Nell'arco di soli otto mesi - tra il
maggio 1941 ed il gennaio 1942 - scomparvero per causa di guerra sulle rotte libiche,
alcuni dei più bei nomi della Marina mercantile italiana, nomi di bastimenti già
destinati al servizio passeggeri intercontinentale e poi requisiti per il trasporto veloce
di truppe: p/fo Conte Rosso (tonn. 17.856), p/fo Esperia (tonn. 11.398), m/n Neptunia
(tonn. 19.475), m/n Oceania {tonn. 19.507); m/n Victoria- (tonn. 13.098).
Vittime dei siluri, che avevano buon gioco sulle loro strutture create per resistere al
mare ma non al tritolo, questi bastimenti finirono sul fondo, senza tuttavia segnare la
fine di chiunque vi fosse a bordo - ed erano migliaia - ché anzi, quando l'affondamento
poté avvenire lentamente, l'abnegazione delle unità di scorta fu sempre tale da limitare
le perdite umane a meno del 10%, oltre ogni speranza.
Una sola eccezione vi fu, quella del Conte Rosso, cui spettarono tre infausti primati:
aprire la serie per i transatlantici, colare a picco in neppure un quarto d'ora,
comportare perdite umane prossime al 50%.
Queste tristi concomitanze possono spiegare, almeno in buona parte, il motivo per cui
l'evento continui ad essere oggetto, seppur a distanza di decenni, di toccanti
commemorazioni.
All'alba del 24 maggio 1941, salpava da Napoli diretto a Tripoli, un convoglio veloce
composto da Conte Rosso, Marco Polo, Victoria ed Esperia, con a bordo alcune migliaia di
uomini complessivamente; lo scortavano quattro siluranti e, da Messina in poi, anche la
3° Div. incrociatori.
Sul Conte Rosso, che alzava l'insegna del capoconvoglio C.A. (r) Canzoneri, v'erano 2.482
uomini, oltre ai 247 dell'equipaggio comandato dal triestino Fabris (come convenivasi ad
una nave appartenente, appunto, al Lloyd Triestino).Tra i trasportatori, apparivano
rappresentate tutte le Armi dellEsercito con fanti, artiglieri, cavalleggeri,
genieri, carristi; molti erano anche gli specialisti
dellAeronautica (tra i quali Felice Rebecchi, marito di Teresa Temofonte e padre di Maria Luisa
(poi Musilli), di Maria Pia (poi Grossi) e di Feliciana), e molti infine gli
uomini della Milizia. Tanto campionario umano annoverava gente in dimestichezza con il
mare, e gente che invece lo vedeva per la prima volta; richiamati delle classi anziane e
giovanissimi volontari, spesso universitari; né addirittura mancava qualche clandestino,
come l'allievo ufficiale Bartolotta del 4° Rgt. Carristi, che s'era nascosto in una
scialuppa pur di seguire in Africa il proprio reparto, malgrado l'ordine di restare a
terra.
Zigzagando a 18 nodi in un mare tranquillo, il convoglio seguiva la rotta a levante della
Sicilia, più rapida dell'altra a ponente, ma più pericolosa per la vicinanza di Malta.
Al tramonto del 24 maggio, esso si trovava all'altezza di Augusta, circa 10 miglia al
largo, su due file, con la scorta diretta su entrambi i lati, e gli incrociatori sempre di
poppa, ad un paio di miglia. Sul cielo volteggiava qualche idrovolante in missione
antisom.
Narra il geniere Rosin: " Avevamo da poco cenato ed il mare era un po mosso,
tanto che numerosi soldati ne soffrivano. Incominciavano a scendere le prime ombre della
notte, e ci era rimasta ancora impressa negli occhi la visione dell'ultimo lembo della
costa italiana da cui stavamo velocemente allontanandoci. Prendemmo ciascuno una coperta,
andammo sul ponte superiore e ci sistemammo al riparo delle grosse zattere che erano
allineate ai due lati della nave assieme alle numerose scialuppe ".
Alle 20,40 le navi cessarono di zigzagare per poter fare il punto prima del buio, mentre i
Cant-Z rientravano ad Augusta, avendo per unici sensori gli occhi dei piloti, che al buio
non servivano più. Il convoglio era adesso dieci miglia a levante di Capo Murro di Porco,
circa in lat. 36°38' e long. 15°40'.
Qualche miglio più al largo, il Comandante Wanklin del sommergibile britannico Upholder,
vedeva apparirgli nette nel periscopio, le sagome delle navi stagliantesi sullo sfondo del
luminoso tramonto. Il battello nemico, appartenente alla Flottiglia di Malta, era in mare
già da venti giorni e finora era riuscito ad affondare solo un piccolo piroscafo; gli
erano rimasti due siluri. Wanklin decise di spenderli entrambi in quel momento, e fu
fortunato. Gli ordigni sfiorarono il Freccia, caposcorta, che sparò il Very verde per
dare l'allarme e mise barra a sinistra per dare caccia. Ma sul Conte Rosso, che gli
navigava sulla dritta a poca distanza, il segnale non fu avvertito o, se lo fu, mancò il
tempo per reagire con la manovra; fecero più presto i siluri, squarciando lo scafo sulla
sinistra, a proravia.
" Sulle prime - ricorda l'allora 3° ufficiale di guardia, Predonzan - sembrò che le
esercitazioni di salvataggio fatte all'inizio del viaggio dovessero dare i loro frutti. I
militari, secondo le disposizioni, si erano rapidamente concentrati a poppa, dove corsi
anch'io. Ma dopo cinque minuti la nave cominciò ad appruarsi. Risuonò sinistro il
"si salvi chi può". E fu il caos. Urlai allora ai militari infagottati nel
salvagente di buttarsi in acqua. Ne spinsi parecchi oltre la murata ma altri, che non
sapevano nuotare, non trovando la forza di muoversi si accovacciarono, vinti, ad attendere
la morte... Tutto l'equipaggio si prodigò per ridurre le dimensioni del disastro: molti
marinai pagarono con la loro vita la salvezza di oltre 1.300 soldati ".
Non erano passati 10 minuti dal siluramento, che il Conte Rosso aveva già la poppa
rivolta al cielo con le eliche che giravano ancora lentamente, sempre più alte
sull'acqua. Il mare intorno, brulicava di zattere e di teste, tutta gente in lotta
disperata per la vita, tesa ad allontanarsi dal bastimento per evitare il tanto temuto
gorgo. Dalle fiancate, ormai quasi verticali, grappoli di uomini scivolavano giù, appesi
a penzoli in posizione in naturale.
Poi vi fu come un tuono, un immane ultimo respiro della nave, fatto di sibili e di
schianti; lo scafo andò a picco veloce e diritto, quasi senza gorgo, mentre enormi bolle
d'aria e di nafta salivano a galla, portando con se alla salvezza, uomini già condannati.
Il Freccia, prima di dare caccia al sommergibile, aveva subito ordinato a Pegaso e
Procione di andare al salvataggio, e lo stesso ordine era stato impartito dalla Divisione
a Corazziere e Lanciere; solo l'Orsa era rimasto con le altre tre navi che, sulle prime si
erano sbandate, ma poi dovevano riprendere la rotta per Tripoli, ove sarebbero giunte
indenni l'indomani.
Le quattro siluranti, quindi, presero a rastrellare il mare a lento moto, aiutandosi a
tratti con i proiettori; frattanto, da Augusta salpavano in fretta una decina di
pescherecci del dragaggio, diretti anch'essi verso la zona del disastro.
Nessuno saprà mai quanta, tra la gente che era in acqua aggrappata ai rottami od alle
zattere o sostenuta dal salvagente, perì prima di poter essere salvata; certo,
l'ingestione di nafta o il colpo dei sugheri alla carotide dovettero mietere subito molte
vittime. Ma per il resto, si può affermare che qui, almeno, mancarono altri elementi
nefasti caratteristici di analoghe tragedie; infatti, il mare, seppur un po mosso,
non era inclemente; l'acqua, seppur ancora fredda, non era gelida; la terra seppur non
vicinissima, era tuttavia a poche miglia, con indubbi effetti sul morale. E, soprattutto,
le quattro siluranti si erano subito prodigate " con slancio e zelo superiori ad ogni
elogio " - come poi ebbe a scrivere il Col. Costa, comandante del 4° Rgt. carristi
-nell'opera di salvataggio.
Tutto ciò, per centinaia di uomini, costituì quindi la differenza tra la morte e la
vita; con esattezza, per 1.432 di essi, tanti quanti furono i superstiti che, sin dalle
prime ore del 25, cominciarono a sbarcare ad Augusta.
Qui, il Comando della base navale era già in allarme, e pronto a riceverli, anche se il
loro numero elevatissimo poneva subito dei problemi di varia natura: logistica,
ospedaliera, assistenziale. La città viveva invece ore ancora incerte; sera saputo
della tragedia, ma ne sfuggivano le proporzioni.
Quando una prima colonna di camion carichi di naufraghi passò in via Principe Umberto
diretta al Comando di Terravecchia, e la gente dai marciapiedi e dalle case poté vedere
decine di giovani denudati sui cassoni, coperti dai soli teloni, con dipinta sul volto
l'immagine della durissima prova sopportata, allora capì. E si commosse.
Da un balcone, una mano gettò su un camion un pane, perché portasse un primo conforto ai
naufraghi; fu l'inizio di una gara, che, trovò il limite solo nelle ristrettezze d'un
paese che non era ricco, non era grande, e per di più già' risentiva delle restrizioni di
guerra.
" Ricordo ancora la generosa popolazione di Augusta, che con le lacrime agli occhi ci
fece una commovente accoglienza " ha scritto ieri Eleuteri, un superstite. Ed un
altro, Rustia, la cui lettera sta in cornice nello studio del Sindaco, in precedenza aveva
scritto: " A noi naufraghi, fu riservata una accoglienza affettuosa e piena di
attenzioni, che mai potremo dimenticare. Augusta praticamente ci adottò ".
Per altro, questa " pietas " non si arresto ai vivi, ma sestese anche ai
morti. 239 erano le salme recuperate tra i 1.297 scomparsi, tutte deposte sulla banchina
sommergibili, che stentava a contenerle; tra esse, quella del comandante militare del
Conte Rosso, C.V. De Bellegarde. Ai funerali partecipò la gente, frammista ai superstiti
che seguivano i feretri infagottati nelle tenute di fatica dei marò, in attesa che dai
depositi giungessero le nuove divise.
(Quelle salme, metà delle quali proseguirono per Siracusa per motivi di spazio,
ricevettero un omaggio assiduo negli anni successivi, fin quando, verso il 1960, non ne
venne disposta la definitiva traslazione ai paesi dorigine, od al Sacrario messinese
di Cristo Re).
Dopo un paio di settimane, i superstiti del Conte Rosso cominciarono a lasciare Augusta;
li attendevano una breve licenza, e poi il ritorno al reparto e la successiva destinazione
al fronte. La guerra non poteva infatti avere riguardi per chi, seppur ancora scosso
nell'intimo, era tutta via rimasto integro nel fisico.
Conclusi gli addii, sembrava quindi che anche quest'episodio, seppur imponente per le sue
dimensioni, dovesse ben presto fondersi e confondersi con i tanti altri, di cui la storia
di quei giorni davvero non difettava; e perciò, sfumare nel ricordo con il trascorrere
del tempo.
Ma per il Conte Rosso, sarebbe stato diverso.
Tra i reparti decimati dall'affondamento, v'era la 12° Compagnia Speciale Genio, mutilata
di 74 uomini. Pochi mesi bastarono, però, perché essa si ricostituisse con alcuni
volontari scampati, al comando del Cap. Garlatti. Nellottobre 41, essi
raggiunsero infine il fronte libico ed entrarono in azione lungo il golfo della Sirte.
Qui accadde un episodio, che il pudore dei più intimi sentimenti vieterebbe di narrare
per tema di derisione, se l'occasione di parlare ai marinai - che in queste cose credono -
non inducesse invece a fare.
" Un giorno - scrive Garlatti - si stava operando in riva al mare. Mi accorsi che
sulla battigia fluttuava qualcosa, e mi avvicinai per prenderla. Con profonda emozione,
vedemmo che era un salvagente a ciambella, con ancora ben visibile la scritta Conte Rosso.
Limperscrutabile - non mi sento di chiamarlo il caso - aveva quindi voluto che dopo
cinque mesi di deriva nel Mediterraneo, quel salvagente finisse proprio lì, nelle nostre
mani. Lo interpretammo come un saluto ed un augurio di Coloro cui la crudeltà della
guerra non aveva consentito di raggiungere quella sponda. Raccolto con devozione, esso fu
il gagliardetto che ci accompagnò in terra d'Africa, finche non cademmo prigionieri. Poi,
ne serbammo altrettanto religiosamente la fotografia ".
Quando questi uomini rimpatriarono, fu per essi istintivo ricercarsi e ritrovarsi nel nome
del Conte Rosso. Ma anche altri superstiti, senza aver ricevuto " segni "
altrettanto suggestivi, l'andavano facendo, malgrado la guerra li avesse coinvolti in
nuovi e non meno incisivi episodi, dal Don a Monte Lungo.
Furono tutti avvantaggiati da un fatto, quello di risiedere in gran parte nel
lombardo-veneto, e di potersi quindi incontrare facilmente. Sicché alle Messe di
suffragio, che già dal 1942 si celebravano ogni 24 maggio nei paesi ove più alte erano
state le vittime della nave, si affiancarono i raduni annuali di vari gruppi di
superstiti: in particolare, gli ex fanti del 12° Btg movimento stradale a Palmanova, e
gli ex componenti l'equipaggio a Trieste.
Così si giungeva ai nostri giorni, notando però che era mancato, finora, un atto
conclusivo che facesse incontrare gli uomini del Conte Rosso e la città che li aveva
allora ospitati. C'è un tempo per ogni cosa, regolato dal caso o motivato dalla
circostanza, quel tempo infine s'è materializzato, 43 anni dopo.
Ad Augusta, alcune iniziative parallele stavano confluendo infatti nella determinazione di
fissare in una lastra di marmo, murata nell'atrio del Comune, il ricordo doloroso di
quell'affondamento, e del sodalizio che n'era derivato. E poiché il 24 maggio, qui
coincide, da secoli, con la festa del Patrono, impreziosita quest'anno dalla presenza
della Banda centrale della Marina, ciò appariva una fortunata coincidenza per dare
maggior lustro alla cerimonia. Nel frattempo, si prendevano contatti con alcuni
superstiti, sperando che qualcuno di essi potesse venire fin qui e dare maggior
significato alla rievocazione. Ma, sulle prime, la lunga distanza tra il Veneto e la
Sicilia - specie in assenza dei vent'anni - annidava poche speranze.
Poi, però, scattò una molla, tale da far rompere ogni indugio a chi era ancora
titubante: s'era saputo che Maristat avrebbe autorizzato il lancio d'una corona in mare,
in occasione della cerimonia. C'è stato, allora, chi ha telefonato ad Augusta, quasi per
scusarsi di non poter essere presente, o chi ha mandato un telegramma anche da paesini
arroccati sulle Dolomiti: Bulfons, a firma di Beltrame, per esempio. E chi ha sentito
invece il bisogno di dire di più, la signora Giuseppina Mantovani in Zani, il cui padre
s'era perso con la nave: " Il pensiero mio, di mia madre e delle mie sorelle,
seguirà con struggimento il percorso della corvetta che sul luogo del siluramento
getterà in mare la corona. Di ciò, siamo tutte profondamente grate ".
La Marina si rallegri per queste parole.
Sei - tre di essi accompagnati dalle consorti - sono stati i superstiti del Conte Rosso
tornati ad Augusta 43 anni dopo. Pochi, se si vuole, eppure ben rappresentativi dei tanti
che la nave trasportava. Vittorio Polacco ed Amedeo Olivotti erano infatti dell'Esercito,
Roberto Rho ed Angelo Ponti dell'Aeronautica, Stanislao Rustia e Renato Costanzo del Lloyd
Triestino cui - come già detto - apparteneva il piroscafo. Sufficienti, comunque, per
dare un significato profondo e vivo alla cerimonia che, Banda della Marina in testa, s'è
snodata dal Monumento ai Caduti del Mare fino al Municipio, concludendosi con lo
scoprimento della lapide ed alcune allocuzioni, tra cui il commosso ringraziamento
dell'Avv. Polacco, a nome di tutti gli uomini del Conte Rosso, i presenti e gli assenti.
Ma, come sempre accade in questi casi, era in mare che il calice della emozione - se così
può dirsi - sarebbe stato colmo fino all'orlo.
I superstiti si sono imbarcati sul Grosso, che ha messo la prora verso la zona del
siluramento. E poiché, tra le manovre marinaresche della Scuola Comando v'è anche
lappoggio, l'Aquila e l'Alcione son venute sotto, a fare ala. E poiché, ancora,
v'era in zona il Margottini attendendo una nuova serie di elicotteri, s'è accodato
anch'esso alla formazione.
Sicché, la corona è andata in mare in una cornice inimitabile.
L'Avv. Polacco, che aveva la sua vecchia bustina di Colonnello del Regio Esercito perché
l'occasione era tale da pretenderlo, ha cominciato a parlare con le lacrime agli occhi,
per ringraziare la Marina di ciò che aveva fatto 43 anni prima e stava facendo adesso.
Poi, un nodo gli ha stretto la gola, come del resto era per tutti gli altri.
Sicché, per lunghi attimi s'è navigato nel silenzio, rotto solo dallo sciabordare delle
ondate tra le fiancate, dal ronfare delle macchine, dai trilli del nostromo, dal profondo
respiro del largo.
Cosa, di più degno e di più bello, si sarebbe potuto fare in memoria del Conte Rosso? |