri si sono accaparrati tutti i posti in fondo e anche il corridoio, sdraiandosi nei loro sacchi a pelo. Nel buio più assoluto é impossibile superare quel groviglio di corpi, ma avendo il mio piumino mi autoconvinco di essere ben protetto. La portiera é spalancata e non c'é la possibilità di chiuderla essendo elettrica. O chiusa o aperta!. Il freddo della notte diventa sempre più pungente, i due sedili sono troppo stretti per potersi sdraiare e l'aria che entra mi accarezza da tutte le parti. Nel rimanere inattivo mi sembra sia passata un'eternità, ma ho paura a guardare l'orologio e scoprire che ho trascorso solo un'ora in questa scomoda posizione.
 
 
 

11 Agosto 1996 - Domenica

Alle quattro vedo che nel campo dove si era attendato Fabrizio brilla una luce. L'autista ieri sera aveva detto:
" Partenza alle cinque ".
Così Fabri, per non arrivare in ritardo, si era dato per tempo il compito di smontare la tenda. A causa della difficoltá della lingua avevamo capito partenza al posto di sveglia. Poco male, una passeggiata di qualche chilometro verso valle e altrettanto di ritorno é servita a far circolare il sangue verso i piedi che dal freddo si erano intorpiditi e che non sentivo più.
Si parte alle sei e solo due passi ci separano dal verde dell'India e da queste montagne di terra e sassi, il Lachalang-La e il Baralacha-la. Il primo lo superiamo alla mattina in una splendida giornata di sole senza eccessive difficoltà. Verso mezzogiorno avvicinandosi al secondo valico, incominciano i problemi. Quando siamo passati la prima volta la strada era normale, ora non esiste più, si passa su un terreno fangoso e su una pista malsicura che le ruspe, dopo questi smottamenti, hanno cercato di ripristinare.
Durante la sosta prima dell'ultimo colle Fabri, osservando le nuvole sulle cime, pronostica la fine delle giornate serene.
Si sale su una strada tutta in rifacimento con squadre di operai che alacremente rattoppano il manto stradale e dopo due guadi attraversati a piedi, perché ritenuti troppo pericolosi dal nostro autista, entriamo nelle nuvole.
Incomincia la pioggia e la profezia del neo "Bernacca" si avvera. Si scende verso Manali accompagnati da una leggera pioggerella che ci nasconde una bella porzione di paesaggio, ma che s'intuisce completamente mutato. Le nuvole, che non riescono a superare le alte cime, scaricano su questo versante il loro carico di umidità e di conseguenza la vegetazione cresce abbondante e rigogliosa.
Arriviamo a Manali alle sedici e trenta e immediatamente c'infiliamo nel ristorante cinese e innaffiamo le gustose vivande, spaghetti al sugo di montone e pollo fritto con patatine, con due grosse bottiglie di birra. Pieni come uova saliamo su una "moto-taxi" che ci porta a New Manali dove troviamo ospitalità presso la stessa famiglia che ci ha alloggiato dieci giorni fa.
 
 
 

12 Agosto 1996 - Lunedì

Scendiamo in città perché dobbiamo acquistare alcuni generi di prima necessità come riso, fagioli, lenticchie, farina, sigarette, candele, marmellata, che dovranno provvedere al nostro bisogno alimentare in una paesino sperduto in mezzo alle montagne della "Val Parvati". Località scelta dal fantasioso Marco Polo, adatta a ritemprare il corpo e a rilassare lo spirito nella contemplazione delle valli circostanti. Stiviamo tutto in un grosso sacco e con la solita motoretta ritorniamo a casa.
Fabri ritorna in paese per acquistare altri prodotti che c'eravamo dimenticati e al ritorno tutto felice m'informa che ha prenotato un taxi per l'indomani mattina alle otto. Peccato, potevamo rimanere un giorno in più in questa cittadina così accogliente con i suoi ristoranti così invitanti, ma la vita primitiva lo incalza ed é giocoforza seguirlo.
A sera decidiamo di dar fondo al nostro "budget" e ci rechiamo al ristorante "Pizza e Spaghetti" gestito da una coppia di italiani. La cena é da pranzo nuziale, due pizze margherita in attesa che il pastaio prepari la pasta fresca per due succulenti piatti di tagliatelle al sugo di peperoni; il tutto innaffiato da birra -a volontà-. La risalita per il riposo notturno sarebbe stata uno spreco inutile di energia, perciò taxi e via, non prima di aver telefonato a Milano per avere e dare notizie.
 
 

13 Agosto 1996 - Martedì

Carichi come somari ci apprestiamo a portare i nostri bagagli verso il taxi, attraversando alcuni cascinali, su un sentiero che la pioggia della notte ha reso melmoso, impastando con la terra lo sterco di mucca. Si sprofonda fino alle caviglie, per fortuna in prossimità della vettura un ruscello di scolo, con acque meno sporche, ci dà la possibilità di risciacquare il lordume.
Nessuna difficoltà a giungere a Manikaran e anche l'attraversamento del luogo, dove quindici giorni fa ci fu il mio primo guado. Hanno ricostruito la strada un po' più a monte e tutto funziona a meraviglia.
Questa volta pretendo di andare in albergo, voglio finire in bellezza il viaggio che ritengo interessante e istruttivo. Se dovessi dare un giudizio schietto non potrei negare che il fascino delle nostre Alpi o quello delle Dolomiti é superiore di gran lunga a quello delle montagne visitate in questo viaggio, ma la grandiosità di codesti cumuli di terra e la strada che li unisce sono uno spettacolo che non si può dimenticare.
Faccio una scappata all'Hotel Parvati per farmi una sacrosanta doccia con acqua calda e prima che il sapone incominci a fare schiuma devo fare ben quattro risciacqui.
Una frugale cena con brodo e fagioli conclude la prima parte dell'avventura indiana compiuta con spirito baldanzoso da parte del decrepito, vecchio, stagionato e incanutito casalingo.


Home Page