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quiLirica&dintorni a cura di Raffaello Malesci

Ory, i libertinaggi del conte
Sempre di gran classe l'impostazione scenica di Pier Luigi Pizzi, si difendono bene i cantanti



Come secondo appuntamento della stagione lirica il Teatro Grande ha proposto "Le Comte ory", melodramma giocoso in due atti, di Gioachino Rossini. L'opera fu composta nel 1828 utilizzando gran parte dei materiali del precedente "Viaggio a Reims" e narra dei tentativi del Conte Ory di circuire la bella contessa Adele. Il conte è però ostacolato nei suoi propositi dal proprio paggio che ama a sua volta la contessa. La storia si dipana intorno ai tentativi di Ory, travestito prima da frate e poi da pellegrina, e si conclude con il classico scambio di persona al buio fra la contessa e il paggio che ridicolmente si trova fra le braccia inconsapevoli del conte libertino. Come si può ben intuire l'impianto drammaturgico non riveste particolare importanza o profondità e l'opera si inserisce nell'ambito di una solida produzione tradizionale in cui il susseguirsi dei pezzi chiusi e dei concertati è abbastanza schematico. Ciò che fa la differenza nel nostro caso è la splendida concezione scenica di Pizzi che inscrive l'azione in un'architettura severamente neoclassica addolcita tuttavia dall'utilizzo di legno chiaro, donando al tutto un vago tocco di irrealtà che mantiene sempre l'opera sul filo dell'illusione teatrale con cui giocano consapevolmente anche gli interpreti. Per tutto il primo atto campeggia al centro della scena una grande botte che diviene fulcro dell'azione : in questa botte si pigia l'uva, da essa spunta per la prima volta il conte travestito da frate e la stessa si trasforma in confessionale per accogliere la contessa in cerca di conforto. Nel secondo atto questa viene sostituita da un grande tavolo intorno e sul quale avvengono la maggior parte delle azioni. La regia, ripresa per l'occasione da Paolo Panizza, non ha perso la sua efficacia sia per quanto riguarda i movimenti del coro, spassose le ragazze di campagna interpretate da aitanti giovanotti, sia per quel che riguarda i cantanti dove la severa classicità espressa dalla contessa si contrappone con la gaglioffa giocosità di tutti gli altri. Di grande classe e gusto i costumi tutti giocati su tinte uniformi e intense che creavano un buon contrasto con il legno chiaro della scenografia. Dal punto di vista vocale e scenico i cantanti dell'Aslico si sono difesi bene presentandoci uno spettacolo nell'insieme godibile e piacevole. L'interpretazione migliore della serata è stata sicuramente quella del soprano spagnolo Mariola Cantarero (La contessa Adele) che ha sfoggiato una voce di grande potenza e controllata da una tecnica accurata che le permetteva di affrontare senza problemi tutti i difficili passaggi di coloritura. Discreto ma meno incisivo il Conte interpretato da Marco Ferrato i cui acuti tendevano al falsetto. Professionali ma poco coinvolgenti il Governatore di Bruno Pestarino e l'Isoliero di Angelica Buzzolan. Delude invece Enrico Marabelli (Raimbaud) soprattutto nella grande aria del secondo atto (Dans ce lieu solitarie), un pezzo di carattere comico che dovrebbe trascinare la platea e che invece è risultato poco coinvolgente sia dal punto di vista scenico che vocale. Scenicamente tutte le parti comiche potevano essere caratterizzate con maggiore verve, si notava invece una certa preoccupazione sul dettato cantato il che non permetteva agli artisti, eccetto la Cantarero, di coinvolgere appieno il pubblico soprattutto nei pezzi solistici. Discreto il coro dell'Aslico più spigliato scenicamente che vocalmente. Corretta la direzione di Ottavio Dantone. Il pubblico, particolarmente scarso, ha applaudito calorosamente riservando un'ovazione al soprano Cantarero.


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