Storia
Il Comune di Portici è
situato alle falde del Vesuvio in un territorio estremamente fertile e dal clima
mite: infatti, nell'antichità, la zona era nota ai Romani come luogo di
villeggiatura. La città sorse però più tardi e si trova menzionata per la
prima volta solo nel 728 d.C.
Il suo nome, secondo alcuni autori, deriverebbe
dai portici del foro dell'antica Ercolano, mentre secondo un'antica leggenda
Portici sarebbe stata fondata dai romani intorno alla Villa Pontii di Quinto
Ponzio Aquila, nobile romano, congiurato contro Cesare, caduto nella battaglia
di Modena del 43 a.C. A conferma di tale leggenda, ci sarebbe il reperto,
ritrovato sotto gli scavi di Palazzo Mascabruno, raffigurante un'aquila,
attualmente emblema dello stemma comunale, che reca sotto gli artigli la sigla
Q. P. A. delle iniziali del nobile romano.
La città appartenne nei secoli a
vari signori, tra cui si ricordano i Carafa ed i Migliano. Sotto i Borboni
l'economia porticese conobbe un rapido sviluppo e mutò la sua antica natura di
economia prevalentemente basata sulla pesca. Cambiò anche l'aspetto della
cittadina e furono intensificati i traffici sia marittimi che terrestri.
Il primo segno di un tale sviluppo fu la realizzazione del Porto Borbonico del
Granatello. Nel febbraio del 1774 iniziarono i lavori con l'approntamento dei
basoli presso la Petriera del Granatello; il giugno successivo vide la
costruzione dei moli per opera dell'ing. S. Carrabba, attraverso la gettata di
blocchi lapidei naturali eretti sul fondo. Le spese per i lavori raggiunsero la
cifra di 30.000 ducati ed il risultato fu un molo protetto dal lato esterno da
una scogliera e dal lato interno da una banchina di oltre 180 mt. con una rampa
di collegamento alla strada. Successivamente venne attivata una fitta e proficua
rete mercantile e di scambi che rese il Granatello un avviato porto commerciale
ed oggi, invece, una bellezza storica di Portici.
Il simbolo più forte dello
sviluppo, non solo cittadino, fu l'inaugurazione il 3 ottobre 1839 del primo
tratto ferroviario italiano: la linea Napoli-Portici lunga 7.411 metri e che fu
percorsa per la prima volta in 11 minuti da due convogli trainati da locomotive
gemelle, la Bayard e la Vesuvio, progettate dall'ing. Armand Bayard de la
Vingtrie, sul prototipo della famosa Rocket dell'inglese George
Stephenson.
Tra le altre iniziative dei Borboni, soprattutto di natura
architettonica, Ferdinando II negli anni '40 del XIX secolo fece
costruire lo storico opificio in località, anticamente detta Pietra Bianca,
denominata Pietrarsa a seguito dell'eruzione del 1631, quando la lava del
Vesuvio giunse fino alla linea di costa. Lo stabilimento fu uno degli emblemi
del processo di industrializzazione avviato dal sovrano, sulla scia dei successi
delle applicazioni della macchina a vapore al settore dei trasporti.
Connesso a tale opificio è uno
dei fatti storici più tragici di Portici: l'eccidio di Pietrarsa. La crisi
economica che si verificò all'indomani dell'unificazione d'Italia, determinò
la sospensione dal lavoro di molti operai e spinse il governo a privatizzare la
gestione dell'opificio di Pietrarsa: il nuovo proprietario si impegnò a far
rientrare in fabbrica tutti gli operai sospesi e a rilanciare il ruolo
dell'insediamento produttivo.
Gli impegni assunti non vennero però
mantenuti: anzi, alle richieste di aumento salariale, la nuova direzione, il 6
agosto 1863, rispose con il licenziamento di 60 operai. La reazione eccessiva
accese gli animi degli operai che videro confermarsi i sospetti sulla mancanza
di una effettiva volontà di tener fede agli impegni. Gli operai, allora,
sospesero il lavoro e suonarono la campana per chiamare a raccolta gli operai
delle fabbriche vicine: i dirigenti lasciarono precipitosamente Pietrarsa per
timore di rappresaglie e richiesero l'intervento della Polizia per sedare la
rivolta.
A questo punto il resoconto dei fatti è discordante: la versione
ufficiale, riporta che la Polizia, giunta in fabbrica, di fronte operai
esasperati che impedivano il passaggio della truppa, si trovò costretta ad
usare le baionette col risultato di lasciare sul campo 2 morti e 12 feriti. In
realtà la cronaca dell'eccidio è molto più cruenta: i dati reali
dell'accaduto, riportati dai giornali cittadini, risultano molto più
agghiaccianti di quelli forniti dalle autorità: si parla di 9 morti e 32
feriti. L'eccidio di Pietrarsa divenne così il simbolo della lotta della classe
operaia post-unitaria, della lotta per la difesa dei livelli occupazionali e dei
diritti ad orari e salari più adeguati, il simbolo della lotta per la libertà
e per il lavoro. Con l'unità d'Italia, la fabbrica passò al governo italiano
continuando la sua attività di centro di costruzione e riparazione delle grandi
locomotive a vapore.
Durante il regime mussoliniano, nonostante la dura repressione
all'interno della fabbrica, la resistenza al fascismo da parte dei ferrovieri di
Pietrarsa, l'ha resa avanguardia del movimento operaio napoletano. Dopo la
seconda guerra mondiale, però, la diffusione delle locomotive diesel ed
elettriche determinò il declino di Pietrarsa fino a quando, il 20 dicembre
1975, le Officine cessarono la loro attività. Le Ferrovie dello Stato decisero,
così, di creare a Portici, simbolo della prima ferrovia italiana, e
precisamente a Pietrarsa, emblema anche storico di lotte e di conquiste operaie,
il Museo Nazionale Ferroviario Italiano, inaugurato nel 1989 in occasione del
centocinquantenario delle Ferrovie italiane.
I siti architettonici, archeologici e monumentali
Il sito
architettonico di maggiore interesse è la Reggia di Portici. La storia racconta
che la reggia fu voluta da Carlo di Borbone allorquando i sovrani, invitati dal
principe di Elboeuf Emmanuele Maurizio di Lorena a trascorrere una giornata nel
suo palazzo di Portici, si innamorarono del luogo e decisero di costruirvi la
loro residenza estiva.
La direzione dei lavori fu affidata al romano Canevari
mentre la decorazione delle sale fu affidata a celebri pittori dell'epoca, tra i
quali Giuseppe Bonito. I lavori terminarono nel 1742 ma, rivelatasi
insufficiente ad ospitare tutta la corte, molte famiglie aristocratiche
acquistarono o fecero costruire ville nelle immediate vicinanze: questo fenomeno
ha dato vita ad uno dei patrimoni architettonici e storici più importanti
dell'area vesuviana, noto col nome di Ville Vesuviane.
Per le sculture della
Reggia e del parco, la direzione dei lavori fu affidata al Canart, che scelse
come materiale il marmo di Carrara, fatta eccezione per le colonne antiche tradotte da antiche basiliche.
Originariamente la Villa aveva una pianta quadrata: l'ala verso il mare e quella verso il
Vesuvio furono aggiunte successivamente, nel periodo francese. La maestosa
facciata presenta ampie terrazze e balaustre. Il cortile del palazzo,
attraversato dall'antica strada delle Calabrie, attualmente viale Università,
si apre come una vera piazza. Sulla sinistra è l'antica Caserma delle Guardie
Reali, nonché la cappella Palatina del 1749, costruita dove prima era il
vecchio teatrino.
Dal vestibolo si accede al primo piano attraverso un
magnifico scalone lungo il quale, in alcune nicchie, si ammirano antiche statue
provenienti da Ercolano; anche per i pavimenti di alcune stanze furono usati
mosaici provenienti dagli scavi delle cittadine vesuviane.
Al primo piano troviamo la Sala delle Guardie e quella del Trono, che ancora conservano parte
delle decorazioni originarie; da ammirare, poi, un gabinetto Luigi XV ed un altro
cinese con pavimentazione proveniente da Ercolano.
Tra le realizzazioni più preziose, ricordiamo
il salottino di porcellana della Regina Maria Amalia, splendido esempio della
perfezione raggiunta dalla Real Fabbrica delle Porcellane di Capodimonte:
attualmente è custodito presso il Museo di Capodimonte a Napoli.
Il meraviglioso parco è realizzato, come per le regge di Caserta e Napoli,
dolcemente degradante verso il mare, suddiviso in inferiore e superiore.
Quest'ultimo, caratterizzato da lunghi viali, è in effetti un giardino inglese:
di pregiatissima fattura è la fontana delle Sirene, una statua di scavo
raffigurante la Vittoria, il Chiosco di re Carlo, con un tavolino con mosaico,
la fontana dei Cigni e la statua di Flora, anch'essa di scavo; vi è poi un
anfiteatro a tre ordini di scale.
La Reggia aveva anche il Belvedere della
Regina con fontane e statue. Nel parco, ancora i resti dell'antico gioco del
pallone e una riproduzione della fortezza di Capua che nasconde la Capanna dei
Canguri; nel bosco, infatti, fu realizzato nel 1742 uno zoo con animali esotici,
tra cui un elefante regalato a re Carlo dal sultano Mahmud, per il quale fu
pubblicato anche un opuscolo "Dissertazione dell'Elefante" del 1766.
Per quello che concerne le Ville Vesuviane, ricordiamo Palazzo Lauro Lancellotti, a
due piani con un magnifico parco che arriva al mare. Notevole il vestibolo
diviso in tre zone con quattro imponenti pilastri con medaglioni e busti alle
pareti.
Nella Villa Buono al Largo della Riccia, invece, non rimane più
nulla tranne un particolare dell'esedra costruita nel 1769 con una piccola ma
bellissima cappella centrale. La costruzione di questo edificio risale al 1760
su richiesta del principe Bartolomeo della Riccia.
Tra le altre ricordiamo la
Villa Menna progettata e costruita nel 1742 ma rifatta nel secolo scorso. Della
primitiva costruzione non resta che l'androne, i magnifichi stucchi, il cortile
e la scala. Appartenente alla famiglia D'Amendola, che la utilizzava per battute
di caccia, l'opera si erge, con due ali simmetriche, su quanto rimaneva della
costruzione precedente che subì seri danni a causa dell'eruzione del Vesuvio
nel 1631. Solo nel 1771 fu rifatta la facciata quale oggi si presenta.
Interessante è il vestibolo con ampie arcate nonché la suggestiva discesa a
mare.
Al centro della città vi è la Villa Materi appartenente alla famiglia
Carafa. Il palazzo era diviso in due parti: la villa propriamente detta col
giardino ed un'altra parte chiamata "la comune vecchia". L'edificio fu tagliato
nel 1948 per l'apertura di Via Libertà, con gravi danni per la struttura e i
bellissimi affreschi ritenuti opera del Corenzio. Della costruzione originaria
non rimangono che le volte a vela nell'androne, la torre, gli stipiti e le scale
di piperno.
Dal Corso che conduce ad Ercolano si incontra la Villa Maltese
(Caravita) opera di Domenico Vaccaro, costruita nel 1730. Un restauro effettuato
alla fine del secolo scorso ha sfortunatamente arrecato gravi danni alla villa,
tanto da non riconoscere più la struttura originaria. L'attuale giardino
presenta solo una vasca e qualche statua ma il suo valore originario, calcolato
dall'Ufficio Tecnico Erariale, raggiungeva la cifra di un miliardo calcolando il
valore dell'arredamento e dei vari oggetti d'arte reperiti.
Presso il mare si erge l'imponente fabbricato che
il popolo oggi chiama "i bagni della Regina", ma che nasce con il nome di Villa
del duca d'Elboeuf. Questi, Emanuele Maurizio di Lorena, Principe d'Elboeuf,
generale di Carlo VI che per primo condusse campagne di scavo nell'antica
Ercolano, giunse a Napoli nel 1707 dando l'avvio ai lavori, commissionati a
Ferdinando Sanfelice, nel 1711. Nel 1742 l'edificio ed il parco furono
acquistati da Carlo di Borbone per arricchire la consistenza patrimoniale del
complesso della residenza reale. Successivamente Ferdinando IV fece costruire un
piccolo edificio ai piedi della villa in riva al mare, i cosiddetti "Bagni della
Regina". In generale si tratta di un complesso di eccezionale importanza che
sembra quasi un museo per i reperti archeologici in esso contenuti. Numerose
statue trovate dal principe furono da lui inviate in dono al principe di Savoia
a Vienna. L'edificio a tre piani è ormai abbandonato a se stesso, ma dal suo
splendore restano le due scale ellittiche, con balaustra in marmo e piperno, e
gli interessanti portali sanfeliciani su cui si trovano due lapidi.
Nel
centro di Bellavista è possibile osservare la Villa Orsini di Gravina
appartenente alla duchessa Elena fino al 1880. Attraverso un ampio androne si
giunge in un grandioso cortile dal quale muovono due rampe di scale ad archi
rampanti. Anche l'annessa Cappella, dedicata alla santa Croce, in stucco e
pietrarsa, è di grande pregio. La sola rimasta è la facciata in stile tardo
barocco napoletano.
Differente è il Palazzo Di Fiore che ha una facciata
prettamente neoclassica, diversamente da quella interna in linea settecentesca.
Al palazzo si affianca un grande giardino con alcuni padiglioni sempre
neoclassici ed una cappella.
Altresì interessante è la Villa Zelo in linea
neoclassica con facciata a tre piani. La volta decorata sovrasta la scala, con
un rampante centrale a due ali; sul portale trionfa ancora lo stemma della
famiglia baronale, ripetuto al centro del soffitto e dell'androne, dove, sino a
poco tempo fa, si potevano ammirare due statue di cani in marmo; i saloni del
primo piano avevano le volte affrescate mentre la Cappella gentilizia, eretta
nel 1743 e contenente un tempo pregevoli dipinti settecenteschi, è dedicata
alla Vergine Addolorata. L'altare maggiore della cappella è in marmo prezioso
come la balaustra.
Di particolare interesse architettonico è, infine, anche Villa Meola, costruita nel 1724 per
il marchese Carlo Danza. La villa, attribuita a Domenico Antonio Vaccaro,
costituisce un pregevole esempio di rococò napoletano. Più che la facciata
principale, i cui stucchi sono andati perduti, il cortile interno, attraverso il
quale si accede al giardino e su cui si aprono due rampe di scale simmetriche,
rappresenta una equilibrata composizione di eleganti motivi
decorativi.
Infine, è opportuno ricordare il Museo Nazionale Ferroviario di
Pietrarsa, e del quale abbiamo fatto cenno nel paragrafo dedicato alla Storia,
che ha sede nello storico opificio fatto costruire da Ferdinando II
di Borbone negli anni '40 del XIX secolo.
Al loro sorgere, le officine rappresentavano un esempio
tecnologicamente avanzato di una politica economica tendente a favorire lo
sviluppo industriale: in appena due anni dalla costruzione vi lavoravano 200
operai ed erano state realizzate la Torneria e i locali accessori ed istituita
la scuola per Ufficiali Macchinisti per la Marina del Regno.
Il 18 maggio 1852 viene fusa a Pietrarsa la colossale statua in ghisa di Re Ferdinando II,
raffigurato nell'atto di ordinare la fondazione delle officine: alta 4.50 metri,
è una delle più grandi statue in ghisa fuse in Italia e si trova attualmente
nel piazzale antistante il museo. Nel 1853 Pietrarsa, completo di tutti i reparti
di lavorazione, con 619 operai, diveniva il primo nucleo industriale della
penisola.
Il Museo, per le sue dimensioni
(circa 36.000 mq.) e il numero di locomotive e carrozze esposte, è attualmente
uno dei musei ferroviari più importanti del mondo. La struttura è aperta al
pubblico nei giorni feriali, dalle ore 8.30 alle 14.00.