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La tonnara di Capo Passero: la storia e il lavoro

L’architettura della Tonnara di Capo Passero

Le prospettive della Tonnara di Capo Passero

Immagine della Tonnara di Capo Passero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- La tonnara di Capo Passero: la storia e il lavoro

La tonnara di Capo Passero è situata lungo la costa più meridionale della Sicilia, estremo lembo di Europa, tra spiagge sabbiose, ricchi vigneti e campi di ortaggi.

Nel paesaggio domina un "senso di continuità con le terre aride e desertiche africane, contraddistinte da ritmi e silenzi assai lontani dal vivace pullulare delle fredde città continentali".

Vicinissima si stende su 350 mila metri quadrati l’isola di Capo Passero, poco più di uno scoglio di calcari fossiliferi, simile al dorso di una barca capovolta, rivestito di un manto vegetale costituito per lo più di asfodeli, asparagi e palme nane. Queste ultime, le uniche spontanee in Europa, in passato possedevano delle dimensioni maggiori ed erano di gran lunga più diffuse. Ai tempi di Cicerone infatti gli uomini di Verre sostarono a pachino per cinque giorni cibandosi delle radici delle palme "palmarium agrestium".(Lippi Guidi, 1993 ).

L’isola è inoltre luogo di transito di diverse specie di uccelli migratori, quaglie e tortore, provenienti dalle coste tunisine. Immersa in questo scenario vario e incontaminato si erge la Tonnara Grande o di Capo Passero, la più antica ed importante della zona. Il colonnello Cav. Castelalfiere, in una relazione di viaggio scritta su incarico del re Vittorio Amedeo II nel 1714, sottolineava la presenza di un’altra tonnara ormai abbandonata nella baia del porto di Portopalo, tra l’isola delle Correnti ed il porto stesso. Gli impianti di Fano e Marzamemi erano citati invece nella "Descrizione geografica del Regno di Sicilia e delle sue isole" pubblicata nel 1812 da Giovanni Martinon. ( Cernigliaro, 1996 ).

La tonnara di Capo Passero è una delle poche che ha resistito più a lungo alle cause che hanno gradualmente prodotto il definitivo abbandono di questa attività.

Nel IV Sec. a.C. il poeta greco-siculo Archestrato di Gela, nel suo poema a carattere gastronomico "Hedipàtheia" ( La piacevolezza ) aveva esaltato l’ottima qualità del tonno pescato a Capo Passero.( Cernigliaro, 1996 ). A testimonianza invece della "magna thynnorum copia", cioè della considerevole pescosità del mare di Capo Passero decantata già da Solino, nella sua "Polihistor", Fazio degli Uberti, poeta pisano, aveva scritto: "Passato compassaro e volti al canto di Pachino, vedemmo andare in frotta tonni per mare che parea un incanto", e Ateneo di Naucrati aveva definito i tonni tout court "pachinesi". ( Burgaretta, 1988 ).

Secondo il parere degli ultimi tonnaroti oggi residenti a Portopalo di C.P., l’indiscutibile quantità e la pregevole qualità del tonno pescato a Capo Passero erano determinate da alcuni importanti fattori: innanzi tutto quella di Capo Passero era una tonnara di ritorno, motivo per cui i tonni sopravvissuti alle altre tonnare della Sicilia orientale vi giungevano stanchi, smagriti, meno grassi e dunque più "citrigni" ossia compatti e gustosi. In secondo luogo, poichè essi arrivavano sfiniti dalle fatiche amorose e dopo aver deposto le uova, la loro cattura non procurava alcun danno, non essendo di ostacolo alla riproduzione.

E’ abbastanza ovvio pensare che già anticamente "il luogo fosse frequentato da esperti marinai e che allora, come oggi, esistessero tonnare". ( Ciancio, 1972 ). Alcuni scavi archeologici effettuati nella zona del Collo antistante l’isola di Capo Passero hanno infatti avvalorato questa ipotesi portando alla luce diversi resti di depositi e scheletri di tonni. Una violenta mareggiata inoltre ha eroso la costa determinando il naturale rinvenimento di cocci di ceramica e di un gran numero di lucerne, vendute probabilmente dagli abitanti del luogo ai turisti.

Le vicende della tonnara di Capo Passero sono strettamente legate alla storia dell’isola e soprattutto delle famiglie e dei signori che ne hanno gestito la proprietà.

I primi documenti storici inerenti la signoria feudale di Capo Passero risalgono alla seconda metà del 1300, quando i re di Sicilia concessero a nobili famiglie siciliane il diritto di calare "tonnare, torri o palamedare". ( De Martinez La Restia, 1967-68 ).

Il diritto di pesca a Capo Passero fu accordato come baronia feudale sottoposta ad investitura, vassallaggio e obbligo di equipaggiare un cavallo armato ogni 20 onze di reddito. ( Lippi Guidi, 1993 ).

Intorno al 1357 Bartolomeo Landolina, figlio primogenito del netino Giovanni Landolina, ebbe in eredità dal padre quattro feudi tra cui quello di Capo Passero. Nel 1408, durante i regni dei due re Martina d’Aragona e Sicilia, i feudi della tonnara e dei Mari di Capo Passero, passarono nelle mani del nobile siracusano Ruggero de Ruffino. ( De Martinez La Restia, 1967-68 ).

Sebbene la città di Noto rivendicasse i suoi diritti di proprietà, ribaditi tra l’altro anche dal vicerè Guglielmo Peralta in una lettera del 16 aprile 1476 ( ".....notorie constat qod pheudum predictum cum dicta Tonnaria fuerunt et sunt in territorio Demanii et non in territorio neque mari ipsius Camere Reginalis...."), la famiglia Ruffino mantenne la signoria di Capo Passero fino al 1639, quando successero per via ereditaria femminile i Bellia Ruffino. ( Burgaretta, 1988 ).

I proprietari erano soliti gabellare l’esercizio a gestori mercanti, avidi di guadagno. Nel 1644 il barone netino Mariano Nicolaci, gabelloto imprenditore recò variazioni sensibili nella conduzione dell’impianto di Capo Passero, evolutesi nel tempo in una serie di affittanze anche da parte dei successori: il figlio Antonio, ad esempio, sulla scia degli insegnamenti paterni si interessò degli impianti di Marzamemi e Vendicari. ( Lippi Guidi, 1993 ).

In quel periodo gli stabilimenti erano sottoposti a forti pressioni fiscali da parte dello stato. I buoni profitti inducevano le autorità vicealmirantiche ad imporre imposte piuttosto onerose. Ne erano la prova i 62 barili di tonnina periodicamente pagati al Viceammiraglio di Noto dai successori di Mariano Nicolaci.

Alla fine del secolo Eleonora Nicolaci, gabellota della tonnara di Capo Passero e di Vendicari, si ribellò al progetto di un certo Antonio Sirugo di sperimentare un nuovo impianto nei mari di Vendicari. Ciò avrebbe rappresentato un enorme ostacolo considerata la già eccessiva vicinanza tra le tonnare della zona. Risale al 1719 una controversia sorta intorno alla tonnara di Capo Passero a causa di imbrogli creati dai gabelloti circa l’applicazione delle gabelle di "grosso a sottile" stabilite dal consiglio di Noto nel 1569 e confermate dal tribunale del Real Patrimonio, e della gabella di "grano" imposta nel 1639. Un certo Corradino Contarina denunciò di aver pagato non solo i cinque tarì per ogni quintale di tonno "ma eziandio li rotula undici per la gabella del grosso a sottile, così come il sacerdote Don Michele Angelo David, amministratore della tonnara di Capo Passero, in una opposizione fatta al Tribunale del Real Patrimonio, dice che la vendita fatta nella tonnara di Capo Passero s’ha pagato per le gabelle di grosso a sottile e del grano qualche volta tarì cinque per ogni quintale di vendita, e qualche volta undici secondo l’accordii fatti colli gabelloti dell’Università, come si vede per un dispaccio del suddetto Tribunale in data del 1 luglio 1719". ( Burgaretta, 1988 ).

Nel 1726 la Signoria di Capo Passero divenne proprietà della famiglia Rao Torres, che ricavò "abbondanti pescagioni di essa tonnara.... ed erogò gran somme di denaro per benificarla costruendo un gran malfaraggio, casina, Magazzini ed un apparato corrispondente al grande arbitrio. Amministrata da padroni molto pratici del mestiere fu di profitto moltissimo essendo rimasta in di loro potere e de suoi per più di mezzo secolo". ( D’Amico, 1816 ).

Il 9 febbraio 1774 fu investito in qualità di enfiteuta ( l’unico nella storia della tonnara ) dalla baronessa Maria Rao Torres, il nobile netino Corradino Nicolaci, principe di Villadorata. Il possesso legale della tonnara fu in mano ai Nicolaci dal 9 febbraio 1774 all’8 agosto 1794.

Uomo dalle grandi capacità imprenditoriali, Don Corradino, riuscì ad ottenere vantaggiosi profitti dalla tonnara, investendo i guadagni in progetti per l’ammodernamento dell’esercizio. Un imprudenza però gli costò la perdita dell’enfiteusi sulla tonnara. ( Burgaretta, 1988 ).

Il marchese Ferreri, funzionario delle Finanze, spinto dalle favorevoli congiunture economiche, "ebbe licenza di poter armare una tonnara nelle mari vicini a quelli di Capo Passero, che allora la possedeva il Signor Principe di Villadorata Nicolaci, nel mar di Portopalo, dietro ad un promontorio che poteva rappresentare un limite naturale tra i due impianti". ( D’Amico, 1816 ).

Il principe sottolineò l’illegalità di tale progetto per il mancato rispetto delle distanze. Le azioni legali furono lunghe e complesse e si conclusero con gravi trasformazioni fondiarie ai danni dei Villadorata, ma solo sulla carta. Infatti il nuovo impianto di reti costretto in un specchio di mare limitato non poté essere di ostacolo alla tonnara di Capo Passero perché fu quasi subito abbandonata.

Il marchese Ferreri, deluso dal fallimento economico della tonnara, persuase i precedenti proprietari i Rao Torres e Rao Bonafede, baroni di Camemi, a rivendicare la proprietà della tonnara facendo leva sui complicati diritti di fidecommessi non rispettati. I principi d Villadorata persero il godimento del calo della tonnara. Furono gli stessi Camemi a cedere di nuovo la tonnara alla famiglia Nicolaci con un censo perpetuo. Infatti già nel 1795 il principe di Villadorata don Corrado Nicolaci gabellava regolarmente l’efficiente impianto di Capo Passero. ( Lippi Guidi, 1993 ).

L’ultima investitura feudale di Capo Passero fu quella di Giovanni Rao-XaXa avvenuta il 10 gennaio 1808, quattro anni prima la definitiva abolizione del feudalesimo in Sicilia, durante una delle ricorrenti crisi della pesca del tonno. Nel 1892 la tonnara era da oltre trenta anni proprietà di Giovanni Rao Foderà, barone di Capo Passero e amministratore degli eredi del principe Corrado Nicolaci di Villadorata in qualità di condomini.

Negli Atti della Commisione Reale per le tonnare è possibile leggere che "lo stesso principe di Villadorata gode al presente il diritto di pesca con questa tonnarella assai fertile, calata.... all’angolo di Pachino col piede sull’isolotto omonimo, la coda diretta a levante, il foratico a libeccio". ( Pavesi, 1889 ).

La comproprietà ed il diritto di pesca "jure proprietatis", ossia di calare la tonnara sia nel mare di Mrzamemi che di Capo Passero, fu concessa dal Prefetto reggente di Siracusa, Bisio, il 6 agosto 1894.

Il 7 maggio 1897 il Cavaliere Pietro Bruno di Belmonte, di Spaccaforno ( Ispica ), deputato liberale durante il governo Crispi, acquistò una quota della tonnara dal possidente Diego Magliocco con un atto stipulato dal notaio Pietro Moscatello. ( Burgaretta, 1988).

Il Cav. Bruno aveva sposato un membro della famiglia Modica di S. Giovanni, il cui nonno era un principe di Villadorata, proprietario delle due tonnare di Capo Passero e di Marzamemi. La moglie aveva portato in dote perciò quote delle due tonnare, Egli vendette le quote dello stabilimento di Marzamemi per comprare altre quote della tonnara di Capo Passero. Rilevando tutte le rimanenti quote dei vari membri della famiglia Rao, egli divenne l’unico proprietario della tonnara di Capo Passero.

Il Cavaliere acquistò da Magliocco per lire 6.500 ( di cui 1500 pagate al momento della vendita ed il resto da estinguere entro il 31 dicembre 1897 ) carati due e 27/60. Con atto sottoscritto a Palermo il 10 dicembre 1903, Bruno rilevò per lire 3.800 più la fondiaria dovuta, l’altra quota della frammentata proprietà della tonnara, posseduta dai coniugi Clotilde Rao Foderà e Giovanni Rao Amato.

Il 18 aprile 1907 il Cav. Pietro Bruno stipulò un atto di rinunzia in favore dei Rao Amato, di un pignoramento presso terzi, apposto per atto del 17 gennaio 1896, per l’ufficiale giudiziario Ferdinando Comparato, su istanza di Marianna Valdaura vedova Rao, in danno degli eredi Rao: i fratelli Giovanni, Giuseppe e Maria Stella Rao Amato del fu Antonio ed il di lei consorte Luigi Accardi. Inoltre il Cav. Bruno si impegnava a rispettare i patti riguardanti il gabellotto della tonnara nominato da Diego Magliocco e mantenne tale diritto fino al 1901.

Al momento dell’acquisto la tonnara di Capo Passero era praticamente in disuso poichè non pescava da più di cento anni e gli scarsi profitti avevano reso praticamente irrealizzabile l’allestimento della campagna di pesca. Malgrado il punto geografico fosse eccezionale e favorevole alla pesca per il passaggio obbligato dei tonni, una delle cause più ricorrenti era l’esposizione a delle correnti molto forti dovute alla confluenza del Mar Jonio e del Mar Mediterraneo. Infatti un antico motto popolare settecentesco declamava:

" A Capo Passero ci sta ‘na gran tonnara

che pe ‘ pigghiari i pisci non ce a para;

palamiti, sgammirri e pizzutieddi,

quando ci piaci, ne pigghia a munzeddi;

di pesci spata ni pigghia millanta

è sulu d’a ‘currenti ca si scanta".

Ma un vecchio Rais aveva detto al cavaliere: "Si l’accattassi, voscenza ‘sta tunnara, i tunni stana vinennu". Così Don Pietro, sebbene fosse stato sconsigliato da tutti, non solo comprò, ma riuscì a preparare l’impianto e a calare la tonnara in brevissimo tempo. Dopo circa un mese in cui le reti imprigionarono solo pesci spada, lampughe, pizzutelli, aragoste, si giunse al 13 luglio prima di riuscire a catturare dei tonni.

In effetti la stagione di pesca del tonno partiva solitamente il 10 giugno e giungeva fino al 31 luglio. Seguivano i tonni "austini", numerosi ma di piccole dimensioni. La prima stagione di pesca ripristinata da Don Pietro, anche se di breve durata, totalizzò in definitiva un numero straordinario di tonni catturati: ben 3000 tonni, una cifra da allora mai più raggiunta.

Il Cavaliere riuscì a migliorare lo stabilimento e ad aumentare la produzione stipulando dei contratti commerciali con i Turchi, gli Spagnoli e Malta ( che pagava in oro ). ( Lippi Guidi, 1993 ).

La Camera di Commercio di Siracusa, oltre a presentare ad una mostra milanese del 1906 i vari tipi di rete per la pesca usati in Sicilia, pubblicò un opuscolo nel quale sottolineava il notevole incremento di pescato registrato in quegli anni: "a cavallo tra i due secoli il pescato era totalmente soddisfacente da colmare non solo la domanda locale, ma da consentire vendite considerevoli all’estero". ( Pretsch, 1971, pag. 19 ).

Questo perchè la tonnara non si limitava alla pesca del tonno e alla sua lavorazione, ma anche al trattamento di altre varietà di pesce, quali l’alalonga ( o alalunga ), i palamiti, sgammirri.

La nuova politica imprenditoriale di Don Pietro, oltre ad impiegare decine di portopalesi in un’epoca di forte immigrazione e di grosse difficoltà occupazionali, fu rivolta verso la naturale esigenza di conservazione del pescato.

A questo scopo il Cavaliere si recò di persona a Genova presso il più grande industriale di tonno d’Europa, il commendatore Angelo Parodi, esperto nelle tecnologie di conservazione, per proporgli la gestione dello stabilimento. Don Pietro grazi al suo aiuto riuscì ad impostare un moderno e qualificato laboratorio per l’inscatolamento del tonno e ad istruire le maestranze locali in un’arte fino ad allora sconosciuta. (Lippi Guidi, 1993).

Alla sua morte avvenuta nel 1921, la tonnara fu divisa in parti uguali ai suoi sette figli. Essa continuò a sostenere ottimi livelli di produzione: nel 1929 furono pescati ben 5600 tonni, nel 1938 oltre 5000 tonni e 700 pesci spada. Uno di tonni più grossi pesava più di 400 chili e fu portato sulle spalle alla camparia da un solo uomo, il siracusano soprannominato Papureddu.

L’attuale possessore della tonnara di Capo Passero è dal 1959 il Cavaliere Pietro Bruno di Belmonte, vicepresidente del Corpo della nobiltà voluto da Umberto II dal suo esilio di Cascais, studioso di storia araldica e gastronomo raffinato, nipote dell’omonimo Pietro, del quale ha ereditato la passione per la pesca dei tonni.

Egli ha rilevato tutte le quote della tonnara e detiene la maggioranza delle azioni della Società amministratrice sotto la cui gestione si trova l’impianto.

Fino a che l’industria dei tonni si è mantenuta nei limiti accettabili Don Pietro ha seguito l’amministrazione collaborando con il razionale, convocando regolarmente il Rais a rapporto. Ma la scarsa produzione verificatasi dal 1955 al 1959 ha determinato un lento ma continuo declino dell’attività sino al 1975, quando una petroliera passando sulle reti regolarmente segnalate sulla carta di navigazione, le strappò. Da allora la tonnara è stata calata ogni cinque anni solo simbolicamente per evitare l’estinzione del "diritto esclusivo di pesca", un diritto di proprietà esteso a tutta l’isola di Capo Passero, per il quale non esiste alcuna forma di concessione nè di permesso da chiedere per il calo.

Nel 1989 un Rais trapanese non rendendosi conto che diversamente da Trapani, a Capo Passero le correnti sono molto forti, sbagliò completamente la disposizione e la sistemazione delle reti, arrecando notevoli danni. Del resto da diverso tempo ormai i tonni avevano mutato rotta causando la definitiva chiusura delle tonnare di ritorno.

Sebbene oggi l’impianto di Capo Passero sia praticamente in rovina, sia per gli alti costi di ammodernamento che per la ormai remota possibilità di realizzare una stagione di pesca fruttuosa, Don Pietro, il "padrone del mare", non si da per vinto e spera sempre che "si ritorni al passato".

Egli, un "gattopardo" irato e solitario, malgrado si senta perseguitato da "la più orrenda delle sfortune" e persista nelle sue rare interviste nel puntualizzare che "la tonnara è stata avarissima nei miei riguardi" perché "ci sono state annate dove non ho preso neanche un tonno", continua a lottare con l’intento di riuscire a calare, questa volta con profitto, la sua tonnara, ostinandosi ad amare, sempre e comunque il suo mare, il cui ruolo nell’esistenza "è lo stesso che ha l’amore nelle faccende della vita".

L’attività della tonnara è stata da sempre naturalmente regolata dal sistematico succedersi delle stagioni. Il periodo di attività della tonnara di Capo Passero era compreso tra il primo maggio e il 31 ottobre di ogni anno. Durante i mesi invernali si riparavano e si approntavano gli strumenti, le barche e le reti, si ripulivano vari ambienti dell’impianto e si immagazzinavano le scatole per la conservazione dei tonni sott’olio. Alle donne spettava il compito di tessere "u scapularu" , ossia quella parte di rete usata nella camera della morte, con la "curdicedda di Termini" o "disa", cioè le foglie dell’Apelodesmos mauritanicus, molte diffuse nella zona di Cava Grande vicino Cassibile. ( Burgaretta, 1988 ).

Dopo aver bagnato, battuto ed intrecciato la disa, si ottenevano anche delle grosse corde chiamate "libanii". E’ accertato che per la preparazione delle corde e delle reti non venissero usate le fibre della palma nana, utilizzata invece per la preparazione del crine con il quale si riempivano i materassi dei letti, in particolare dei detenuti del penitenziario di Noto.

Nella stagione fredda si preparavano inoltre dei massi di pietra pesanti svariati quintali, i "mazziri", ricavati dall’arenaria tenera di Morghella e utilizzati per ancorare circa due chilometri di rete calata a levante, cioè nell’estrema punta dell’isola. Il più bravo tagliatore di "mazziri" per la tonnara di Capo Passero è stato il portopalese Corrado Furnò. Per ogni mazzera calata in acqua il rais recitava una tradizionale preghiera propiziatoria.

Sempre nei mesi invernali venivano inoltre "impeciate" ossia cosparse di pece le barche della tonnara. La flottiglia era composta solitamente di 5-6 "scieri", 3 "chiatte", 7-9 "muciare" e più tardi di un rimorchiatore. Prima dell’arrivo del rimorchiatore, le barche si conducevano a remi, per cui era notevole la fatica dei pescatori costretti a percorrere più volte al giorno lo specchio di mare circostante. Alla fine della primavera tutto doveva essere pronto per dare inizio alla "caccia". ( Cernigliaro, 1996 ).

In quel periodo venivano impiegati nella tonnara due rais, due raisotti ( o vice rais scelti tra i tonnaroti più bravi ), quaranta tonnaroti e ventisei terrazzani, cioè gli operai addetti ai lavori a terra, a loro volta divisi in "iannuoti", ( vecchi pescatori adibiti allo scarico dei tonni ), "infanti", ( per lo più siracusani che portavano a spalle o sul carretto tonni pescati), "sventratori", (solitamente trapanesi, addetti alla lavorazione del tonno sott’olio ), fabbri, stagnini e custodi.

Quando partivano le barche, da terra i terrazzani attendevano che il Rais alzasse le speciali bandierine colorate, per segnalare il numero dei tonni catturati. La bandierina rossa indicava la pesca da uno a dieci tonni, una rossa e una verde, segnalavano un numero compreso tra undici e venti, una rossa, una verde ed una blu equivaleva a trenta tonni. Se il rais alzava una giacca voleva dire che si era raggiunto il "cappotto", cioè cento tonni.

Tutto il pesce pescato era portato alla Camparìa del Vaddunazzu, cioè nello stabilimento. Una volta scaricato a terra il pesce veniva pesato, una parte messa all’asta, l’altra consegnata agli sventratori. In seguito il tonno era appeso per la coda e pulito. Il giorno dopo veniva tagliato, lavato, cotto per 45-75 minuti e raffreddato. Poi esso veniva depositato in appositi tavoli ad asciugare. Sterilizzate le scatole si procedeva all’inscatolamento del tonno. ( Cernigliaro, 1996 ).

Si racconta che nei primi del Novecento, nei periodi di pesca abbondante, dei tonnaroti prezzolati, si accordavano con qualche commerciante che intendeva fare alzare il prezzo del tonno limitandone la mattanza. A questo scopo si immergeva durante la notte la carogna di capra nella zona di "passa" dei tonni, che per il cattivo odore si allontanavano. Quando il commerciante smaltiva il pescato che giaceva nel suo magazzino, si accordava nuovamente con i suoi complici per la rimozione della carogna.

Più di 60 unità erano impegnate a terra ed altre 40, di cui 30 in modo fisso, erano impegnate in mare. I tonnaroti erano retribuiti in base alla quantità di pesce pescato ed essendo le stagioni da questo punto di vista piuttosto variabili le loro condizioni non erano tra le più floride.

La fig.1 mostra chiaramente infatti alcuni dati ricavati dall’archivio del prof. Sessa sull’esercizio della tonnara di Capo Passero negli ultimi anni della sua piena attività. Erano già evidenti i primi segnali di una crisi profonda, provocata sia dalla presenza di acque più inquinate che di tonnare volanti che catturavano tonni in mare aperto. A ciò si aggiungeva la arretratezza ed insufficienza delle attrezzature e la fuga degli stessi tonnaroti verso nuove e più proficue possibilità di guadagno. ( Cernigliaro, 1996 ).

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- L’architettura della tonnara di Capo Passero.

Anche se ormai quasi del tutto abbandonata a se stessa, oggi la tonnara di Capo Passero continua a mantenere un fascino tutto particolare che deriva dalla sua architettura e dal rapporto instaurato con il mare, mediato dalla particolare morfologia dei luoghi.

Malfaraggio ed abitazione del proprietario erano e sono tuttora situati su una costa rocciosa a circa 40 metri sul livello del mare e si sviluppano lungo la cosiddetta "cala del Vaddunazzu".

Muri di cinta e cancelli separano gli spazi lavorativi della residenza padronale e dei tonnaroti. Nell’insieme il complesso edilizio che supera i mille metri quadrati appare infossato rispetto alla strada nuova per Portopalo di C.P., e caratterizzato da una particolare iconografia ad "L". ( Lippi Guidi, 1993 ).

Questi diversi spazi appaiono contigui: i tonnaroti infatti per recarsi a lavoro dalle abitazioni poste ai margini del complesso edilizio, dovevano passare per una sala che fungeva da mensa e da spogliatoio e che quindi faceva da filtro per l’entrata ai depositi e alle officine di lavorazione. Da questo ordinamento si stacca in parte l’officina del fabbro, il quale, essendo una specie di tutto fare, non si poneva all’interno della zona di lavoro, nè quella specifica della servitù, che, a sua volta, aveva contigue a quelle del padrone. ( M. Di Natale, N. Dinatale, 1986 ).

Gli scritti redatti nel 1795 dal capomastro di "maramma" Mariano Pileri, offrono una chiara e approfondita descrizione degli ambienti presenti nell’impianto. Dal cuore della tonnara, rappresentato da una grande loggia, un tempo si diramavano i molteplici magazzini delle dogarelle, dei barili, dove un rialto permetteva al contadore di controllare i procedimenti per la conservazione sotto sale e in salamoia. Adiacenti erano il magazzino della sorra, il prodotto più raffinato ricavato dalle tonnine, il magazzino delle botti "nominato di Santa Lucia" ed il magazzino del sale grosso. Nell’arsenale si adoperavano i bottari e i calafati, mentre nella camparìa, cioè il deposito delle reti da una stagione alla successiva, ci si occupava della manutenzione dei cavi e delle reti. Vi erano i "dammusi" per le derrate alimentari ed una panetteria per la fornitura quotidiana di pane. Una loggia aperta era adibita ad accogliere i cavalli ed i carrozzini dei cavallari, ossia gli acquirenti del tonno fresco. Anche le abitazioni erano assegnate secondo i criteri gerarchici seguiti durante l’esercizio della pesca: vi erano in ordine le stanze del Rais, le case dei calafati, dei marinai, dei maestri terrazzani, del campiere di loggia, del custode, dei camparioti, degli infanti. ( Lippi Guidi, 1993 ).

Al primo piano, oltre a due camere del "quarto antico" assegnate al personale, vi erano cinque camere da letto, una sala, una antisala, la cucina e l’anticucina. Il tutto era immerso in uno splendido e verdeggiante orto-giardino che veniva coltivato durante i mesi estivi quando, essendo la tonnara in piena attività, il proprietario e la famiglia vi risiedevano.

Attraverso un portone posto sul lato ovest si passava in una zona aperta adibita alla cottura e nell’aria riservata al taglio e al lavaggio dei tonni. Al centro erano collocate le fornaci, che smaltivano il fumo "mediante dei canali sotterranei terminanti nella grande ciminiera che domina tutti gli edifici della tonnara".

Da questa zona mediante una sala si accedeva ad un ampio locale nel quale il tonno cotto era lasciato raffreddare, pulito ed inscatolato. L’acqua necessaria era fornita da tre cisterne.

Una passerella in muratura consentiva di raggiungere la "balata", un piazzale costruito al livello del mare in modo tale che sui lati sud-ovest potessero attraccare le chiatte cariche di pesci e gli "iannuoti" potessero eseguire con più facilità il lavoro di scarico.

I pesci, una volta scaricati, erano riposti su carrelli condotti a mano e solo successivamente con un argano a scoppio. Per facilitare l’operazione si utilizzava un particolare scivolo sagomato in modo tale da agevolare il tiro ed il superamento del dislivello presente tra il mare e l’impianto. Il binario del carrello conduceva al bilico per la pesa posto all’ingresso dello stabilimento, nella zona dell’appiccatoio dove a tre metri di altezza erano poste le travi a cui i tonni, una volta sventrati, venivano appesi. ( Cernigliaro, 1996 ).

Annessa allo stabilimento, come in ogni tonnara, era la chiesa risalente al XVII Sec. della SS. Annunziata, adiacente alla abitazione del proprietario con la quale comunicava attraverso un ammezzato. Attualmente la struttura in calce e sabbia è in condizioni precarie: la facciata è ormai corrosa dal vento e dalla salsedine al punto che le pietre risultano del tutto prive di intonaco.

La chiesa misura circa metri 7 x 12 ed è alta intorno ai 15 metri. Essa reca sul prospetto la croce di Malta a ricordo degli ottimi rapporti di lavoro instaurati con l’Isola dei Cavalieri. L’interno è solo un pietoso spettacolo di rovina ed abbandono: il tetto, pericolante e sconnesso dall’originaria tessitura di canne e gesso, ricopre ormai un ambiente pieno solo di calcinacci, pietrusco e polvere.

Sebbene nei primi del Novecento l’intero complesso edilizio fosse stato restaurato, un fortunale di vaste proporzioni nella primavera del 1976 riuscì a danneggiare gravemente la tonnara e a distruggere i magazzini ed i caseggiati periferici. (Lippi Guidi, 1993).

Abbandonate al loro destino tutte le tonnare della Sicilia orientale, Capo Passero, antico centro industriale e commerciale, dotato di moderni impianti di trasferimento e servizi a terra sicuri ed efficienti, ed attrezzato in modo tale da raggiungere brevemente, i principali mercati ittici per la quotazione dei tonni, pur agonizzante, continua a sopravvivere oggi purtroppo solo per la ferma volontà del suo proprietario.

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- Le prospettive della tonnara di Capo Passero.

Dopo aver tracciato un profilo storico, geomorfologico e architettonico della tonnara di Capo Passero, non resta che affrontare l’aspetto forse più delicato e scottante, relativo alle prospettive, ai programmi, ai progetti da realizzare nell’immediato futuro, per il recupero ed il rilancio di questo storico impianto.

A questo scopo è sorta nel 1997 l’Associazione Amici di Capo Passàro che, nella persona del suo presidente, il Dott. Massimo Cenci, ha avviato un piano di sensibilizzazione che ha coinvolto politici, addetti ai lavori e soprattutto la gente comune. Il primo fondamentale obiettivo è quello di recuperare il patrimonio storico della tonnara, onde evitare di lasciarlo cadere nell’oblio, come è avvenuto per tutte le altre tonnare della Sicilia sud-orientale.

Ne consegue un solido programma di rilancio economico che renda la tonnara altamente competitiva rispetto alle piccole industrie per la lavorazione del tonno presenti oggi su tutto il territorio. Terza meta da raggiungere, una volta ripristinato l’esercizio, riguarda la valorizzazione e l’incremento dell’offerta turistica ed occupazionale.

Personaggio chiave della tonnara di Capo Passero, nonchè suo proprietario, è Don Pietro Bruno di Belmonte, soprannominato il "padrone del mare" in relazione all’antichissimo "diritto esclusivo di pesca" che egli continua ad applicare sia all’isola di Capo Passero che sullo specchio d’acqua antistante la tonnara.

Don Pietro è un uomo che amando profondamente il mare e la sua tonnara, non si è lasciato sedurre dalle lusinghe edilizio-speculative. Agli inizi degli anni ‘70 un imprenditore, per conto di un gruppo arabo, gli offrì per l’isola e per tutto lo stabilimento, compresi il suo alloggio e la chiesa dei Cavalieri di Malta, ben 6 miliardi, allo scopo di realizzare un enorme complesso turistico. Puntualmente Don Pietro si rifiutò di "fare invadere dal cemento quella fetta di Paradiso", riferendosi ovviamente alla sua splendida tonnara inserita in un contesto ambientale di insuperabile bellezza. Il Barone insomma non ha alcuna intenzione di "uccidere" la cultura e la tradizione millenaria della tonnara trasformandola in un fatiscente residence, come è accaduto agli impianti di Olivieri, Bonagia, Trabia.

Il fatto che si manifesti, per una condizione di obsolescenza, la fruibilità di spazi ed attrezzature significa essenzialmente che occorre considerare la disponibilità di un patrimonio di enorme rilevanza storica e non creare un magnifico luogo di vacanza.

Anche l’Associazione Amici di Capo Passàro esorta a non pensare alla tonnara come ad un qualcosa di sorpassato, di arcaico, ma come ad un sistema di cattura dei tonni sempre valido e molto richiesto specialmente oggi che il tonno è particolarmente apprezzato per la squisitezza delle sue carni.

Franco Castiglione, proprietario della tonnara di Bonagia, da anni ha stabilito un accordo con il Giappone (dove il tonno viene mangiato crudo), per la vendita dei pesci di pezzatura superiore ai cento chili. Se non ci fosse questa garanzia probabilmente non sarebbe possibile calare le tonnare a causa degli alti costi di gestione. (Parrinello, "Giornale di Sicilia" 22 marzo 1997).

E’ vero che i giapponesi invadendo i nostri mari con barche e strumenti altamente specializzati hanno contribuito all’aggravamento della crisi delle tonnare, ma, grazie al loro particolare apprezzamento del tonno rosso tipico del Mediterraneo, hanno dall’altro lato accresciuto la domanda e risvegliato qualche vecchio impianto.

E’ ferma intenzione del proprietario Don Pietro Bruno di Belmonte continuare il percorso iniziato circa 3 mila anni fa da coloro che avevano già capito l’importanza economica e sociale della "passa" dei tonni. Quel punto ed il particolare gioco delle correnti hanno fatto si che si verificassero perennemente le condizioni che attirano i pesci garantendo nel contempo la riproduzione della specie.

Pur mutando i domini, le supremazie, i popoli, l’uomo in questo sito ha gettato profondamente le sue radici assicurando in tal modo la difesa ed il consolidamento del patrimonio culturale costituito dalla tonnara. Obiettivo comune del proprietario e dell’associazione è quello di mantenere la tonnara quale bene da tutelare e rilanciare adottando le più moderne e sofisticate tecnologie, come ad esempio i barconi in acciaio attualmente utilizzati nello stabilimento di Bonagia (TP) allo scopo di agevolare l’equipaggio (ciurma) sia nelle manovre che nella manutenzione.

Le ultime rilevazioni effettuate lungo la costa della Sicilia sud-orientale hanno evidenziato una netta diminuzione dell’inquinamento marino determinata dalla costruzione di una serie di impianti di depurazione. Un ambiente marino più ospitale potrebbe rappresentare il primo passo avanti verso l’incremento della fauna ittica ed un ritorno dei "corsi" sotto costa.

E’ inoltre espressa volontà dei tonnaroti e delle "ciurme" tornare a lavorare nella tonnara non più ogni cinque anni, per mantenere il diritto esclusivo di pesca, ma costantemente ogni anno. Sarebbe prima però necessaria la definitiva abolizione delle cosiddette "spadare" che hanno provocato e continuano a provocare danni ingenti alla produzione ittica del bacino mediterraneo. Nel frattempo la Regione ha già invitato tutti gli organi di controllo a vigilare sull’applicazione dell’art. 87 del D.R. n. 1639 del 2/10/1968, il quale vieta la cattura, la commercializzazione e la vendita sottopeso delle specie ittiche pregiate, tra cui il "Thunnus Thynnus", cioè il tonno a carne rossa che viene pescato nelle tonnare.

Purtroppo però per un calo delle reti nella tonnara di Capo Passero occorrerebbe più di un miliardo di lire per coprire le spese principali: l’acquisto delle reti, il calafataggio dei vascelli, il riordino del pedale e soprattutto la paga dell’equipaggio che rappresenta la voce più consistente del bilancio. Del resto il Barone, così come fecero in passato i suoi antenati, ha già puntato tutto su questa tonnara impegnando tutte le sue risorse personali: "Abbiamo venduto il nostro Palazzo di Ispica (ora sede del Comune), realizzato dall’architetto Basile, autore dei progetti del Teatro Massimo di Palermo e di Montecitorio; ho personalmente venduto fior di vigneti per potenziare il mare a scapito della terra più fertile. Ho lasciato la mia Villa di Ispica, tanto bella quanto confortevole, ma ormai piena di ragnatele e di cartacce per vivere qui a Capo Passero da solo, a 74 anni, a morire di rabbia, a guardare questo mare che è la mia passione e la mia condanna".

L’Assessorato regionale alla pesca ha stanziato per la tonnara di Bonagia 700 milioni a titolo di rimborso spese per il calo della tonnara nel 1993. In tal modo è stato possibile calare le reti dell’impianto rimasto l’anno prima fermo per l’impossibilità del titolare della tonnara di anticipare le spese per il materiale e per pagare le spettanze a 65 tonnaroti. (Parrinello, Giornale di Sicilia del 22/03/1997).

Il contributo della Comunità Europea e della Regione Sicilia sarebbe determinante per il reperimento di fondi destinati al calo della tonnara di Capo Passero e soprattutto per l’impiego in maniera stabile, di decine e decine di lavoratori. In tal modo l’impianto dell’isola rinascerebbe sia in termini di rilancio economico, che in linea con l’art. 31 del disegno di Legge per il riassetto della pesca ed il "mantenimento delle tradizioni culturali e turistiche legate alla mattanza del tonno".

A Portopalo di Capo Passero, si cerca di imitare ciò che da anni viene realizzato a Favignana, cioè il calo effettivo delle reti collegato ad un turismo culturale desideroso di conoscere ed approfondire i vari aspetti di questa millenaria attività. Oltre che ad un periodo di cali sperimentali, si sta pensando poi ad un possibile allevamento del tonno in acquacultura.

In un convegno tenuto a Portopalo il 22 settembre 1997, il Prof. Doumange, ha spiegato il motivo per cui l’acquacultura rappresenterebbe per la tonnara un’ottima prospettiva per il futuro.

Il sistema della pesca indiscriminata del tonno sta gradualmente provocando l’estinzione della specie. Inoltre anche le risorse naturali si stanno esaurendo, per cui è probabile che presto ci si troverà nell’impossibilità di rifornire i mercati. Così come già avviene per il salmone, e per altre specie divenute ormai rare, anche per il tonno si utilizzerà presto per forza di cose, l’acquacultura.

Catturando i tonni con la tonnara, allevandoli ed ingrassandoli per un breve periodo, il loro valore economico diventerebbe circa 10 volte superiore. Così se ad esempio il tonno costasse circa 10 mila lire al chilo, in quelle condizioni raggiungerebbe le 100 mila lire al chilo, con notevoli benefici economici per tutti, proprietari e lavoratori compresi.

L’intento di Don Pietro e dell’Associazione è quindi quello di evitare che la tonnara di Capo Passero sia trasformata in un fossile e museificata. Le prospettive sono quelle di effettuare dei veri e propri cali, sperimentando l’acquacultura e aprendo gradualmente l’impianto ad un vantaggioso turismo culturale. Una volta riattivata la tonnara si potrebbero restaurare i malfaraggi abbandonati seguendo un valido progetto di riuso in tono con la tradizione. Inoltre sarebbe possibile realizzare un "museo del mare" espressione concreta dei vecchi mestieri della tonnara. Sarebbe un vero tuffo nel passato rispolverare la tipica lavorazione della "disa", a "curdicedda i Termini" fatta dalle donne, e quella dello "scupazzu", cioè della palma nana.

Si potrebbero poi inserire dei laboratori volti al recupero e alla valorizzazione di altre forme di artigianato. Si pensi per un attimo alla duplice utilità di una bottega per la lavorazione della pietra da taglio, che da un alto consentirebbe di recuperare le antiche metodologie del lavoro degli scalpellini, e dall’alto contribuirebbe ad una corretta e purtroppo necessaria restaurazione dell’architettura della tonnara. Lo stesso dicasi per la lavorazione del ferro battuto, del rame e per la realizzazione di opere di ebanisteria.

Sostiene al riguardo Giansiracusa che: "bisogna convincersi che la nostra è l’età del ritorno, ma non in termini di gretto attaccamento al passato, bensì nel senso di una maggiore presa di coscienza della quantità e della qualità del patrimonio accumulato dalla storia". (Giansiracusa, 1990 ).

Tutti gli amanti della cultura e dell’ambiente, primo fra tutti Don Pietro, rinnegano ogni forma di speculazione sulla tonnara di Capo Passero, e la museificazione indiscriminata, fine a se stessa. E’ assolutamente impossibile ricreare in un museo, la dimensione del tempo semplicemente illustrando ed esponendo i segni esteriori e gli strumenti ormai in disuso della pesca del tonno, sarebbe come apporre una pietra tombale su questa attività millenaria.

Per comprendere il vero valore e l’importanza di questa tradizione occorrono i tonnaroti, occorre risvegliare la tonnara dal suo lungo e deleterio letargo e soprattutto è necessario che la gente comune veda e visiti i suoi luoghi più caratteristici per trovarvi dentro non la "morte" ma la "vita" di un’attività simbolo della cultura marinara.

Le iniziative proposte e portate avanti dall’Associazione Amici di Capo Passàro sono valide e realizzabili previa la disponibilità ed il sostegno economico della CEE e della Regione.

Purtroppo è necessario trovare una rapida soluzione a ben due altri problemi che attanagliano la tonnara di Capo Passero: l’istituzione della "Riserva integrale dell’isola di Capo Passero" e la dislocazione di vasche di acquacultura nello specchio di mare che appartiene al "diritto esclusivo di pesca" della tonnara.

Queste enormi gabbie infatti interrompono e deviano il passaggio dei tonni, violando il diritto esclusivo sul territorio marino che spetta ai proprietari delle tonnare. Per sei mesi, da aprile a settembre il proprietario della tonnara diventa il padrone di tutto un tratto di mare fino a due miglia dalla costa. Ma al danno si aggiunge anche la beffa, perchè queste vasche oltre ad essere collocate in un’area non di appartenenza, subiscono periodicamente la rottura delle loro reti rendendo il mare un habitat assolutamente inadatto ai tonni, che si vedono costretti a cambiare rotta. Così il vecchio "padrone del mare" Don Pietro, si sente in realtà "padrone di nulla".

A spogliarlo dell’isola e di conseguenza della tonnara è stata la Regione siciliana con un decreto che egli definisce un " delitto" contro la proprietà privata. La Regione, non tenendo conto della natura privatistica dell’isola di Capo Passero, con proprio decreto l’ha dichiarata "Riserva Naturale Integrale" con preclusione totale a terzi e l’ha affidata, con una convenzione di sette anni ed un finanziamento annuo di 275 milioni di lire, all’Ente Fauna Siciliana. I fini della riserva sono la salvaguardia della "Crithum limonetum" e della palma nana, che, oltre tutto cresce ricca e fiorente in tutto il territorio compreso tra Siracusa e Gela.

Un articolo pubblicato sul quotidiano "Giornale di Sicilia" del 13 ottobre 1996 è intitolato in maniere piuttosto esplicita: "Capo Passero, una riserva inutile". La Legge (art. 2 L.R. 98/91 e 14/88) prevede che le Riserva Naturale Integrale abbia lo scopo di conservare l’ambiente naturale nella sua integrità con l’ammissione di soli interventi a carattere scientifico. Si evincono inoltre i seguenti corollari. Il territorio da istituire in riserva oltre ad avere particolari caratteristiche previste dalle norme, deve essere soggetto all’incontrollato intervento dell’uomo, cioè deve essere sottoposto ad atti di violenza tali da pregiudicare i caratteri naturali fondamentali. Nel territorio così scelto devono eseguirsi interventi a carattere scientifico per conservare l’ambiente naturale nella sua integrità.

Per l’isola di Capo Passero, istituita a riserva il 16 maggio 1995, non ricorrono affatto queste due condizioni: il paesaggio non è stato mai deturpato dall’uomo e quindi non sono stati mai pregiudicati i caratteri naturali fondamentali; l’isola di conseguenza non ha bisogno di interventi di carattere scientifico, in quanto è ancora integra, ed il suo territorio, per l’estensione, ubicazione, e confini, è già abbastanza tutelato dalla natura e da altre leggi. E’ abbastanza contraddittorio invece che da un lato lo Stato, a causa del suo ben noto deficit finanziario tenda a sottrarre i fondi destinati alle Regioni, e dall’altro arrivi a spendere una somma pari a 275.458.000 lire l’anno, senza ricavarne alcun beneficio per la collettività. Infatti questo stato di cose pregiudica il buon andamento della stagione turistica a causa della restrizione delle possibilità di accesso alle piccole spiagge dell’isola, sottoposte ad una pressione antropica (in realtà del tutto trascurabile) per un paio di mesi.

Anche il Comandante della Capitaneria di Porto, Federico Crescenzi, ha avuto parole dure nei confronti dell’istituzione della riserva e soprattutto dell’ente gestore, cioè l’Ente Fauna Siciliana.

In un’intervista rilasciata al "Giornale di Sicilia", Crescenzi ha affermato: "c’è da chiedersi chi li abbia finanziati (rivolgendosi all’Ente Fauna) per svolgere un servizio peculiare della Guardi Costiera. Rivendichiamo professionalità e capacità che altri non hanno, e quindi, se ci sono delle risorse in questo senso sarebbe bene che fossero destinate a noi". (Di Parenti, "Giornale di Sicilia", 22/09/97).

Amare riflessioni quelle del Comandante Federico Crescenzi, che l’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente non ha finora tenuto in considerazione e che non sono state nemmeno "captate" dalla Corte dei Conti, tanto attenta allo sperpero di pubblico denaro.

Comunque, ad esternare, anche se con grande self control, la propria rabbia ed il proprio dolore per l’istituzione della riserva è il Barone Pietro Bruno di Belmonte. Egli ritiene che, oltre allo scorno per l’isola, ha dovuto subire la beffa dell’impedimento a "calare" la tonnara.

A chi gli chiede il suo parere egli risponde: "un modo scorretto di procedere quello tenuto dalla Regione verso il proprietario dell’isola, cioè verso di me che, in tutti questi anni, nulla ho avuto comunicato in ordine a questa illegale e ignobile forma di esproprio tanto selvaggio quanto ipocrita. Ipocrita perché si è adottata la dichiarazione di Riserva Integrale per la tutela della palma nana al solo fine di non pagare una lira di risarcimento". L’isola è estesa oltre 350.000 metri quadrati: compresi i fabbricati il valore sarebbe di svariati miliardi. Ma l’amarezza più grande che si avverte nelle sue parole si unisce alla delusione quando egli discute del blocco della tonnara, il suo "sogno ricorrente".

La rabbia di Don Pietro è dovuta al fatto che la Regione ha ignorato che l’isola di Capo Passero fa parte integrante, di diritto e di fatto, della tonnara. Alla rocciosa scogliera dell’isola, infatti, viene attraccato l’immane peso dell’intero corpo della tonnara omonima mentre negli spazi e nei fabbricati, presenti nell’isola, i tonnaroti per secoli hanno effettuato i lavori preparatori delle barche e delle reti e dei mille attrezzi necessari al calo della tonnara.

Secondo il parere del Barone "invece di preservare la tonnara, questo magnifico pezzo di storia, questa fonte di benessere, la Regione l’ha smembrata". Don Pietro ha incaricato due avvocati affinché "venga fatta giustizia", ed egli possa finalmente ritornare in possesso dell’isola e della tonnara.

La vicenda della riserva dell’isola si aggiunge ad un altro caso che testimonia l’azione devastante di politici e burocrazia nonché lo spreco di pubblico denaro. Ci riferiamo al Castello Fortezza di Capo Passero posto ad est dell’isola. Il castello, a differenza dell’isola che è privata, è demaniale. Venne costruito nel 1500 da Carlo V e ricostruito, dopo la distruzione apportata dal pirata Dragut, dai netini. Una vera e propria fortezza con piano rialzato ed annessi la chiesa, il carcere, nonchè numerosi ambienti forse adibiti a quel tempo a magazzini e dormitori.

La Regione Siciliana nel 1981 erogò 300 milioni di lire per la sua ristrutturazione al fine di destinarlo a "Museo del Mare". Dopo diversi anni dal 1984 la ditta La Micela di Buscemi iniziò i lavori di ristrutturazione. Fra perizie e varianti suppletive il tetto dei 300 milioni fu "sfondato".

Comunque sta di fatto che i lavori, dopo diversi anni, vennero finalmente completati, ma vennero abbandonati i progetti relativi all’istituzione di un "Museo del Mare", di un "Laboratorio delle specie mediterranee" proposto dall’Università di Catania e di una serie di convegni internazionali.

Oggi il castello è abbandonato e presenta le devastazioni provocate dal tempo e dal vandalismo ricorrente e necessiterebbe di una nuova ristrutturazione.

Il castello e la tonnara di Capo Passero, i due simboli della cultura e della tradizione tipica del paese, sebbene immersi in un angolo di paradiso, contrastano con la bellezza naturalistica incontaminata dei luoghi, a causa dell’incuria e dell’abbandono cui sono stati e continuano ad essere soggetti. Gli ostacoli e i problemi che si sono frapposti nel corso degli ultimi anni non hanno però intaccato il loro fascino particolare e la magia di quei luoghi. Se la CEE e la Regione imposteranno delle politiche lungimiranti, si potrà operare al meglio per un loro rilancio e per la creazione di un polo di attrazione turistico di grandi proporzioni.

La regina delle trappole non è ancora morta, nè tanto meno è determinata ad abdicare; è decisa fermamente a riconquistare e ad esercitare incontrastata le sue funzioni ed il suo ruolo quale emblema eterno e duraturo della civiltà e della cultura marinara.

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(Tratto dalla Tesi di Laurea del Dott. Giovanni CHIAVARO: "LE TONNARE TESTIMONIANZA E RIUSO DI UN BENE CULTURALE E AMBIENTALE")