Val Parvati



14 Agosto 1996 - Mercoledì

    La strada che da Buntar sale lungo la val Parvati, termina di fronte al paese di Manikaran, un grande piazzale sempre ingombro di pullman e taxi, in partenza o in arrivo, che trasportano centinaia di turisti che passano un periodo di svago in questa località, dove una sorgente d'acqua calda fa di questo centro, un'importante stazione termale. Dal gran parcheggio si attraversa il fiume Parvati su un ponte di ferro sostenuto da quattro pilastri in pietra, camminando sopra una larga passerella in tavole di legno un po' sconnessa, ingombra di piccole mucche che placidamente fanno la siesta.
    Oltrepassato il ponte si entra nel borgo che, costeggiando il fiume, si allunga sulla via principale per circa cinquecento metri con casette di sassi impastati con argilla e sterco di vacca. Piccoli ristoranti, guest house, alberghetti, un Tempio di fede induista e, alla fine del paese, un grosso albergo dalla capienza di un migliaio di persone riservato ai Sikh, completa l'agglomerato del villaggio.
    Salendo per le strette e ripide stradine, che intersecano il corso principale, ci sono le abitazioni dei locali, gente d'origine modesta, abituata a sopportare con dignità i disagi della povertà che l'ambiente montano intensifica.
    Per la maggior parte dei villeggianti questa é la meta raggiunta. Il loro svago consiste nel compiere brevi passeggiate nei boschi che circondano la zona o nell'immergersi nelle vasche d'acqua calda, che ogni albergo mette a disposizione. C'é anche un cinematografo, che, attraverso lo schermo televisivo, manda in onda dei films registrati su cassette.
    La giornata é piovosa ma noi dobbiamo partire, i portatori che si caricheranno i nostri sacchi sulle spalle sono prenotati per le nove. Lasciamo la popolazione integrata nella civiltà "industriale" ed entriamo in una nuova dimensione.
    Salendo per una ripida mulattiera e costeggiando l'irruente fiume Parvati si prosegue a mezza costa con un percorso alternato da tratti di sentiero con parti di strada in costruzione, cosparsa di detriti di roccia staccati dalla montagna sovrastante a colpi di mina, che i nepalesi addetti alla costruzione fanno brillare giornalmente, nell'intento di eliminare i massi che rendono pericoloso il passaggio. Gli unici a percorrere questa zona sono animali e uomini appiedati, che s'inoltrano nel paesaggio Himalajano e s'amalgamano nel territorio, come i canditi nell'impasto del panettone.
    La camminata non é molto impegnativa, si parte da un'altitudine di duemila metri e si arriva a duemilacinquecento s.l.d.m., in quel di Kalga, ma la lunghezza del percorso é di ben sedici chilometri e per un sessantaquattrenne non allenato sono messi a dura prova sia i muscoli sia i polmoni. Ho impiegato sei ore, ma la difficoltà é anche dovuta alle avverse condizioni meteorologiche che obbligano a tenere la giacca impermeabile e si suda più del normale. In alcuni punti la fanghiglia arriva fino alle caviglie e obbliga a raddoppiare l'attenzione per non scivolare in qualche scoscesa scarpata.
    Sono partito assieme ai portatori, ma dopo poche centinaia di metri sono già staccato. Dopo aver percorso una decina di chilometri un dolore al ginocchio destro mi obbliga a camminare zoppicando, mentre il piede sinistro martoriato da un callo mi fa vedere le stelle in pieno giorno. L'ultimo tratto di salita avviene su un sentiero fiancheggiato da cespugli ed alte erbe che l'umidità della pioggia n'aumenta il disagio.
    In cima si sbuca su un pianoro e le difficoltà dovrebbero essere finite, ma i campi sono seminati a granoturco e per attraversarli bisogna percorrere un viottolo che serpeggia tra le piante alte due metri che rendono nulla la vista del paesaggio e che, con le loro larghe foglie inzuppate d'acqua piovana, ti bagnano in ogni dove. Percorrere l'ultimo chilometro che separa la fine della salita dalla casa é come inoltrarsi in una giungla, ma le rassicuranti descrizioni avute in precedenza mi confortano dell'assenza d'animali feroci che potrebbero rendermi la vita difficile. Ogni tanto in mezzo al fogliame s'intravede qualche capanna, ma il rimanente é solo foglie bagnate.
    Finalmente arriviamo. Ecco una costruzione in legno e pietre che s'innalza sulla spianata dell'immaturo granoturco. Al piano terra due locali: uno adibito a ripostiglio per il "macis" e l'altro per il ricovero dei bufali, usati dai contadini durante il periodo del raccolto e dell'aratura. A sinistra della costruzione, una rudimentale scalinata composta da lastre di pietra appoggiate le une sulle altre, conduce al piano superiore dove un ballatoio in legno, largo due metri, gira intorno ad un locale destinato ad abitazione. C'é anche una veranda di quattro metri per tre che confina con il retro della casa, utilizzato come deposito per il fieno e la paglia.
    La camera é grande quattro metri per quattro e prende luce da una finestra con un'apertura di un metro per un metro. Nel centro della stanza una stufetta di ferro, lunga quaranta centimetri, larga trenta centimetri, e alta venticinque centimetri, serve sia per il riscaldamento sia da fornello per cuocere le vivande. Sostenuta da tre blocchi di legno, una tavola lunga due metri e dalla larghezza di trenta centimetri, addossata ad una parete, serve per tenere il pentolame e i vasi delle derrate alimentari in bella mostra.
    Intanto che Fabrizio, con i portatori, si reca presso il proprietario della nostra magione per recuperare alcuni cassoni, contenenti i suoi effetti personali, io raccolgo un sacco dall'assito del balcone e, sicuro varco la soglia della piccola dimora: "BADA ..BANG!".
    Una sonora craniata, contro lo spigolo della porta (alta solo un metro e cinquantotto centimetri), mi annebbia la vista per qualche secondo e, a causa del bernoccolo, mi trasformo in "unicorno". Devo ringraziare il berretto se non mi sono procurato una lesione lacera contusa, perché in questo luogo non c'é un dottore per le medicazioni del caso e bisogna ripercorrere i sedici chilometri per trovare un ambulatorio.
    Non c'é la corrente elettrica; bisogna usare le candele.
    Non c'é l'acqua; bisogna andarla a prendere alla fonte distante qualche centinaio di metri.
    Non ci sono servizi; bisogna arrangiarsi tra i cespugli del sottobosco.
    Tutto questo mi porta in una nuova realtà: la condizione dell'uomo primitivo, anche se c'é la possibilità di trovare qualche genere alimentare ad un'ora di cammino presso l'unico negozio che si trova a Pulga e non c'é bisogno di andare a caccia per sopravvivere.
    É quasi sera quando esco a fare pipí tra le piante del granoturco e improvvisamente mi sento toccare i polpacci. Un urlo disumano, da parte mia, fa spaventare il povero cane che era venuto a farmi le feste, per accattivarsi la benevolenza del nuovo arrivato.
    Il primo impatto con la vita tranquilla del montanaro non é stato esaltante, speriamo, con il tempo, di familiarizzare con questa placida atmosfera che avvolge col suo manto vellutato codesta porzione di mondo.
 
16 Settembre 1996 - Domenica

    Sono passati due mesi dalla mia venuta in India, sono anche trenta giorni che mi trovo in questo posto e piano piano comincio ad abituarmi alla tranquilla quiete agreste che mi circonda. Per continuare la cronaca di questo periodo estrapolo dal mio diario la descrizione di una giornata campione.
    Ci si sveglia al gracchiare di qualche corvo, che si posa sulla veranda e con il suo melodioso gorgheggio rompe l'incanto della quiete notturna, costringendo il povero dormiente a prendere coscienza della realtà. Si esce dal sacco a pelo e a questo punto inizia la giornata.
    La prima incombenza che si presenta é quella di accendere il fuoco e per far ciò occorre rompere, con una pesante accetta, un piccolo tronco di legno e farne dei minuscoli listelli affinché con la carta recuperata da qualche pacchetto di sigarette vuoto possa essere acceso nel "tamduri" che si trova nel mezzo della stanza per far bollire il caffè ed il latte, per la colazione mattutina, latte che tutte le mattine troviamo fresco presso il ciai shop. Per procurarcelo dobbiamo percorrere un centinaio di metri in mezzo alle piante del granoturco e quando piove la quantità d'acqua che per contratto ci aspetta dal cielo, è raddoppiata dal rovesciarsi di quella contenuta tra le sue foglie, al nostro passaggio.
    Durante il tempo in cui si fa colazione una pentola provvede a riscaldare l'acqua, sfruttando il calore della stufetta che languidamente si spegne, e successivamente essere usata per la pulizia del corpo. A questo punto, la giornata, come recitano i depliant, con le copertine patinate delle Agenzie Turistiche, "É completamente a disposizione".
   
La descrizione di tutte quelle piccole operazioni che aiutano a far trascorrere la giornata, in una capanna di montagna, sono talmente tante, varie, e personali, che ognuno potrebbe sfruttare le proprie possibilità con attività completamente diverse e alla fine raggiungere lo stesso risultato. Arrivare alla sera!
    In questo territorio non esistono pericoli considerevoli perché i racconti d'orsi che scendono fino ai paesi sono solo delle voci per sentito dire, ma nessuno in verità non ne ha mai visto uno.
    Quello che mi ha coinvolto, invece é stato un gruppo di scimmie, che hanno invaso il campo di fronte alla casa, strappando le pannocchie del granturco e creando un bel danno al proprietario del podere. Non sembrano pericolose per l'uomo, ma quando percorro il sentiero e vedo il capobranco fermo sul viottolo, mentre le femmine con i piccoli sono appollaiate su una pianta saltando da un ramo all'altro, il passo rallenta fino a fermarsi completamente e fare un bel dietro front, aspettando che il gruppo decida di cambiare zona. Non serve avere un bastone per difendersi, il quadrumane é abbastanza grosso da attaccarmi e il morso delle scimmie é meglio evitarlo.
    Un altro animale che mi rende la passeggiata stressante é la serpe, velenosa o innocua é sempre strisciante, quando la vedo zigzagare davanti ai piedi penso che il pericolo é passato, ma l'attenzione diventa ossessiva ad ogni vibrare di fronda, i peli del corpo mi si raddrizzano tutti e un brivido mi passa attraverso l'epidermide come un terremoto che fa sussultare la crosta terrestre. Viaggio sempre con un bastone, ma mi limito a batterlo come un cieco, sul polveroso sentiero, non ritenendomi un giustiziere venuto in India ad assassinare gli animali. Loro già c'erano! Io ci sono venuto!
    Un animaletto altrettanto sgradevole è la scolopendra, una bestiola della famiglia dei centopiedi, che può raggiungere la lunghezza di venti centimetri, dalla vita notturna; se la schiacci con un piede scalzo, o una parte scoperta del corpo, inietta una sostanza velenosa che procura febbre e vomito. Nelle abitazioni, per conformarsi con l'usanza indiana, non si tengono le scarpe, ma si va a piedi nudi. Le scarpe inzaccherate dallo sterco di mucca e non, si lasciano fuori della porta. In casa, durante i tre mesi di soggiorno, ne abbiamo catturate una decina, ma erano lunghe solo sei o sette centimetri.
    Altri animali pericolosi in questa parte Dell'India non ne ho visti, ma mi sono ben guardato dall'andare in posti isolati e lontano dai sentieri ben battuti.
    Allo scoccare dell'una pomeridiana, per evitare che lo stomaco incominci a brontolare per carenza di lavoro, usciamo per recarci presso uno dei tre ciai shop alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare, scegliendo da un menu variegato. Ciapati, Paratha, Dal e Rajma.
    Ciapati Acqua, farina, poco sale, il tutto impastato; con il matterello si fanno dei sottili dischetti del diametro di venti centimetri, messi su una piastra calda per un minuto si fanno delle pizzette che sostituiscono la nostra vetusta michetta.
    Paratha Lo stesso tipo di pasta, ma rotolata come bignè con dentro, verdure, marmellata, frittata, etc.
    Dal Una zuppa con piselli, verdura, e molte spezie.
    Rajma Come sopra, ma con fagioli.
    Queste ultime due pietanze sono servite con un piatto di riso bollito, oppure con ciapati. Io preferisco la versione con ciapati perché il riso viene subito freddo e al mio palato diventa stomachevole.
    Verso l'imbrunire torniamo al nostro rifugio portando due taniche di acqua che abbiamo riempito al rubinetto della fontana, che lentamente, oltre al liquido potabile, ha lasciato scorrere anche particelle di terra che, a secondo delle perturbazioni atmosferiche, é più o meno marrone. "No problem" come dicono i locali, noi abbiamo un filtro ceramico e quella che beviamo é sempre limpida e cristallina.
    Alla sera, al lume di candela, ci si può sbizzarrire a preparare una cena tipo casereccia con pasta e "sughi" che qualche turista appena arrivato dall'Italia mette a disposizione della collettività, oppure approvvigionate periodicamente in qualche località distante una cinquantina di chilometri.
    Chi si é sbizzarrito di più é stato Jonny, del quale siamo perennemente ospiti, insieme a un nutrito gruppo che può variare da un minimo di quattro a uno più considerevole di quattordici, tutti affamati, che dividono equamente il contenuto del succulento pentolone, elogiando il bravo cuoco per gli squisiti sughi che sa preparare.
 
19 Ottobre 1996 - Sabato

    Le giornate cominciano ad accorciarsi, di giorno il sole é bel caldo, ma di notte si sente un po' di freddo. I campi, dopo il raccolto del macis, sono stati dissodati con un vomere di legno tirato da due bufali guidati da un vociante aratore che dirige i due bovini, tra i grossi sassi che ingombrano il terreno, con grida e leggere bastonate sul posteriore dei quadrupedi in un lento, ma continuo calvario. Le erbe, ai bordi dei sentieri, cominciano a seccare e le foglie dei cespugli ingiallite cadono dai rami, diradando il groviglio del sottobosco e tutto sembra meno foresta.
    A questo punto, dopo due mesi d'acclimatamento, decido di salire a Kirganga seguendo un sentiero che in dieci chilometri mi porterà ad un'altezza di tremila metri. Ieri avevamo deciso di partire in quattro, ma oggi, chi per un motivo, chi per un altro, rinunciano alla faticata. Nel momento in cui sono pronto psicologicamente per intraprendere una "spedizione" i contrattempi che non dipendono da me non mi scoraggiano; così, caricato sulle spalle il sacco di montagna contenente il necessario per il bivacco notturno, alle dieci del mattino m'incammino lungo lo sconosciuto sentiero confortato dalle indicazioni di chi conosce la strada che mi assicura che non potrei sbagliare il percorso.
    Alti pini e un sottobosco di tenera erbetta, mi fanno sembrare di essere fra le nostre prealpi lombarde e in mezzo a questo scenario faccio una sosta presso l'ultimo ciai shop, del nostro pianoro kalghese, per un'abbondante colazione a base di the, uova sode e frittata. Qualche pacchetto di biscotti, infilato nelle tasche, dovrebbe servire per recuperare le energie durante la marcia.
    Dopo qualche chilometro incontro la prima difficoltà. L'attraversamento di un fiumiciattolo su un ponticello composto da due tronchi lunghi quattro metri sui quali devo passare per raggiungere la riva opposta. Il primo tentativo é vano, fatti due passi mi sento attirato dall'acqua che scorre sotto, cosi ispeziono più a monte il torrente e, data la poca portata idrica, in quel momento mi é possibile, saltando di sasso in sasso e bagnando anche le scarpe, raggiungere la sponda antistante senza ulteriori disagi.
    Si prosegue in mezzo ad un bosco di pini frammisto con qualche albero di castagno, con il terreno coperto da alte felci che non permettono di uscire dal sentiero, peraltro ben battuto e affatto pericoloso. Si procede a mezza costa con il fiume più sotto di qualche centinaio di metri.
    Lo s'intuisce dal rumore perché il folto della vegetazione ne impedisce la vista. Non c'é anima viva, sono solo in mezzo ad una foresta, in lontananza, da qualche parte, si sente il ritmico picchiettio di un boscaiolo intento a portare a termine il suo lavoro e il fatto m'incoraggia a proseguire. Non abituato al rumore della giungla, ogni piccolo scricchiolio mi fa pensare a chissà quale animale e se poi il mio sacco sfrega contro qualche ramo troppo basso, il cuore comincia a pompare con nuova vigoria fino a quando, non ho scoperto il motivo dell'interferenza che ha allertato, il mio istinto di conservazione.
    Dopo tre ore di marcia un nuovo ponte si para davanti. Il torrente é molto più grande e impetuoso del primo. Tre tronchi lo scavalcano e siccome non c'é possibilità di guado bisogna o passare o tornare indietro. Decido, anche se il sistema non é molto alpinistico, di attraversarlo a quattro zampe con ginocchia, mani, e... testa, ben concentrati sul da farsi. Passo. Fatto!!!
    Superate le difficoltà equilibristiche incominciano quelle fisiche. Il sacco sulle spalle incomincia a diventare pesante, l'altitudine si fa sentire e ad ogni passo bisogna tirare un bel respiro ma, calcolando il tempo trascorso dalla partenza, deduco di essere quasi arrivato e nuova vigoria, coadiuvata dai famosi biscotti, mi dà la carica per persistere nella spedizione.
    Improvvisamente il paesaggio cambia e compare uno spiazzo di circa un chilometro quadrato, sempre in ripida pendenza, ma soleggiato, con mucche al pascolo e tre costruzioni in pietra che potrebbero accogliere un viandante quasi sfinito. Quello che si staglia sulla sinistra é uno ciai-shop, quella più in alto della radura é una vasca con acqua calda che sgorga da una roccia e l'ultima, sulla destra, é la capanna di un "Baba" verso la quale devo dirigere i miei passi.
    Intanto che ammiro quest'immagine mi sento chiamare ed é Anselmo, che, avendo saputo che ero salito da solo, mi ha seguito per farmi compagnia. Faticosamente percorro gli ultimi metri, incitato anche da altri tre italiani che sono saliti il giorno prima.
    In una capanna di sassi, coperta con teli di plastica, siamo cinque italiani, un cinese-tibetano e due baba; uno é di passaggio, l'altro é il titolare.
    Deposto il sacco in un angolo ci rechiamo alla vasca dell'acqua calda ed é molto spettacolare, nelle prime ombre della sera, immergerci in questa piscina tra il gorgoglio della cascata che l'alimenta ed il fresco della sera che irriverente ci aspetta all'uscita per sferzarci con il suo alito pungente. Intanto mi rilasso, e anche i muscoli adduttori ne traggono beneficio tanto che, quando emergo, non sento più né la stanchezza né il dolore alle gambe che immediatamente dopo l'arrivo si erano prepotentemente manifestati.
    Rientriamo nella nostra dimora e troviamo un piatto caldo di lenticchie che nel frattempo il baba ci aveva cucinato. La serata, da parte degli italiani, viene allietata da racconti più o meno veritieri sulle proprietà taumaturgiche di questo pseudo santone che premuroso ci ospita, poi al termine, stendiamo i nostri sacchi a pelo sulla nuda terra e io sprofondo nel riposo notturno.
 
20 Ottobre 1996 - Domenica

    Sono le otto del mattino quando il cino-tibetano intona una nenia in onore a Schiva e il suo canto, prima sottovoce, poi con maggior vigore ci sveglia. Alcune parolacce in italiano indirizzategli da uno del gruppo lo zittiscono immediatamente, ma ormai siamo svegli e ci alziamo tutti
    Il cielo é leggermente coperto e l'arietta é un po' fresca. Dopo una notte di riposo, chiuso nel sacco di piumino d'oca, le uniche cose che stentano a riprendere vigoria sono le articolazioni, che hanno preso la forma del terreno un po' sconnesso, ma dopo qualche stiramento tutto ritorna normale. Noi eravamo ben coperti, nei nostri sacchi, ma il tibetano con un semplice gonnellino e una camicia, ha dormito con una leggera coperta e deve aver sentito un bel freddo.
    Dopo aver bevuto un caldo ciai preparato dal baba, incomincio a guardarmi in giro e noto che la piccola costruzione é larga circa tre metri e lunga una decina. L'entrata ha un'apertura di due metri senza nessuna porta e sul fondo una finestra senza infissi arieggia il lungo locale.
    Dentro la stamberga, vicino all'ingresso, c'é una fossa scavata nel pavimento, con un fuoco sempre acceso che serve, sia per il riscaldamento, che per la cottura delle vivande. Sulle braci ardenti basta posare una pentola con l'opportuno contenuto commestibile che in men che non si dica incomincia a bollire. Intorno al duni (così si chiama quel fuoco), alcune tavole di legno appoggiate su grossi sassi formano delle basse panchine dove, seduti in circolo, gli ospiti passano il loro tempo libero. Il fumo che si forma nello stanzone viene espulso a secondo di come tira il vento, o dalla finestra, in fondo, o dalla porta. Il resto del locale é adibito a dormitorio e stando un po' stretti si potrebbe coabitare anche in dieci.
    Le pareti sono in pietra, sasso sopra sasso formano un muretto alto un metro e mezzo sul quale sono appoggiati dei paletti che si posano sulla parete di fronte, alta due metri, così da formare uno spiovente per far scaricare l'acqua piovana. La copertura del tetto é fatta con fogli di plastica, alcuni neri, altri azzurri, evidentemente materiale di recupero. Fuori, la grande radura punteggiata da radi cespugli con qualche grossa pianta, crea un ambiente simile ai nostri pascoli alpini, mentre tutt'intorno la gran foresta di conifere ne delimita il perimetro.
    Il povero samurai sentendosi l'unico "straniero" della compagnia, raccatta la sua coperta, impugna il suo bastone e parte per sconosciuta destinazione. Il nostro baba mette sul fuoco una pentola e prepara una polentina di ceci che divoriamo con avidità, criticando la bravura del cuoco che aveva preparato un intingolo schifoso.
    Usciamo per andare a farci un bagno alla calda sorgente e mi avvalgo dell'occasione, per lavare alcune magliette e un maglione, portati appositamente fin quassù per il bucato settimanale. Il cielo intanto si fa scuro sempre più e qualche gocciolone ci obbliga a rientrare frettolosamente. Verso sera, un temporale con lampi e tuoni, fa presagire una nottata turbolenta, perché dalla fatiscente copertura del tetto, entrano diversi rivoletti d'acqua, ed é un affrettarsi a spostare i nostri sacchi a pelo, che tra l'altro sono già un po' bagnati.
    Avendo criticato la bontà della cucina locale i miei compatrioti decidono di cucinare con le provviste che si sono portati e cominciano a fare un soffritto con olio "italiano", cipolle, aglio e patate a pezzettini. Uno del gruppo suggerisce di mettere anche una tavoletta di cioccolato e siccome riceve una scherzosa risposta tipo;
    " Ottimo, sarebbe il non plus ultra ",
    PLAFF nell'intingolo che frigge finisce un bel pezzo di cioccolato al latte subito acclamato da tutti gli altri con:
    " Ma sei proprio un deficiente! ".
    Il pentolino per cuocere gli spaghetti non é molto grande ed é già una fortuna che riusciamo a farne bollire mezzo chilogrammo.
    Non proviamo nessuna delusione nel costatare che il nostro baba non divide con noi la magra cena, ma anche un etto di spaghetti a testa sono pochini. Intanto che noi ci abbuffiamo il nostro albergatore prepara il solito ciai nel quale intingiamo alcuni pacchetti di biscotti e la serata finisce nel migliore dei modi.
    Sistemandoci negli angoli meno umidi del dormitorio notiamo che l´intensità della pioggia é molto diminuita e uscendo per fare pipí, prima di dormire, scopriamo il motivo. Sta nevicando. Tutti siamo contenti, almeno il problema del tetto gocciolante é finito.
 
21 Ottobre 1996 - Lunedì

    Un silenzio ovattato ci ammorbidisce il risveglio. Attraverso il vano della porta, i fiocchi di neve si vedono dondolare nel grigiore del cielo prima di posarsi sul candido manto alto ormai una decina di centimetri. La foresta d'abeti che circonda la radura é imbiancata ed é una visione natalizia. Anselmo ed Io decidiamo di ritornare a Kalga. Marco, che tra l'altro fa la guida alpina, ci consiglia di rimandare la partenza perché il sentiero é scivoloso, ma siccome le previsioni meteorologiche, così ad occhio, sono stazionarie e prevedendo che lo strato nevoso durante la giornata possa aumentare, rimaniamo fermi nella nostra decisione.
    Ci propongono di andare a fare un bagno caldo in mezzo alla neve, ma il pensiero di spogliarmi mi fa correre un brivido nella schiena e respingo la proposta. Metto nello zaino gli indumenti ancora bagnati che ho lavato ieri, aumentando notevolmente il peso della zavorra e partiamo di buona lena. Gli scarponi da trekking tengono bene anche su questo ripido pendio, lasciando le loro impronte sull'immacolata superficie bianca, mentre il maledetto callo sembra ammansito dall'atmosfera prenatalizia che lo circonda.
    Terminato il tratto scoperto, il sentiero entra nel fitto bosco, e anche se la neve che lo ricopre é poca, perché la maggior parte é trattenuta dai rami, la mulattiera é ugualmente scivolosa, a causa dello stillicidio di gocce che dalle fronde cadono come pioggerella. Alcuni passaggi sono pericolosi, ma con molta attenzione vengono attraversati senza spiacevoli ruzzoloni. In un pezzo più ripido, mentre con una mano mi tengo in sicurezza aggrappato ad una rientranza della roccia, mi scivola il piede e, perdendo l'equilibrio, vado a sbattere con violenza lo zigomo sinistro contro il masso al quale mi sono ancorato. Vedo scuro per alcuni secondi, ma, dolore a parte, penso agli occhiali che, dopo l'impatto, possono uscire malconci. Quando, rimessomi in equilibrio, costato che le lenti non hanno subito gravi danni, ringrazio l'Himalaya di avermi dato solo un buffetto d'iniziazione per aver osato calpestare la sua imponenza senza un'approfondita esperienza.
    Arrivato senza ulteriori disagi nella zona dove ci sono i due fiumi da scavalcare ed avendoli, Anselmo, oltrepassati con disinvoltura, m'impongo di imitarlo, solo un po' più piano, e passino dopo passino, stringendo la parte che se l'allarghi te la fai addosso, mi trovo orgogliosamente sull'altra sponda.
    Il peso dello zaino non risulta opprimente come durante la salita: quando si scende il peso diminuisce, di conseguenza la marcia dura solo tre ore. Dalla neve, alla pioggia, al quasi sereno, é stata una bell'esperienza, che non mi servirà per arrivare agli ottomila e rotti dell'Everest, ma a sessantacinque anni, ho visto dove comincia la strada.
    "MA CHE MÉ FREGA!, TANTO IO NON CI ANDRÒ MAI!!!??".
 
6 Novembre 1996 - Mercoledì

    Sono trascorsi quasi tre mesi da quando, stravolto dalla fatica, sono arrivato in questo sperduto ambiente e molte valutazioni si sono accumulate nel mio bagaglio d'esperienze, osservando e meditando sul comportamento di queste popolazioni che sopravvivono senza drammatizzare alle loro condizioni con fierezza e dignità.
    Già da qualche giorno s'incontrano lunghe colonne di greggi che scendono dagli alti pascoli preparandosi a svernare in ovili più accoglienti, al riparo dal gelo invernale, oramai alle porte. Anche le giornate si sono accorciate al punto che alle cinque e trenta di sera é già buio e l'aria é sempre più frizzante tanto che si comincia ad indossare anche la giacca a vento. Seguendo l'esempio dei pastori e dei loro armenti riteniamo sia tempo di transumanza e ci apprestiamo a lasciare questa vallata per raggiungere regioni con clima più mite.
    Volevo partire più presto, ma il contrasto tra il tepore del sacco a pelo e la fredda temperatura esterna stimola il desiderio di restare a poltrire ben avvoltolato nel caldo giaciglio. Comunque mi alzo alle nove e mentre Marco Polo é indaffarato a mettere tutta la sua roba nei cassoni di lamiera perché chiude la casa per qualche mese io incomincio la calata verso la gente caotica che si muove indaffarata per il ritmo imposto dalla società del benessere.
    Sono le dieci quando stringo la mano all'ultimo indiano di Kalga e incomincio la discesa, lasciando alle spalle il pianoro che per tre mesi, mi ha visto bighellonare come un solitario "Pitaji" in cerca di frescura e di tranquillità. Addio, giovani e vecchi indiani della val Parvati, forse non vi rivedrò mai più, ma la cortesia e il vostro sorriso resteranno nel mio cuore come un bel ricordo. Grazie.
    Impiego le solite cinque ore per arrivare a Manikaran, sempre a causa di quel fottuto callo che mi fa vedere le stelle ad ogni passo, ma la meta alfine é raggiunta e la solita tonificante calda doccia mi farà tornare vispo e pulito, pronto a buttarmi a capofitto in una nuova esperienza indiana.


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